Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Marzo 2020

Medici

«Oh mio Dio, dovrò morire sulla breccia, nell’esercizio del mio dovere, ma fa’ che io sia l’ultimo ». Chi ha pronunciato queste strazianti parole è il dottor Matthew Lukwiya, stroncato dal virus Ebola il 20 novembre 2000 nell’ospedale St. Mary di Gulu, in Uganda. come sta accadendo per tanti camici bianchi alle prese con l’epidemia di Coronavirus – hanno testimoniato la loro fede rimanendo in trincea, fino all’ultimo. Lukwiya era uno dei medici più preparati dell’intera Uganda. Dopo gli studi a Londra aveva scelto di tornare nella sua Africa per mettersi a servizio dei più deboli, in nome della sua fede. Una fede che, nel 1989, lo porta – lui anglicano – a offrirsi ostaggio ai miliziani del Lord Resistence Army, al posto dello staff medico, in gran parte cattolico, sotto minaccia di sequestro. Quando il dottor Matthew esala l’ultimo respiro ha solo 43 anni; lascia moglie e cinque figli. La comboniana Dorina Tadiello, a lui vicina, così lo ricorda: «Dall’inizio dell’epidemia lui era ogni giorno in reparto. Conosceva i malati per nome e, oltre a quella clinica, conosceva anche qualcosa della storia personale di ciascuno di loro». Quando si presentano i primi sintomi di Ebola, il medico cerca di sdrammatizzare. Ma non può non misurarsi con le domande più scomode: «Suor Dorina, chi potrà mai capire i piani del Signore?».

Due giorni prima di Lukwiya, Ebola si era portato via Grace Akullo, un’infermiera di 27 anni. Nel diario di fratel Elio Croce, comboniano che ha tenuto il diario dell’epidemia, leggiamo: «Grace è morta circondata da tutte le infermiere. Diceva che era preoccupata e dispiaciuta per i suoi due figli gemelli di quattro anni. Sia suor Dorina che Matthew erano in lacrime ed era Grace che li incoraggiava. Matthew dice che non ha mai visto morire una giovane donna con tanto coraggio, fede ed abbandono nelle mani del Signore, cosciente fino all’ultimo respiro».

Erano suore, ma molto più giovani (fra i 25 e i 35 anni), anche le 40 religiose che, in un arco di tempo compreso fra il 1930 e il 1960, hanno pagato con la vita la scelta di stare accanto ai malati di tubercolosi. Stavolta siamo in Italia e l’altare del martirio è l’Ospedale Pizzardi di Bologna, dedicato alla cura delle malattie polmonari, tra cui la Tbc. Appartenevano alla congregazione delle Piccole suore della Sacra Famiglia e operavano come infermiere dando assistenza giorno e notte ai malati. Perfettamente consapevoli del rischio cui andavano incontro in un contesto tanto delicato, una quarantina di loro hanno contratto la Tbc che le ha portate alla morte, tra sofferenze indicibili. La loro storia sconosciuta e la straordinaria testimonianza di carità resa è stata riportata alla luce pochi anni fa da Antonio Socci, giornalista e scrittore che si è personalmente misurato col mistero della malattia, a seguito di un grave incidente capitato alla figlia Caterina.

Tanto nascosta è rimasta, a lungo, la vicenda di queste religiose, tanto – invece è diventato noto a livello internazionale, nel giro di poco tempo, il gesto di coraggio compiuto nel 2003 da Carlo Urbani, nel pieno dell’epidemia della Sars. Il medico marchigiano, infatti, è stato il primo a individuare sul campo la Sindrome respiratoria acuta severa, ma quella scoperta gli è costata la vita. Al momento della sua morte, Urbani operava in Asia da qualche anno, come esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’area del Pacifico occidentale, dopo aver rifiutato un posto da primario all’ospedale di Macerata. Il 28 febbraio 2003 all’ospedale di Hanoi visita un paziente che non si riesce a curare e che sta infettando il personale sanitario. Intuita la gravità della malattia, molto contagiosa, Urbani allerta l’Oms, ma non riesce a portare in salvo se stesso. Muore all’ospedale di Bangkok, all’età di 47 anni. Il suo caso suscita un moto di ammirazione e cordoglio internazionale.

