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STRISCIA DI GAZA. La Guerra

«Non vedo nessuna prospettiva politica né a breve né a lungo termine per fermare questo conflitto, soccorrere la popolazione palestinese di Gaza stremata dalla fame e dalle bombe e studiare un piano per la necessaria ricostruzione», dice il Patriarca latino di Gerusalemme Pizzaballa, d’origine bergamasca. «La guerra sembra aver travolto tutte le relazioni e le dinamiche politiche, sociali, religiose ed economiche. Viviamo una Pasqua di mestizia, è difficile fare festa. Facciamo molta fatica a vedere la Risurrezione. A Gaza, finora, la guerra ha ucciso più di 30.000 persone. A Gerusalemme c’è uno scenario surreale. Non ci sono pellegrini, tranne pochissimi gruppi di asiatici che arrivano prevaletemente da India e Indonesia. Siamo al centro della tempesta. È tempo di mettere da parte la paura e di riprendere la via del pellegrinaggio, che è una forma concreta di aiuto a tutte le popolazioni che vivono qui. Il mio ruolo è quello di facilitare il dialogo tra le parti e tenere aperti tutti i canali di comunicazione anche se in questo momento è difficilissimo e non si vedono molte prospettive né a breve né a lungo termine. Si fa molta fatica a mediare perché questa crisi tra israeliani e palestinesi, la più grave degli ultimi 70 anni, ha polarizzato le posizioni e indurito i cuori di tutti. Ci sono diverse preoccupazioni. La prima, di breve termine, è la situazione drammatica in cui vive la popolazione di Gaza che è affamata e stremata. Faccio fatica al momento a vedere soluzioni reali, pratiche e concrete. Ci sono tanti progetti e idee ma si tratta di iniziative che richiedono molto tempo mentre invece la fame non aspetta e richiede misure efficaci e immediate. La seconda, di lungo termine, è che non vedo nessuna prospettiva politica per la fine della guerra. Così sarà molto difficile avere la pace e pensare alla ricostruzione. Su ci sono interpretazioni diverse. Bisogna prendere sul serio l’appello di papa Francesco che invoca il cessate il fuoco immediato e invita a cercare di risolvere il problema attraverso la politica, unica strada possibile. Per farlo, bisogna avviare il dialogo tra le parti e capire chi saranno gli interlocutori. Non ci sono altre vie. Siamo su una china dove tutto può precipitare o invece, se c’è la buona volontà, rientrare. Con la parrocchia di Gaza, cerchiamo di venire incontro, per quanto possibile, alle loro richieste d’aiuto, ma ultimamente sta diventando molto difficile non solo far arrivare gli aiuti, ma anche trovarli. Nel complesso ortodosso sono ospitate circa 200 persone e in quello cattolico 500. Ci sono circa 60 disabili, curati dalle suore di madre Teresa, anziani, bambini, donne sole, molti musulmani. Sono molto colpito dalla testimonianza di fede che la comunità cristiana di Gaza sta offrendo perché, pur vivendo una situazione orribile, è stanca e ferita ma in pace. È legittimo esprimere il dissenso sulla politica del Governo israeliano, ma questo non giustifica nessuna forma di antisemitismo e di razzismo. Questo mi preoccupa molto. Noi non siamo contro Israele, ma vogliamo che i palestinesi abbiano diritto a una vita dignitosa nel proprio Paese, e questo richiede il rispetto di tutti. Non si tratta di scegliere se stare con gli uni o con gli altri, ma di accogliere tutti nella propria prospettiva».

