Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Gennaio 2021

Francisco come Greta

2021, Avvenire 29 gennaio.

Francisco, 11 anni, il fratellino colombiano di Greta: «Il clima siamo noi»

Il piccolo Vera Manzanares ha cominciato a mobilitarsi per l’ambiente nel 2016 e ha creato i «Guardianes por la vida» di cui fanno parte 220 ragazzini. L’appoggio Onu ma anche le pesanti minacce

«Non siamo solo il futuro. Siamo in questo Pianeta adesso e abbiamo il dovere di proteggerlo, ora. Spesso pensiamo che i problemi riguardino sempre gli altri, confinati in parti del mondo troppo lontane per toccarci. Il Covid ha dimostrato che ci sbagliamo. Un’epidemia esplosa in Cina si è diffusa ovunque. Lo stesso accade con il cambiamento climatico: mette a rischio la vita qui in America Latina come in Europa o negli Usa, solo più lentamente. Non è solo una questione ambientale: è un dramma sociale come dice papa Francesco nella Laudato si’. Le sue parole sono condivisibili ma non sconvolgenti. Se non fosse per il fatto che a pronunciarle è un bambino di 11 anni, la cui altezza – un metro e trenta – è inversamente proporzionale a verve, maturità, linguaggio forbito e buone maniere.

Francisco Vera Manzanares di Villeta, a 90 chilometri da Bogotà, ha iniziato la prima media il 18 gennaio. Frequenta l’istituto Siglo XXI e, nel tempo libero, non si stanca di chiedere ai Grandi del suo Paese e del mondo di agire contro la distruzione della Terra. Francisco non si limita a manifestare, ogni venerdì, con i Fridays for future, di cui è portavoce nazionale. Nel 2019, a nove anni, ha creato il gruppo “Guardianes por la vida”, che conta 220 bimbi e adolescenti ed è diffuso anche in Messico e Argentina ed è stato chiamato in Senato a esporre la propria opinione.

Ogni marcia, inoltre, “Fran”, come gli piace essere chiamato, ne approfitta per raccogliere i rifiuti che trova sulla strada. Non sorprende, dunque, che i media l’abbiano ribattezzato il «fratellino di Greta Thunberg». «A me non piacciono i paragoni. Ammiro lo straordinario lavoro di Greta ma viviamo in contesti molto diversi e ognuno ha la propria personalità», afferma. Già, i contesti sono distinti: la Colombia è, secondo Global Witness, il Paese più pericoloso al mondo per gli attivisti ambientali. Nel 2019 ne sono stati assassinati 64, l’anno scorso altri 53. Nemmeno gli 11 anni hanno messo al riparo Francisco dall’essere minacciato via social: è accaduto il 15 gennaio. La vicenda ha provocato un moto di indignazione non solo nazionale. Il presidente Iván Duque ha garantito massimo impegno nel trovare i responsabili, mentre l’Alta commissaria Onu, Michelle Bachelet, gli ha fatto recapitare una lettera di elogio e sostegno.

Che effetto ti fa essere famoso?
Non ci penso né mi interessa. Sono un bambino come tutti gli altri: la mattina faccio i compiti, il pomeriggio seguo le lezioni e quando posso vado in bicicletta, gioco su Internet a Maingraf, porto a passeggio il mio cane, Pinky. Non mi sento diverso dai miei coetanei perché mi preoccupo della sopravvivenza, mia, dei miei cari e di tutti.

I tuoi amici che cosa dicono del tuo essere attivista?
All’inizio non sanno. Però quando parlo con loro e spiego le mie ragioni tanti si appassionano.

Come ti sei appassionato?
Vivo in una piccola città, circondata dalle Ande, le case hanno tutte un piccolo terreno dove ruzzolano le galline e si coltiva la yucca. Appena fuori dal centro ci sono radure, boschi e ruscelli, dove abitano moltissime specie animali. Sono cresciuto osservandoli e ho imparato ad amarli. Ho iniziato con il difendere i loro diritti e, poi, pian piano, mi sono reso conto che non era sufficiente.
Perché non può esserci vita né per loro né per noi in un Pianeta distrutto dal riscaldamento globale.