L’abnegazione di tutti questi “martiri in corsia” è la medesima che contraddistinse la vita (e la morte) di Joseph de Veuster, divenuto famoso come padre Damiano, che dedicò tutte le sue energie ai lebbrosi relegati nell’isola di Molokai, nell’arcipelago delle Hawaii. Nel 1873 il religioso belga si offrì volontario per impegnarsi nel lebbrosario di quella remota località, abbandonata da tutti, in una fase storica in cui la lebbra era un male incurabile, assai temuto, specie per le deformità che determinava. A Molokai padre Damiano realizzò un orfanotrofio e scuole, offrì conforto spirituale e materiale ai malati dell’isola e costruì un cimitero per dare degna sepoltura ai cadaveri. Morto di lebbra nel 1889, all’età di 49 anni, è stato canonizzato nel 2009. Finire contagiato da coloro cui prestava servizio, poveri e malati delle periferie torinesi, è stato anche il destino di Piergiorgio Frassati. Figlio del fondatore della “Stampa”, il giovane – amante della montagna e degli scherzi fra amici – si ammala improvvisamente e muore per una poliomelite fulminante. È il 5 luglio 1925; di lì a poco si sarebbe laureato in Ingegneria: una facoltà scelta perché lui, figlio della Torino bene, voleva condividere la sorte dei minatori. (Avvenire, 24 marzo 2020).

 
 
 

Ai tempi del coronavirus

Post n°3286 pubblicato il 23 Marzo 2020 da namy0000
 

2020, FC n. 12 del 22 marzo.

Oggetto: Rivolte nelle carceri dopo lo stop ai colloqui disposto dal governo a causa del coronavirus.

Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, ha chiesto a tutti senso di responsabilità ‹‹in questo momento di grande smarrimento per il nostro Paese››. In una lettera aperta ai ristretti delle carceri italiane ha provato a distendere gli animi dopo le violente proteste che nei giorni scorsi hanno portato a 13 morti e a otre 1.500 trasferimenti negli istituti di pena. Certo, in questi luoghi tutto viene amplificato e l’annuncio dello stop ai colloqui con le famiglie ha fatto da detonatore a un’insofferenza che da sempre serpeggia tra i detenuti. ‹‹Sicuramente alla base delle violenze››, dice don Grimaldi, ‹‹ci sono delle valide ragioni, richieste che da tempo non vengono ascoltate››, il sovraffollamento in primo luogo, però nelle carceri ci sono anche tantissimi volontari, operatori, cappellani ‹‹che lavorano per voi, per il vostro bene, che aiutano ad affrontare il vostro disagio››, che sono lì ‹‹per donarvi la carezza di Dio Padre che non giudica, ma guarisce e perdona››.

Proprio pensando a questo, mentre il Garante per i detenuti chiarisce all’amministrazione penitenziaria che ‹‹la possibilità di video-telefonate, in quanto sostitutiva di colloqui visivi diretti, è estesa a tutte le persone detenute indipendentemente dal livello di sicurezza del circuito di appartenenza››, l’ispettore delle carceri chiede, anzi urla a chi ha causato macerie e morti: ‹‹Ritornate sui vostri passi! Siate uomini e donne responsabili, attendete le risposte con pazienza. Superate questo momento di delusione e di sconforto per tutti con un gesto di vera riconciliazione, offrendo la vostra volontà, la vostra disponibilità anche a riparare ciò che avete distrutto››. Intanto ringrazia i ‹‹tanti reclusi che non si sono lasciati contagiare dal “virus” dei disordini››.

‹‹In tanti hanno compreso il momento che vive il Paese e le misure da seguire per non contagiare sé stessi e le proprie famiglie››, sottolinea anche don Marco Pozza, teologo e cappellano della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Il sacerdote, nonostante tutto, resta convinto che ‹‹anche dietro la sofferenza più nera si cela la speranza››. Una speranza che lui e la giornalista e volontaria Tatiana Mario hanno raccolto e offerto al Papa per la Via Crucis di quest’anno. Le meditazioni, che collegano tutte le voci, da quelle delle vittime a quelle degli agenti di Polizia penitenziaria, a quelle dei volontari, hanno profondamente commosso il Papa. ‹‹Mi sono sentito fratello di chi ha sbagliato››, ha scritto Francesco quando gli sono state consegnate, ‹‹e anche fratello di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita della scarpata››.

