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Combattere le ingiustizie

Ad Auschwitz, Anina maturò la scelta di combattere le ingiustizie sempre

Nel 2013, un giorno d’estate, in memoria di quanto successe nel 1944, che fra il 31 luglio e l’1 agosto, in una sola notte, ad Auschwitz vennero assassinati nelle camere a gas 4.000 prigionieri dello Zigeunerlager, il campo degli zingari, in quel campo, arrivò in visita un gruppo di centinaia di giovani, rom e gagé (non rom), convocati dalla rete Ternype (gioventù in romanés). C’era tra loro una ragazza di ventidue anni, Anina C., che al pensiero della visita aveva trascorso la notte insonne. Arrivata di fronte alla vetrinetta dov’erano esposti dei vestiti da neonato, scoppiò a piangere. E non riuscì a calmarsi fino a quando quelle centinaia di giovani non si unirono in una marcia gloriosa, consapevoli che, nonostante tutto, il nazismo non aveva vinto.

Oggi Anina ha 31 anni, vive in Francia e lavora come avvocato. Rumena di Craiova, ha ottenuto la cittadinanza francese. È presidente dell’associazione, Aset93, che si occupa di far studiare i bambini dei quartieri disagiati. Ha raccontato la sua storia quattro anni fa in un libro dal titolo: Sono rom e ne sono fiera (Je suis tzigane e je le reste, nell’edizione originaria francese).

Nella Romania in cui Anina era nata, l’essere rom – e, soprattutto, il fatto di avere “una faccia da rom” – si pagava con la discriminazione, il razzismo, la perdita del lavoro. Per questo, dopo la caduta del comunismo, la famiglia aveva deciso di fuggire verso ovest.

Prima tappa, Roma: il degradato e degradante Casilino 900, oggi raso al suolo, dove i C. – padre, madre e quattro bambine – avevano abitato in baracca e tentato di sopravvivere chiedendo l’elemosina. Dopo sei mesi si erano spostati in Francia, attratti dal sogno di vivere nel «Paese dei diritti umani». Anche lì, però, stenti, umiliazioni: per Anina e le sue sorelle, giornate intere passate a mendicare con la mamma mentre il padre tentava di rimediare di che vivere vendendo giornali di strada e mesi d’angoscia nel terrore di essere espulsi. Fino all’incontro con una insegnante che prese a cuore la sorte di quella famiglia stretta nella tenaglia fra pregiudizi e burocrazia. Con l’aiuto di quella donna, Anina trovò lo slancio per avviare una brillante carriera negli studi che l’avrebbe portata a laurearsi nella prestigiosa Università della Sorbona e a diventare avvocato per combattere l’ingiustizia, quella stessa che fin da bambina aveva sentito pesare sulla sua famiglia.

In un tempo in cui la pandemia moltiplica povertà e ingiustizia, val la pena ricordarsi di una bambina la cui sorte è stata rivoluzionata dalla cura e dall’attenzione di una donna di buona volontà. «Se ognuno fa qualcosa – era il motto di don Pino Puglisi, il parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, ucciso dalla mafia – allora si può far molto».

La storia di Anina C. dimostra che aveva ragione. (Scarp de’ tenis, Febbr. 2021).

 
 
 
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