Come hai fatto a rendertene conto?
Leggendo. Mi piace molto leggere. Fin da piccolissimo mia madre, un’assistente sociale, e mio papà, un avvocato, mi hanno trasmesso l’amore per i libri. Leggo di tutto ma soprattutto la filosofia e le fisica, oltre alle scienze sociali. Mi interessa ciò che accade e non sopporto l’ingiustizia.

Hai deciso che cosa vuoi fare da grande?
Di certo vorrei studiare astrofisica. Però mi piacerebbe anche fare il presidente.

Hai citato «Laudato si’». Non mi dire che hai letto anche l’Enciclica...
Invece sì. E anche Fratelli tutti. Non intere, però, solo alcuni capitoli. Mi sono piaciute molto. Ha ragione papa Francesco quando ci esorta a costruire un’ecologia integrale, cioè un’ecologia rispettosa dell’ambiente e delle persone che vi abitano. Custodire la casa comune vuol dire proteggere la vita mia, tua, di tutti. La sera dico le preghiere con la mamma e, ogni volta, ringrazio Dio proprio per il dono di vivere. È quanto di più prezioso abbiamo. Qualcuno dice che recito un copione scritto dai miei genitori. Credo che faccia comodo pensarlo.
Se anche un bambino è in grado di capire che non esiste un “pianeta B”, come possono non farlo gli adulti?

 
 
 

Più forte del male

Post n°3522 pubblicato il 29 Gennaio 2021 da namy0000
 

Io, Joy, più forte del male che ho subìto

Joy, in inglese gioia. Sua madre aveva scelto per lei questo nome perché la sua nascita era stata un dono, una luce in quella stanza poverissima che ospitava la sua famiglia a Benin City, in Nigeria. Un nome che le è stato strappato via. Schiacciato senza pietà, da parte di chi voleva ridurre in pezzi il suo corpo e la sua anima. Eppure, nel calvario che l’ha portata via dall’Africa, attraverso il deserto, i lager libici, la tratta e la schiavitù in Italia, Joy ha difeso con coraggio la sua identità, aggrappandosi a una fede incrollabile.

 

Mariapia Bonanate, giornalista, scrittrice, editorialista di Famiglia Cristiana, un giorno visita Casa Rut e nel New Hope store, il negozio in cui si vendono i manufatti variopinti creati nella sartoria etnica incontra il sorriso di Joy. La storia di quella ragazza le entra nel cuore. E nasce il desiderio di raccontarla in un libro: Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta (San Paolo edizioni). Joy ci restituisce la sua drammatica esperienza di viaggio, con la semplicità dei testimoni che, raccontandosi, danno voce a Dio: in ogni dettaglio della sua storia, infatti, Dio le è accanto, come un protagonista nascosto, silenzioso, ma non per questo inerte nelle vicende narrate.

Solamente dopo il suo approdo in Italia, Joy ha scoperto di essere stata ingannata e di essere caduta nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Questi percorsi di disumanizzazione sembrano presentare una costante nella loro “genesi”, nel modo in cui hanno inizio: l’essere costretti a lasciare il proprio Paese d’origine, per andare a infoltire le periferie delle grandi metropoli. Dispersi nell’anonimato, questi “invisibili” smarriscono progressivamente quei punti di riferimento identitario che li ancorano alla propria cultura (…). Nel suo cammino verso la libertà, Joy ci indica due realtà fondamentali: anzitutto, la fede in Dio che salva dalla disperazione….

 

Joy accetta. «Ho visto tante donne sulla strada, che soffrono, che hanno perso la loro vita. Cosa posso fare per loro?», spiega. «Io pensavo che la mia vita fosse finita, invece sono rinata. Il mio desiderio è dare una speranza alle altre donne. Anche se morissi domani, sono contenta di aver lasciato qualcosa di buono per gli altri».