 
 
 

Enciclica di papa Paolo VI

POPULORUM PROGRESSIO

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
PAOLO PP. VI

INTRODUZIONE

 

LA QUESTIONE SOCIALE È QUESTIONE MORALE

Sviluppo dei popoli

1. Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa. All’indomani del Concilio Ecumenico Vaticano II, una rinnovata presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico le impone di mettersi al servizio degli uomini, onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di una azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità.

Insegnamento sociale dei papi

2. Nelle loro grandi encicliche, "Rerum novarum" di Leone XIII, "Quadragesimo anno", di Pio XI, "Mater et magistra" e "Pacem in terris" di Giovanni XXIII - senza contare i messaggi al mondo di Pio XII  -, i nostri predecessori non mancarono al dovere, proprio del loro ufficio, di proiettare sulle questioni sociali del loro tempo la luce del vangelo.

Il fatto maggiore

3. Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prender coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale. Giovanni XXIII l’ha affermato nettamente, e il concilio gli ha fatto eco con la sua costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si tratta di un insegnamento di particolare gravità che esige un’applicazione urgente. I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello.

I nostri viaggi

4. Prima della nostra chiamata al supremo pontificato, due viaggi, nell’America latina (1960) e in Africa (1962), ci avevano messo a contatto immediato con i laceranti problemi che attanagliano continenti pieni di vita e di speranza. Rivestiti della paternità universale, abbiamo potuto, nel corso di nuovi viaggi in Terra Santa e in India, vedere coi nostri occhi e quasi toccar con mano le gravissime difficoltà che assalgono popoli di antica civiltà alle prese con il problema dello sviluppo. Mentre ancora si stava svolgendo a Roma il Concilio ecumenico Vaticano II, circostanze provvidenziali ci portarono a rivolgerci direttamente all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. E davanti a quel vasto areopago ci facemmo l’avvocato dei popoli poveri.

Giustizia e pace

5. Infine, recentemente, nel desiderio di rispondere al voto del concilio e di volgere in forma concreta l’apporto della santa sede a questa grande causa dei popoli in via di sviluppo, abbiamo ritenuto che facesse parte del nostro dovere il creare presso gli organismi centrali della chiesa una commissione pontificia che avesse il compito di "suscitare in tutto il popolo di Dio la piena conoscenza del ruolo che i tempi attuali reclamano da lui, in modo da promuovere il progresso dei popoli più poveri, da favorire la giustizia sociale tra le nazioni, da offrire a quelle che sono meno sviluppate un aiuto tale che le metta in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso": Giustizia e pace è il suo nome e il suo programma. Noi pensiamo che su tale programma possano e debbano convenire, assieme ai nostri figli cattolici e ai fratelli cristiani, gli uomini di buona volontà. È dunque a tutti che noi oggi rivolgiamo questo appello solenne a una azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità.

 
 
 

In prima linea

Post n°3284 pubblicato il 22 Marzo 2020 da namy0000
 

Coronavirus. Noi preti in prima linea. Ma per giocare di squadra

Maurizio Patriciello, Avvenire, sabato 21 marzo 2020

Sulla croce, mai come adesso, i preti italiani condividono in tutto la sorte del popolo affidato alle loro cure. Soprattutto quando per loro celebrano la Messa davanti ai banchi vuoti.

Domenica 23 novembre 1980, un terribile terremoto sconvolge la Campania, la Lucania e si estende fino alla Puglia e alla Calabria. Una catasfrofe. Giovane infermiere, due giorni dopo sono già in Irpinia. Piove a dirotto, macerie e fango dappertutto. Freddo, dolore, incredulità, morte. La solidarietà umana fu stupenda; gli imbrogli, le ruberie, le furbizie, la camorra, verranno dopo e saranno, come sempre, deprimenti.

Quando l’uomo sa tirare fuori il meglio da se stesso, quando sa scorgere in chi implora aiuto non “l’inferno” da fuggire, ma il paradiso da conquistare, viene “promosso a uomo”.

Volli correre. Non farlo mi era vietato. Non dalla legge ma dalla mia coscienza. Fu lei a liberarmi dalla paura e a mettermi le ali ai piedi. Era rischioso? Certamente e lo sapevo. Ma la vita, in fondo, non è un continuo rischio? A chi sa mettere a repentaglio la propria per salvarne altre vanno appuntate le medaglie d’oro.

