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Speculazione

2022, Avvenire 13 gennaio

Speculazione. La crisi in Kazakistan dimostra tutta la pericolosità dei bitcoin

Il governo del Kazakistan aveva creduto davvero che diventare la patria dei cercatori di bitcoin fosse una grande idea. Nel giugno del 2020 Askar Zhumagaliyev, ministro dell’Innovazione, aveva presentato un progetto sviluppato con “esperti internazionali” per attirare i “minatori” di criptovalute nell’ex repubblica sovietica, che così avrebbe potuto approfittare della febbre del trading che aveva già contagiato mezzo mondo. Ai cercatori di bitcoin non occorre molto. La loro attività, il mining, consiste nel mettere computer estremamente potenti al lavoro sui calcoli per decriptare i blocchi di transazioni della blockchain, il sistema informatico non centralizzato alla base della criptovaluta.

Il primo gruppo di computer che completa il calcolo valida un blocco di transazioni e ottiene un bitcoin come ricompensa. Per fare un lavoro di questo tipo servono i computer, una connessione a Internet affidabile, abbondante energia elettrica a basso costo: con computer di media efficienza l’estrazione di un singolo bitcoin consuma circa 143mila kWh di elettricità. In Kazakistan la rete web non era un problema e l’energia abbondava. Grande esportatrice di carbone, petrolio e gas naturale, la sterminata nazione asiatica ha «una capacità energetica più che doppia rispetto alla sua domanda », come scrive l’Agenzia internazionale dell’energia nella sua ultima analisi sulla situazione del Paese. A 5,5 centesimi di dollari per kWh, il prezzo dell’elettricità kazaka è tra i più bassi del mondo, circa un quarto di quello italiano e metà di quello cinese.

Zhumagaliyev aveva fatto i suoi calcoli: il governo avrebbe potuto attirare investimenti da 300 miliardi di tenge in tre anni (sono circa 600 milioni di euro) dai minatori di bitcoin e guadagnare parecchio tassando anche solo una piccola parte della ricchezza che avrebbero generato. Pochi mesi dopo Zhumagaliyev è stato allontanato dal governo (ora è ambasciatore nei Paesi Bassi) ma il suo piano è andato avanti. Secondo i dati dell’università di Cambridge, gli unici che tracciano con un certo grado di affidabilità l’attività di ricerca di bitcoin nel mondo, nel luglio 2020 il Kazakistan faceva meno del 5% del mining mondiale. Un anno dopo la quota era già salita a quasi il 9%. Poi le cose sono andate fuori controllo.

Nel maggio del 2021 la Cina, che ospitava quasi il 50% dell’attività mondiale di ricerca dei bitcoin, ha messo al bando il mining nell’ambito di una strategia di contrasto al trading speculativo e di contenimento dei consumi energetici. È iniziato il grande esodo dei miners. Molti hanno trovato rifugio in Kazakistan. Giganti del settore come BIT Mining, Canaan o Xive hanno annunciato il trasloco di migliaia di computer dalle megalopoli cinesi alle aree nei pressi di Nur-Sultan (la capitale che fino al 2019 si chiamava Astana) e Almaty. La quota kazaka nell’attività mondiale di mining è raddoppiata nel giro di un’estate, fino a raggiungere il 18% nell’agosto del 2021. È allora che sono iniziati i problemi. L’autorità che gestisce la rete elettrica kazaka ha iniziato a segnalare scompensi: le vecchie infrastrutture elettriche non erano in grado di sostenere il brusco aumento dei consumi nelle aree in cui lavoravano i computer dei cercatori di bitcoin. Sono iniziati i periodici blackout nei villaggi, le interruzioni programmate dell’elettricità, il contenimento delle forniture per le attività più energivore, a partire proprio dalle “miniere” di bitcoin.

A livello nazionale il Paese si è trovato nell’inedita situazione di importare elettricità dalla Russia, a caro prezzo, perché i consumi, cresciuti dell’8% in un solo anno, avevano sorprendentemente superato la produzione delle centrali a carbone e a gas che producono quasi tutta l’elettricità kazaka. Il presidente Kassym-Jomart Tokayev, in una riunione con i banchieri del Paese, a novembre ha iniziato a parlare di ritorno al nucleare, abbandonato da vent’anni, per riportare in equilibrio il sistema. «Il ruolo di un leader è prendere decisioni impopolari» ha spiegato in quell’occasione Tokayev, con parole che appaiono tristemente profetiche dopo che il presidente kazako ha ordinato all’esercito di sparare sulla folla. Ai problemi della rete elettrica si è aggiunta la delusione economica.

Già all’inizio dell’estate Bagdam Musin, che ha preso il posto di ministro di Zhumagaliyev, ha ammesso che l’aumento degli incassi promesso anche dalle associazioni dei miner non c’è stato: «Vediamo arrivare gli investimenti dei miner, ma ci sono poche entrate fiscali. Non vediamo migliaia di persone impiegate in questo settore». Nel tentativo di guadagnarci qualcosa, il governo kazako ha provato a introdurre una tassa, non particolarmente pesante, sui consumi elettrici delle miniere dei bitcoin. La tassa è entrata in vigore il primo gennaio 2022. Troppo tardi. I problemi tecnici e il cambiamento di atteggiamento del governo, prima ancora delle rivolte, hanno fatto capire ai miner che era di nuovo il momento di sloggiare. Alla fine di novembre il Financial Times raccontava l’inizio del grande trasloco delle macchine dei miner dal Kazakistan verso altri lidi: la vicina Russia o, soprattutto, gli Stati Uniti, la cui quota nell’attività mondiale di mining è balzata dal 4 al 35% nel giro di un anno. Non è scontato però che il governo americano abbia voglia di ospitare molto a lungo i cercatori di bitcoin.

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