 

Joy oggi ha 27 anni. La sua via crucis è cominciata nel febbraio 2016, raggirata in casa da persone a lei vicine: dall’Europa arrivano notizie delle tragedie del Mediterraneo, della fine a cui le migranti africane spesso sono destinate. «Chi vive nei villaggi sperduti non ha modo di informarsi, pensa che l’Europa sia un paradiso. Ma nelle città le notizie arrivano. Il problema è che a ingannarti spesso sono persone molto vicine, magari della tua famiglia. A volte le sorelle mandano le sorelle, le madri chiamano le figlie in Europa. Nel mio caso, è stata una pastora della nostra chiesa che mi ha fatto il lavaggio del cervello e mi ha convinta a partire». In Nigeria, osserva Joy, i diritti umani vengono calpestati. «La donna non vale niente, deve stare relegata in cucina e fare figli. Viviamo come schiavi nel nostro Paese, prede dei trafficanti di esseri umani».

 

Lasciata la Nigeria, Joy si ritrova inghiottita in un vortice infernale: in Libia viene deportata da un campo di detenzione all’altro, abusata dai trafficanti arabi, stuprata tante e tante volte, straziata, comprata e venduta come merce di scambio, schiava del sesso. Poi, la traversata su un barcone, l’arrivo in Italia. A Castel Volturno (Caserta) comincia «una seconda Libia», anche peggiore della prima, perché la persona che qui avrebbe dovuto proteggerla, la madam nigeriana, si rivela un’aguzzina che la ricatta e la manda sulla strada a prostituirsi. Per soggiogare le ragazze i trafficanti nigeriani usano anche l’arma dei riti voodoo. «È la nostra religiosità animista tradizionale», spiega Joy, «radicata anche fra i cristiani. Ma le persone cattive ne abusano per manipolare gli altri».

La madam le affibbia il nome di Jessica. «Non ero più una persona, io non esistevo più». Joy ripercorre quei mesi terribili, gli uomini che si prendono ciò che vogliono e si voltano dall’altra parte quando lei prova a chiedere un aiuto. «Spesso se ne andavano senza pagare. Nessuno di loro ti chiedeva chi sei, perché eri lì sulla strada». Gli uomini: se si tocca questo argomento, lei si rifugia nel silenzio. Troppo profonde le ferite che tanti le hanno inferto. «Quando cammino per la strada sono diffidente, avverto gli occhi su di me e ho paura. Non mi fido. Non so se riuscirò mai a fidarmi di nuovo».

Ma è grazie a un mediatore culturale africano che lei è riuscita a rivolgersi alla polizia, a liberarsi dalle catene della schiavitù, a denunciare. A Casa Rut l’hanno accolta a braccia aperte, guardata con amore, ascoltata, mai giudicata. A piccoli passi Joy ha riconquistato fiducia in se stessa. Lavora e studia. È forte, determinata: «Vorrei studiare psicologia. Fin da bambina ho sempre avuto il dono di aiutare gli altri. Portavo la croce al collo e parlavo alle persone del Vangelo. A un certo punto ho anche pensato di diventare suora: “Aspetta, ci sono tanti modi per aiutare le persone, anche senza prendere i voti”, mi hanno detto. Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto. Fin da piccola ho sempre saputo che il mio cammino sarebbe stato sofferto. Ma oggi ho raggiunto ciò che desideravo, sono ciò che volevo essere. Oggi sono felice».

 
 
 

In uno stabile milanese

Post n°3521 pubblicato il 29 Gennaio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 28 gennaio

Un condominio ai tempi del Covid.

In uno stabile milanese dalle parti del Sempione, quelle vecchie case in cui tutti si conoscono, una settimana fa un anziano condomino viene ricoverato in ospedale per Covid. Medico in pensione, vedovo da poco, due figli, lo si vedeva qualche volta con una nipotina, e fino a un anno fa con la moglie e, sempre, l’inseparabile cagnolino nero, che aveva adottato al canile. Anche adesso che era rimasto solo il dottor B. andava a fare la spesa, e al mercato. Un’eleganza d’altri tempi nel vecchio loden, ogni mattina comperava il suo giornale e col cane se ne tornava a casa, adagio. Un giorno invece lo vidi con 'la Padania' in tasca, e compresi che era politicamente in crisi. Però al mendicante nero all’angolo dava sempre una moneta, e diceva buongiorno. Un uomo garbato, disorientato da quella sua città che a poche centinaia di metri ora alzava le audaci torri di City Life. «Chissà perché – mi disse un giorno, osservandole mentre entrambi pascolavamo il cane all’aiuola – oggi devono costruire i grattacieli storti».