Non ero prete in quel lontano 1980; anzi, a dire il vero, nemmeno più cattolico. Quando i fratelli soffrono non si può rimanere affacciati alla finestra, quando implorano il tuo aiuto, non soccorrerli è atto criminale. Il male, la cattiveria, il cinismo, il disprezzo possono, purtroppo, anche suscitare reazioni simili. Non così accade davanti alle lacrime di una mamma, di una nonna, di un giovane che ti guardano con il terrore di non farcela. Penso che la solidarietà tra gli uomini sia la sola virtù capace di farci sentire membri di una sola, grande famiglia.

Dopo l’incontro con Gesù travestito da frate francescano, sono diventato prete, a servizio della Chiesa e del popolo di Dio. Un popolo che non si esaurisce entro i confini della mia parrocchia, ma che incontro ovunque, per strada, in treno, in aereo, sui social. Da prete sto vivendo questa orribile pandemia insieme a tutti gli italiani, cosciente che il “sì” pronunciato nel giorno della mia ordinazione deve essere ripetuto ogni giorno, anche davanti a un plotone di esecuzione.

Il primo desiderio alla notizia di ciò che stava accadendo al Nord – in Lombardia ho tantissimi cari amiche e amici – è stato quello di correre, andare, fare qualcosa. Rendermi utile, portare conforto, dare una mano, anche attingendo alla mia antica professione. Sia detto senza finta umiltà e senza ostentazione, non è la paura del martirio a tenere a casa me e tanti miei confratelli in questi giorni, ma l’obbedienza che dobbiamo in quanto italiani e preti alle legittime autorità civili – quando non ci chiedono cose che vanno contro la coscienza e la fede – e religiose. Obbendienza che in questi giorni non ci è stata chiesta per motivi ideologici o politici, ma per amore verso i fratelli. Oggi il bisogno di volare a fare agli altri ciò che vorrei fosse fatto a me, se l’invisibile nemico decidesse di attaccarmi, deve fare i conti con la peculiarità di questa catastrofe.

Oggi non serve l’eroe solitario, ma un lavoro di squadra ben organizzato, dove ognuno deve fare in pieno la sua parte, e solo quella. Per il bene di tutti. Oggi anche la superbia e la vanità, che si annidano dappertutto, devono lasciare spazio all’umiltà. Solo stando insieme, condividendo scienza, intuizioni, professioni, sostanze, esperienze, possiamo camminare fiduciosi verso la speranza. Il virus non bada alle frontiere; non conviene lasciarlo prosperare tra i poveri, i senzatetto, i profughi, gli immigrati, perché rimarrebbe una minaccia per tutti. Oggi cristiani e non cristiani possono riflettere insieme e meglio sul desiderio di Gesù: «Ut unum sint».

Fare la volontà di Dio vuol dire non arroccarsi caparbiamente sulle proprie convinzioni, facendone magari un idolo, ma essere pronti a partire o a rimanere fermo, come Lui comanda. A spenderti, come tanti cari confratelli in servizio negli ospedali e nelle case di cura, al punto da non avere nemmeno il tempo di pregare il Vespro, o rimanere a casa a bussare al cuore del buon Dio per ore. So di certo che tanti giovani preti sarebbero pronti a partire per il fronte, se fosse loro richiesto. Il dramma è che non sappiamo dove sia situato il fronte dove si nasconde l’invisibile nemico.

L’Italia e il mondo sono diventati una sola trincea. Dopo aver pianto la scomparsa dei numerosi sacerdoti lombardi, stiamo piangendo la morte di don Alessandro, il primo prete campano a oltrepassare la soglia dell’eternità a causa del coronavirus. Aveva solo 45 anni, questo caro confratello. «Chi parla della croce deve essere pronto a salire sulla croce» scriveva padre Nazareno Fabbretti. È vero. Sulla croce, in attesa della risurrezione, mai come adesso, i preti italiani condividono in tutto la sorte del popolo affidato alle loro cure. Soprattutto quando per loro celebrano la Messa in una chiesa con i banchi vuoti. Una tristezza e un dolore immenso, mitigato solo dalla certezza di compiere la volontà di Dio.

