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Saper "vedere"

Post n°3802 pubblicato il 17 Novembre 2022 da namy0000
 

Disabilità, saper “vedere” oltre per costruire una società giusta

Esiste, purtroppo, il pregiudizio secondo cui il soggetto con disabilità, in particolare psichica e psichiatrica, in virtù del suo deficit, appartenga a una specie di “umanità inferiore”. Tali soggetti, più che tanti altri individui con disabilità, sono stigmatizzati dalla società in quanto ritenuti non solo svantaggiati ma anche “infantili”, caratterizzati da quel “ritardo” che un tempo ne definiva la diagnosi e oggi costituisce, per lo più, motivo di offesa e di scherno. Questa condizione è di ostacolo per il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali (previste nella Costituzione e nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità) e rende difficile l’emergere delle potenziali individuali, certamente presenti in essi, ma indubbiamente offuscate. Dignità, motivazione e autostima rischiano, pertanto, di essere negate e calpestate, nel momento in cui il soggetto con disabilità è considerato incapace di sostenere alcun tipo di apporto alla società, in particolar modo se adulto. Con il rischio di generare una dolorosa emarginazione. Ho riflettuto a lungo sul concetto di “adultità” della persona con disabilità psichica. Questa, al contrario di quanto si possa pensare, così come per tutti noi del resto, attraversa le diverse fasi della vita.

Esistono modi diversi di concettualizzare l’essenza dell’essere adulto – anche se sono prevalenti i concetti di “individuazione” e “autodeterminazione” – ed esistono modi diversi con cui un individuo, a seconda della propria storia di sviluppo, delle proprie caratteristiche neurobiologiche e delle opportunità che gli sono offerte, realizza la sua particolare “adultità”. Una particolarità della condizione di disabilità è la dipendenza del contesto. Diventare adulti significa aumentare e migliorare i successi di individualizzazione (cioè di conoscenza di sé) e di separazione (cioè di raggiungimento di una propria autonomia e indipendenza). Non esiste, quindi, una sola “adultità” ma tante. I genitori dovrebbero, quindi, essere mediatori e facilitatori del processo di crescita del figlio con disabilità intellettiva, del suo processo di autonomia, sapendo che l’iper-protezione provoca nel soggetto con disabilità (come del resto anche nel soggetto con sviluppo tipico) un atteggiamento passivo e ne ostacola lo sviluppo, la motivazione, l’autostima e l’autonomia. In tal modo il soggetto con disabilità non può compiere esperienze formative, né mettersi a confronto con gli altri e con se stesso e di conseguenza non è in grado di assumere un ruolo e partecipare alla vita sociale della collettività sentendo (come dovrebbe) di farne parte e ritenendosi protagonista della propria esistenza e del proprio progetto di vita. In tal caso, il soggetto con disabilità, come spesso avviene, subisce un danno, non potendo godere dei diritti fondamentali e delle libertà tipiche di ciascun individuo. Sarebbe utile, pertanto, porsi alcune domande: sono in grado di consentire a tale soggetto di riconoscersi adulto dinanzi ai miei sguardi e comportamenti? Sono in grado di immaginare adulto un bambino con disabilità intellettiva e fare in modo che tale immagine si realizzi nel tempo? Infine: sono disposto ad accettare l’idea che il soggetto con disabilità possa diventare un adulto? – Giacomo G. (FC, 13 novembre 2022).

 
 
 
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