E dunque il dottor B. viene portato via una sera e se ne va solo, nel grido doloroso della sirena d’ambulanza. Per qualche giorno nel condominio nessuno ne ha notizie. Poi incontro il suo dirimpettaio e domando: come sta il dottor B.? Quello mi guarda: «Ma come, non sa? È morto ormai da tre giorni». Ah, rispondo io spiazzata, ma e il funerale, quando è stato? «Nessun funerale, sa, per via del Covid, è stata solo benedetta la bara...». Capisco, insisto un po’ smarrita, ma non ho visto nemmeno un annuncio di lutto sul portone... Il vicino allarga le braccia, non sa cosa replicare. Io rincaso incupita: è così che si può morire oggi a Milano. Non solo nella solitudine, ma nel silenzio assoluto. Nemmeno un biglietto in portineria. Semplicemente si scompare.

E non è un caso unico: un collega mi racconta di una giovane vicina straniera, madre di due bambini: anche per lei nessun annuncio di funerale, né un drappo nero sul portone. Mi domando: succede perché i familiari vengono colti di sorpresa da quella rapina che è il Covid, un male che porta via in tre giorni? È perché anche i parenti sono annichiliti, che dimenticano di partecipare il lutto? O non è forse per un’assurda oscura vergogna, un non voler parlare di quel morbo contagioso, nel timore di sentirsi guardare come infetti? Penso a come andava con la morte a Milano, e in tutta Italia, quando ero bambina. Il portone coperto da pesanti drappi di velluto nero e viola già diceva: la morte è passata di qui, e allora anche noi bambini rincasavamo zitti, senza strillare. Il defunto veniva portato via da casa, dov’era stato vegliato, e la bara sul carro s’avviava verso la chiesa. Ricordo cortei lunghissimi e il traffico che rispettosamente si fermava, muto. Non partiva solo, chi moriva, e ognuno andava a fare le condoglianze alla famiglia. La morte, per un giorno, prendeva dimora fra i vivi. Poi se ne andava, ma ciascuno l’aveva vista, e almeno un po’ aveva condiviso il lutto.

Ora, certo, in tempi di pandemia doverosamente si evitano affollamenti e contatti. Ma un funerale, ben distanziati, comporta davvero più rischi di un supermercato nell’ora di punta? E due righe almeno, su un foglio listato di nero? Giusto per dire: il signor B. se ne è andato. C’è qualcosa di nuovo, c’è uno strappo dall’Italia che conosciamo, nel partire senza una parola. Come se quel signore gentile non fosse mai vissuto qui.

Tra i padroni di cani alla solita aiuola qualcuno prima o poi noterà che manca non tanto il dottor B., quanto il suo cane nero. E il padrone? Alzeranno le spalle: «Mah, forse è andato a passare i mesi freddi in Liguria. Beato lui che può...». E al dottore che non torna, a primavera, non faranno più caso. O forse qualcuno sì. E questa, tenace, è la speranza.

 
 
 

Un mondo nuovo: una sola famiglia

Post n°3520 pubblicato il 26 Gennaio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 23 gennaio.

Shoah. Le piccole ebree salvate da don Guido: «Quei disegni in cima alla chiesa...»