“Il mondo si è polarizzato. Ma dovete spronare i leader a sedersi al tavolo e dialogare”, dice la portavoce dell’organizzazione Parents Circle-Family Forum, organizzazione che riunisce famiglie israeliane e palestinesi, dal 1995, con sede in Israele e in Cisgiordania. «È dura, viviamo un periodo davvero difficile. È un miracolo che, in questa situazione, associazioni come la nostra impegnate per la pace, continuino a lavorare. Oggi, a causa della guerra, per noi famiglie israeliane e palestinesi è più difficile icnontrarsi fisicamente. Migliaia di palestinesi della Cisgiordania, che lavoravano in Israele ora non possono più spostarsi verso il luogo di lavoro. Questo significa che la situazione economica è disperata. Le conseguenze del conflitto sono ignorate. Alcune famiglie che vivevano nella parte meridionale di Israele si sono unite alla nostra organizzazione e invocano la pace. Questo è straordinario e mi permette di continuare a coltivare la speranza. Israele conta una miriade di iniziative per la pace, ci sono gruppi e associazioni che, come Parents Circle, lavorano per il dialogo e la convivenza. Eppure, la narrazione predominante all’estero è quella di due popoli irriducibilmente opposti, nemici. In questo momento viviamo la guerra e la gente di entrambe le parti è terrorizzata. Da un lato, vediamo le atrocità che accadono a Gaza. Dall’altro, sappiamo che 200.000 israeliani hanno dovuto lasciare le loro case nel Sud e anche nel Nord, al confine con il Libano. È un momento difficile per parlare di riconciliazione. A me non importa quale tipo di soluzione politica si prenda, l’importante è che i leader arrivino a trattare. E chi può spingerli a farlo sono gli Stati Uniti e l’Europa. Il mondo si è fortemente polarizzato sul conflitto. Tutti sono diventati esperti del conflitto mediorientale. A ognuno piace schierarsi da una o dall’altra, prendere in mano una bandiera. Ma così facendo voi non siete parte della soluzione, siete parte del problema. Dopo il 7 ottobre 2023 ho viaggiato tanto, sono stata in America, a Londra, anche a Milano. Probabilmente molti degli studenti che ho incontrato scendono in piazza con le bandiere dell’una o dell’altra parte. Ma io propongo loro di diventare parte della soluzione, cercando di spronare i loro leader a sedersi al tavolo e dialogare. I bambini che stanno vivendo questa guerra che adulti potranno diventare? Ora sono tutti gravemente traumatizzati ed è una situazione che dobbiamo affrontare. Ogni anno noi di Parents Circle organizziamo un campo estivo con i bambini israeliani e palestinesi. Lo scorso anno, il 21 settembre, i ragazzini hanno firmato un documento per la pace e la riconciliazione. Due settimane dopo è scoppiata la guerra. E questi bambini, molti dei quali hanno avuto un lutto in famiglia, hanno cominciato a provare odio e rifiuto gli uni verso gli altri. Ora noi stiamo lavorando con loro per riavvicinarli, stimolandoli a mettersi ognuno nei panni dell’altro. Non potendo organizzare al momento un campo estivo in Israele e nei Territori palestinesi, vogliamo portare 50 di loro a Cipro e stiamo raccogliendo fondi per poterlo fare. Questi ragazzini sono gli ambasciatori del nostro futuro».

NEVE SHALOM – WAHAT AL-SALAM, fondato nel 1972, che significa Oasi di pace e riprende un versetto del profeta Isaia: “Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace”. Fondato da padre Bruno Hussar, nella cui vicenda personale è racchiuso lo spirito di questa comunità. Nato in Egitto da genitori ebrei, Hussar studia al Cairo con compagni arabi, poi si trasferisce per l’università a Parigi, dove si converte al cattolicesimo, divenendo nel 1950 sacerdote domenicano. Su un terreno del monastero di Latrun le prime famiglie israeliane e palestinesi hanno iniziato a costruire un futuro diverso, con il messaggio di padre Hussar impresso nei cuori: la pace è un’arte che non si improvvisa, ma può essere insegnata. Quei primi nuclei oggi sono diventati 80 famiglie dove i genitori continuano a voler crescere i propri figli in un Paese dove le due comunità non siano separate l’una dall’altra, ma in ascolto delle reciproche storie e identità. Il dialogo è incoraggiato fin da bambini, con classi miste, dove si parla sia ebraico che arabo. Lì si racconta la storia dei due popoli e si celebrano insieme le festività religiose di tutti: ebraiche, musulmane, ma anche cristiane. Questo modello educativo è stato poi ripreso da altre scuole in Israele e negli anni ha attratto tanti bambini che arrivano qui da ben 19 centri limitrofi. È così che nasce la rivoluzione, quella che consente di vedere nell’altro un compagno di banco. Una persona da conoscere, non un nemico da odiare. Dopo l’attacco terroristico di Hamas, del 7 ottobre 2023, ad oggi, nessuno ha lasciato il villaggio abdicando al progetto di una comunità in dialogo costante. Anche grazie al ruolo della Scuola per la pace nata nel 1979: i suoi facilitatori, israeliani e palestinesi, aiutano bambini, insegnanti e genitori a mantenere la loro resilienza, affrontando la crisi che sta portando morti e dispersi tra parenti e amici di entrambe le parti.

 Nel villaggio tra Gerusalemme e Tel Aviv, abitano ebrei e musulmani che formano un’unica comunità, fondata sui valori del dialogo e del rispetto. Un progetto utopico faticosamente costruito nell’arco di oltre 50 anni. Questa è l’unica comunità presente in Israele in cui famiglie ebree e musulmane – con cittadinanza israeliana – abitano insieme in un regime di piena parità e rispetto dei diritti di tutti.

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