 
 
 

Lasci un segno positivo

Questi figli subito in prima linea. Come la lettera di un padre ai giovani medici

Come mi sentirei io, se fossi il padre di un neolaureato o di una neolaureata in Medicina o in Infermieristica che viene mandato in ospedale, nel pieno dell’emergenza coronavirus? Me lo sto chiedendo da ieri, festa di san Giuseppe e dei papà. E, devo ammettere con estrema onestà, fatico a rispondere. Avverto nel cuore un vortice di sensazioni confuse, un turbinio di sentimenti contrapposti: da un lato l’orgoglio di chi, attraverso un familiare, è consapevole di portare un contributo prezioso, ancorché piccolo, in un momento così delicato, dall’altro lato – però – non posso tacere un senso di incertezza e di precarietà. La paura, in altri termini, che il proprio figlio o figlia si trovi, non per colpa sua, davanti a una sfida di proporzioni immani, chiamato a una partita troppo ardua.

Le statistiche dicono che il Covid 19 non debella i ventenni e i trentenni, che le sue vittime hanno soprattutto i capelli bianchi. Ma vorrei che, per un attimo, vi metteste nei panni di due amici miei, la cui figlia, infermiera appunto fresca di laurea, si trova a operare in una residenza per anziani in una località della Lombardia. Un posto ad alto rischio, non tanto per lei, quanto per gli ospiti: nella Bergamasca (e non solo lì), infatti, il virus ha colpito duro all’interno di comunità, di vario tipo, formate da over 65. Se anche la ragazza in questione non subirà personalmente contraccolpi di tipo sanitario, mi chiedo, a quali contraccolpi andrà inevitabilmente incontro?

Quanto, dello stress accumulato e, ancor più, della sofferenza per persone conosciute viste repentinamente morire, resterà attaccato alla sua giovane pelle e a quella di tanti suoi colleghi, proprio come questo maledetto virus resta incollato a tante superfici, nel tempo? Sono domande che in questi giorni non mi lasciano in pace. Siamo in guerra, continuiamo a ripetere. E, a tutti gli effetti, è così: anche se vorremmo espungere quanto più possibile dal nostro linguaggio le metafore belliche, non v’è altro modo per dipingere – con realismo ed efficacia – quanto stiamo tutti vivendo, seppur in modo profondamente diverso.

Ebbene. Un secolo fa, all’indomani della tragedia di Caporetto, un’altalena di sentimenti e una selva interrogativi simili ai miei con ogni probabilità albergava anche nel cuore di tanti genitori che vedevano partire i figli per il fronte e li accompagnavano – facile indovinarlo – con un misto di ansia, paura e trepidazione. Del resto, cos’altro erano i “ragazzi del ‘99”, se non una generazione di giovani, appena ieri adolescenti, passati di colpo dalla famiglia alla prima linea? Viene in mente un verso di Gabriele D’Annunzio: «La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!». Non c’è nulla di sdolcinato o di retorico in tutto questo. A differenza di tanti “ragazzi del ‘99”, i nostri giovani, mandati in corsia freschi di alloro accademico, torneranno a casa, da questa esperienza in prima linea.

Torneranno, sebbene ora si trovino a cimentarsi con una malattia che non era descritta su nessuno dei manuali a loro assegnati per lo studio. Ma torneranno indubbiamente cambiati, come del tutto trasformati tornarono i “ragazzi del ‘99” scampati alla carneficina della guerra: infinitamente più maturi e graniticamente solidi nelle convinzioni, perché dimostratisi capaci di rischiare per ciò che vale. Per i nostri giovani medici neolaureati che si trovano oggi in corsia, per la prima volta con la responsabilità di medico a tutti gli effetti, il vero esame comincia ora. L’augurio, da papà, è che, come tutte le prove autentiche, un’esperienza del genere – che nessuno di loro ha cercato o s’era mai immaginato – lasci un segno positivo nel cuore e nella mente, tempri il carattere delle persone, ne affini la sensibilità, educhi ad apprezzare in lavoro in squadra (nessun uomo è un’isola, men che meno un medico). E aiuti ciascuno a capire, una volta di più, ciò che davvero conta nella vita.

(Gerolamo Fazzini, Avvenire, 20 marzo 2020)

 
 
 

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