Nel 1941 una quindicina di bimbe trovarono rifugio nella chiesa romana di Santa Maria ai Monti. Il ricordo di don Francesco Pesce, successore di don Guido Ciuffa

«Per di qua... ecco, entrate!». Una porticina spalanca una vecchia scala a chiocciola che da dietro l’altare s’arrampica in alto per più di venti metri. Passa sopra l’abside e poi ancora più su diventa una scaletta a pioli che conduce fin sotto il campanile in un corridoio stretto e lungo. È il parroco della chiesa romana di Santa Maria ai Monti, don Francesco Pesce, a farci largo quassù con la luce della torcia risalendo il tempo. Un tempo che ci riporta a quell’interminabile inverno del ’43, quando la Città Eterna è occupata dai nazisti e migliaia di ebrei vengono deportati nei campi di sterminio. Perché è qui, nella soffitta di questa chiesa cinquecentesca nel cuore dello storico rione Monti di Roma, a due passi dal Colosseo, che una quindicina di bambine ebree del quartiere vengono nascoste e salvate dai rastrellamenti.

«Albergo all’ombra di queste volte» è scritto sulla parete del cunicolo ad altezza di bambino, sopra, una firma a carboncino: «Aida Sermoneta». Più in là disegni: case, un campanile, soldati armati, bambini stilizzati. La sagoma di una donna vestita in modo elegante, «potrebbe rappresentare la Regina Ester che in mano ha forse una kallà, il pane dell’offerta per gli ebrei» spiega il parroco illuminando con la torcia il disegno. La gran parte delle bambine erano ospitate dalle suore del Sacro Cuore nella Casa delle Neofite adiacente alla parrocchia. Nei momenti più difficili, quando i nazisti setacciano le case e bussano ai conventi del rione, vengono nascoste nella semioscurità di questo cunicolo in cima alla chiesa. «Era il mio predecessore, don Guido Ciuffa, a metterle in salvo. Una di loro è ancora in vita – racconta don Francesco – non ha mai dimenticato il rumore dei passi dei soldati sui sampietrini che salivano da via Baccina… la sofferenza di sentirsi senza i genitori e la paura di quando venivano chiamate a scappare e rifugiarsi quassù, salire in fretta la scala a chiocciola e correre qui lungo il cunicolo dove aspettavano a volte per molto tempo che passasse l’emergenza guardando la lampadina che vacillava appesa al soffitto». Il filo elettrico di quella lampadina c’è ancora. E sotto ancora leggibili i nomi: Matilde - Carla, Clelia - Anna.

Ai tempi in cui Roma è città aperta e alla mercé dei tedeschi, tra le mura e i vicoli della città si consuma una guerra di fuggiaschi e nascondigli. In questa Roma assediata dove le croci uncinate sostano sotto le finestre del Papa, i nazisti catturano quasi duemila ebrei. Muoiono nei campi di concentramento, alle Fosse Ardeatine. All’incirca diecimila, invece, sopravvivono nascondendosi in case private, nei conventi e nelle parrocchie, negli ospedali, nelle istituzioni e nei territori della Santa Sede, alcuni di quelli che sono venuti in aiuto ai perseguitati sono stati riconosciuti come ‘giusti’. Ormai è noto il lungo elenco delle istituzioni cattoliche che nei quartieri romani hanno accolto ebrei per nasconderli e salvarli da quel tributo di sangue che Roma, che la comunità ebraica ha pagato ad Auschwitz e alla Shoah. La storica parrocchia del Rione Monti, nella popolare Suburra con l’allora parroco Guido Ciuffa, appartiene a quest’elenco. La lapide commemorativa è stata posta accanto alla sagrestia nel 2007, quasi a suggello del grazie rivolto dalla comunità ebraica della capitale alla chiesa monticiana per le vite salvate durante quell’inverno. Il testo dell’iscrizione recita: «Il parroco della Madonna dei Monti, le Figlie della Carità e le Figlie del Sacro Cuore accolsero i figli di Israele perseguitati ed oppressi. All’ombra di queste mura trovarono rifugio ed ebbero salva la vita». Volutamente riprende le parole scritte sul muro del rifugio sotto il campanile. E proprio da una di quelle superstiti allora bambine è partita l’iniziativa dell’iscrizione marmorea. Le loro identità sono sempre state tenute sotto riserbo. Un riserbo che nel tempo è stato rispettato. Ma le loro storie dentro la storia di quel tempo sono custodite nella memoria del rione. Come i nomi delle sue famiglie: i Di Veroli, Di Consiglio, Di Castro…

