Creato da namy0000 il 04/04/2010

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Lasci un segno positivo

Questi figli subito in prima linea. Come la lettera di un padre ai giovani medici

Come mi sentirei io, se fossi il padre di un neolaureato o di una neolaureata in Medicina o in Infermieristica che viene mandato in ospedale, nel pieno dell’emergenza coronavirus? Me lo sto chiedendo da ieri, festa di san Giuseppe e dei papà. E, devo ammettere con estrema onestà, fatico a rispondere. Avverto nel cuore un vortice di sensazioni confuse, un turbinio di sentimenti contrapposti: da un lato l’orgoglio di chi, attraverso un familiare, è consapevole di portare un contributo prezioso, ancorché piccolo, in un momento così delicato, dall’altro lato – però – non posso tacere un senso di incertezza e di precarietà. La paura, in altri termini, che il proprio figlio o figlia si trovi, non per colpa sua, davanti a una sfida di proporzioni immani, chiamato a una partita troppo ardua.

Le statistiche dicono che il Covid 19 non debella i ventenni e i trentenni, che le sue vittime hanno soprattutto i capelli bianchi. Ma vorrei che, per un attimo, vi metteste nei panni di due amici miei, la cui figlia, infermiera appunto fresca di laurea, si trova a operare in una residenza per anziani in una località della Lombardia. Un posto ad alto rischio, non tanto per lei, quanto per gli ospiti: nella Bergamasca (e non solo lì), infatti, il virus ha colpito duro all’interno di comunità, di vario tipo, formate da over 65. Se anche la ragazza in questione non subirà personalmente contraccolpi di tipo sanitario, mi chiedo, a quali contraccolpi andrà inevitabilmente incontro?

Quanto, dello stress accumulato e, ancor più, della sofferenza per persone conosciute viste repentinamente morire, resterà attaccato alla sua giovane pelle e a quella di tanti suoi colleghi, proprio come questo maledetto virus resta incollato a tante superfici, nel tempo? Sono domande che in questi giorni non mi lasciano in pace. Siamo in guerra, continuiamo a ripetere. E, a tutti gli effetti, è così: anche se vorremmo espungere quanto più possibile dal nostro linguaggio le metafore belliche, non v’è altro modo per dipingere – con realismo ed efficacia – quanto stiamo tutti vivendo, seppur in modo profondamente diverso.

Ebbene. Un secolo fa, all’indomani della tragedia di Caporetto, un’altalena di sentimenti e una selva interrogativi simili ai miei con ogni probabilità albergava anche nel cuore di tanti genitori che vedevano partire i figli per il fronte e li accompagnavano – facile indovinarlo – con un misto di ansia, paura e trepidazione. Del resto, cos’altro erano i “ragazzi del ‘99”, se non una generazione di giovani, appena ieri adolescenti, passati di colpo dalla famiglia alla prima linea? Viene in mente un verso di Gabriele D’Annunzio: «La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!». Non c’è nulla di sdolcinato o di retorico in tutto questo. A differenza di tanti “ragazzi del ‘99”, i nostri giovani, mandati in corsia freschi di alloro accademico, torneranno a casa, da questa esperienza in prima linea.

Torneranno, sebbene ora si trovino a cimentarsi con una malattia che non era descritta su nessuno dei manuali a loro assegnati per lo studio. Ma torneranno indubbiamente cambiati, come del tutto trasformati tornarono i “ragazzi del ‘99” scampati alla carneficina della guerra: infinitamente più maturi e graniticamente solidi nelle convinzioni, perché dimostratisi capaci di rischiare per ciò che vale. Per i nostri giovani medici neolaureati che si trovano oggi in corsia, per la prima volta con la responsabilità di medico a tutti gli effetti, il vero esame comincia ora. L’augurio, da papà, è che, come tutte le prove autentiche, un’esperienza del genere – che nessuno di loro ha cercato o s’era mai immaginato – lasci un segno positivo nel cuore e nella mente, tempri il carattere delle persone, ne affini la sensibilità, educhi ad apprezzare in lavoro in squadra (nessun uomo è un’isola, men che meno un medico). E aiuti ciascuno a capire, una volta di più, ciò che davvero conta nella vita.

(Gerolamo Fazzini, Avvenire, 20 marzo 2020)

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