Quando il 16 ottobre del ’43 svegliate all’alba di quel sabato nero, intere famiglie di ebrei romani vennero con violenza stipate nei camion e deportate, nelle memorie della Casa delle Neofite attaccata alla chiesa così è scritto: «Il numero delle alunne aumenta. In casa nostra un via vai, come dire un flusso e riflusso di persone che chiedono ospitalità. Talune giovani ripararono qui. Altre per sottrarsi a pericolose ricerche si è aderito oltre i limiti possibili. La Madre Superiora pregata e consigliata da rispettabili sacerdoti ne ha accolte un buon numero, 60 e forse più, con bimbi e bimbe, che fra noi dicono di sentirsi tranquille. È accresciuto il da fare, ma è opera di misericordia e Dio ne terrà conto. La fiducia in Lui solo, ci sostiene; ma quando finirà questa guerra sterminatrice?». Don Francesco richiama dall’oblio la storia di uomini e donne comuni che, quando il male ha bussato alle loro porte, hanno mostrato nella fratellanza un grande coraggio. Mentre usciamo su via dei Serpenti ci racconta la storia delle famiglie ebree di questo rione che erano parte integrante del tessuto sociale della parrocchia. Erano famiglie romane e dunque da tutti considerate parte della stessa famiglia, del popolo di Dio. E proprio questo collante solidale della rete popolare si è reso ancora più forte durante il tempo della barbarie. «Ci sono testimonianze di vera fratellanza che noi conserviamo» ricorda don Francesco, e fermandosi in mezzo alla piazzetta davanti alla chiesa racconta di quando proprio qui la gente del rione strappò via dalla follia nazista la piccola Ester della famiglia Di Veroli. «Avventandosi sul commissario – racconta – gli pestarono i piedi e tutti gridavano: “È mia sorella! È mia sorella!…Laciatela perde!». Guardando verso il campanile si scorge la finestrella della scala a chiocciola… «Quelle bambine – dice don Francesco – sono state salvate da questo stesso amore: quello delle suore, del parroco… quello di un intero popolo che qui si è fatto una sola famiglia».

 
 
 

Anche il paracetamolo

2021, FC n. 4 del 24 gennaio.

IL VACCINO PUO’ FERMARE IL KILLER, FIDATEVI

Sull’orlo della più ampia campagna di vaccinazione di massa della storia, serpeggiano tra le persone domande e obiezioni che vengono “rimbalzate” su di noi attraverso mail, commenti Facebook, chiacchiere quotidiane.

Ecco le risposte alle domande che la gente si sta facendo e che abbiamo rivolto al professor Alberto Mantovani, immunologo di fama internazionale, direttore scientifico dell’Humanitas di Milano, professore emerito di Patologia generale all’Humanitas University.

Si è fatto tutto in fretta, non sappiamo che c’è dentro. Come ci fidiamo se neppure tutti i medici aderiscono alla vaccinazione?

Siamo in un’emergenza senza precedenti: tra noi un killer uccide, genera sofferenza, povertà, disuguaglianza. Il bisogno di fermarlo ha fatto sì che ci siano stati investimenti enormi. Nessun passaggio è stato saltato e sappiamo esattamente che cosa c’è nei vaccini anti-Covid. Già milioni di persone sono state vaccinate nel mondo e ci siamo arrivati presto, non partendo da zero, ma da un bagaglio di conoscenze: il vaccino con Rna trae vantaggio da molti anni di ricerca sul cancro. Quelli su piattaforma adenovirus che arriveranno hanno precedenti nel vaccino contro ebola. Riguardo ai medici, tanti danno cattivo esempio e fumano. Non per questo inizio a fumare.

Un’infermiera inglese è svenuta in diretta. Aspetterei un po’ prima di vaccinarmi.

Ci sono persone che si emozionano: io stesso, da medico, sono stato poco bene la prima volta che sono entrato in sala operatoria. Alcuni svengono facendo un prelievo di sangue, è normale. Ho fatto le vaccinazioni consigliate alla terza età (influenza pneumococco, influenza, herpes), ma solo questa volta ho avuto palpitazioni per l’emozione di sapere che finalmente abbiamo un’arma. Nessun vaccino provoca in sé svenimenti, l’emozione invece fa scherzi.

C’è chi dice che alterano il Dna.

È un timore infondato vecchio di secoli: quando si cominciò a vaccinare contro il vaiolo, all’inizio dell’Ottocento, si vedevano vignette con persone cui spuntavano corna di vacca perché si inoculava vaiolo vaccino. Quando iniettiamo l’antipolio Salk introduciamo una cosa che codifica tantissimi Rna, ma non ci siamo mai preoccupati di modificazioni genetiche, perché non ce ne sono.

Qualcuno si è infettato dopo il vaccino.

Accade, se si è stati esposti al virus prima della vaccinazione e perché gli anticorpi arrivano a 14 giorni dalla prima dose, ma non sappiamo quanto durano. La protezione completa si ha solo dopo il richiamo.

Se dopo il vaccino non posso togliere la mascherina a che serve?

Al momento non siamo ancora in grado di dare “passaporti di immunità” perché non sappiamo ancora quanto duri esattamente la protezione che il vaccino dà. E perché nessun vaccino protegge il 100% delle persone: una ogni tanto non risponde. Quando il contagio è raro, questo non è un problema, ma con questo virus che circola molto bisognerà proteggersi ancora un po’.

Ma allora a che serve?

Serve molto, dopo il richiamo metterò ancora la mascherina, ma andrò tra le persone e nel mio ospedale con più tranquillità. Non solo, sappiamo che il primo vaccino approvato protegge almeno per 6 mesi, quanto basta, come per l’influenza, per superare la stagione invernale, ma si spera che duri di più.

E se fossi io il raro caso che ha una reazione grave?

Anche il paracetamolo, che io prendo per controllare il mal di testa, in casi molto rari può dare tossicità epatica, ma il beneficio, certo, di liberarmi dall’emicrania supera quel rischio improbabile. La notte dopo la vaccinazione ho avuto un lieve dolore al braccio e ho dormito sull’altro fianco. Un paio di colleghe hanno accusato stanchezza. Negli Stati Uniti su 1 milione e 800 mila vaccinati ci sono stati 21 casi di serie reazioni allergiche, subito controllate senza conseguenze. Io stesso sono allergico, mia figlia medico ha avuto un precedente di choc anafilattico per puntura di insetto. Ci siamo vaccinati entrambi, ma è per questo che i vaccini si fanno in ambiente protetto. Il vaccino non è controindicato per le persone fragili con patologie autoimmuni e oncoematologiche, che invece sono più a rischio se prendono il Covid-19.

È un affare per le case farmaceutiche.

Ogni euro investito in vaccini ne fa risparmiare 10-20. Il vaccino, che costa 16 euro al sistema sanitario o 32 euro in farmacia, ha liberato l’Italia dall’epatite B. la terapia per chi si ammala costa 3.500 euro l’anno; chi sviluppa epatite cronica attiva viene curato a vita e il costo diventa incalcolabile, senza contare i trapianti di fegato e il cancro al fegato da trattare con farmaci. Che cosa rende di più?

Qualcuno in Tv ha detto che non si vaccinerebbe in età fertile.

Preoccupazione infondata, non c’è ragione di temere che i vaccini diano sterilità. Riguardo alle donne incinte non c’è un motivo specifico per sconsigliarlo, ma non abbiamo dati. Sappiamo invece che altri vaccini, come influenza e pertosse, sono consigliati. In base a queste informazioni sta alla donna decidere se vaccinarsi.

Su WhatsApp si dice che contenga un nanochip collegato al 5G.

Ora si chiamano fake news, una volta si chiamavano balle. Sappiamo che cosa c’è nel vaccino: mRna, eccipienti, Peg, sorbitolo. Sappiamo che cosa di certo non c’è: i nanochip.

 
 
 

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