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Messaggi del 26/01/2021

Un mondo nuovo: una sola famiglia

Post n°3520 pubblicato il 26 Gennaio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 23 gennaio.

Shoah. Le piccole ebree salvate da don Guido: «Quei disegni in cima alla chiesa...»

Nel 1941 una quindicina di bimbe trovarono rifugio nella chiesa romana di Santa Maria ai Monti. Il ricordo di don Francesco Pesce, successore di don Guido Ciuffa

«Per di qua... ecco, entrate!». Una porticina spalanca una vecchia scala a chiocciola che da dietro l’altare s’arrampica in alto per più di venti metri. Passa sopra l’abside e poi ancora più su diventa una scaletta a pioli che conduce fin sotto il campanile in un corridoio stretto e lungo. È il parroco della chiesa romana di Santa Maria ai Monti, don Francesco Pesce, a farci largo quassù con la luce della torcia risalendo il tempo. Un tempo che ci riporta a quell’interminabile inverno del ’43, quando la Città Eterna è occupata dai nazisti e migliaia di ebrei vengono deportati nei campi di sterminio. Perché è qui, nella soffitta di questa chiesa cinquecentesca nel cuore dello storico rione Monti di Roma, a due passi dal Colosseo, che una quindicina di bambine ebree del quartiere vengono nascoste e salvate dai rastrellamenti.

«Albergo all’ombra di queste volte» è scritto sulla parete del cunicolo ad altezza di bambino, sopra, una firma a carboncino: «Aida Sermoneta». Più in là disegni: case, un campanile, soldati armati, bambini stilizzati. La sagoma di una donna vestita in modo elegante, «potrebbe rappresentare la Regina Ester che in mano ha forse una kallà, il pane dell’offerta per gli ebrei» spiega il parroco illuminando con la torcia il disegno. La gran parte delle bambine erano ospitate dalle suore del Sacro Cuore nella Casa delle Neofite adiacente alla parrocchia. Nei momenti più difficili, quando i nazisti setacciano le case e bussano ai conventi del rione, vengono nascoste nella semioscurità di questo cunicolo in cima alla chiesa. «Era il mio predecessore, don Guido Ciuffa, a metterle in salvo. Una di loro è ancora in vita – racconta don Francesco – non ha mai dimenticato il rumore dei passi dei soldati sui sampietrini che salivano da via Baccina… la sofferenza di sentirsi senza i genitori e la paura di quando venivano chiamate a scappare e rifugiarsi quassù, salire in fretta la scala a chiocciola e correre qui lungo il cunicolo dove aspettavano a volte per molto tempo che passasse l’emergenza guardando la lampadina che vacillava appesa al soffitto». Il filo elettrico di quella lampadina c’è ancora. E sotto ancora leggibili i nomi: Matilde - Carla, Clelia - Anna.

Ai tempi in cui Roma è città aperta e alla mercé dei tedeschi, tra le mura e i vicoli della città si consuma una guerra di fuggiaschi e nascondigli. In questa Roma assediata dove le croci uncinate sostano sotto le finestre del Papa, i nazisti catturano quasi duemila ebrei. Muoiono nei campi di concentramento, alle Fosse Ardeatine. All’incirca diecimila, invece, sopravvivono nascondendosi in case private, nei conventi e nelle parrocchie, negli ospedali, nelle istituzioni e nei territori della Santa Sede, alcuni di quelli che sono venuti in aiuto ai perseguitati sono stati riconosciuti come ‘giusti’. Ormai è noto il lungo elenco delle istituzioni cattoliche che nei quartieri romani hanno accolto ebrei per nasconderli e salvarli da quel tributo di sangue che Roma, che la comunità ebraica ha pagato ad Auschwitz e alla Shoah. La storica parrocchia del Rione Monti, nella popolare Suburra con l’allora parroco Guido Ciuffa, appartiene a quest’elenco. La lapide commemorativa è stata posta accanto alla sagrestia nel 2007, quasi a suggello del grazie rivolto dalla comunità ebraica della capitale alla chiesa monticiana per le vite salvate durante quell’inverno. Il testo dell’iscrizione recita: «Il parroco della Madonna dei Monti, le Figlie della Carità e le Figlie del Sacro Cuore accolsero i figli di Israele perseguitati ed oppressi. All’ombra di queste mura trovarono rifugio ed ebbero salva la vita». Volutamente riprende le parole scritte sul muro del rifugio sotto il campanile. E proprio da una di quelle superstiti allora bambine è partita l’iniziativa dell’iscrizione marmorea. Le loro identità sono sempre state tenute sotto riserbo. Un riserbo che nel tempo è stato rispettato. Ma le loro storie dentro la storia di quel tempo sono custodite nella memoria del rione. Come i nomi delle sue famiglie: i Di Veroli, Di Consiglio, Di Castro…

Quando il 16 ottobre del ’43 svegliate all’alba di quel sabato nero, intere famiglie di ebrei romani vennero con violenza stipate nei camion e deportate, nelle memorie della Casa delle Neofite attaccata alla chiesa così è scritto: «Il numero delle alunne aumenta. In casa nostra un via vai, come dire un flusso e riflusso di persone che chiedono ospitalità. Talune giovani ripararono qui. Altre per sottrarsi a pericolose ricerche si è aderito oltre i limiti possibili. La Madre Superiora pregata e consigliata da rispettabili sacerdoti ne ha accolte un buon numero, 60 e forse più, con bimbi e bimbe, che fra noi dicono di sentirsi tranquille. È accresciuto il da fare, ma è opera di misericordia e Dio ne terrà conto. La fiducia in Lui solo, ci sostiene; ma quando finirà questa guerra sterminatrice?». Don Francesco richiama dall’oblio la storia di uomini e donne comuni che, quando il male ha bussato alle loro porte, hanno mostrato nella fratellanza un grande coraggio. Mentre usciamo su via dei Serpenti ci racconta la storia delle famiglie ebree di questo rione che erano parte integrante del tessuto sociale della parrocchia. Erano famiglie romane e dunque da tutti considerate parte della stessa famiglia, del popolo di Dio. E proprio questo collante solidale della rete popolare si è reso ancora più forte durante il tempo della barbarie. «Ci sono testimonianze di vera fratellanza che noi conserviamo» ricorda don Francesco, e fermandosi in mezzo alla piazzetta davanti alla chiesa racconta di quando proprio qui la gente del rione strappò via dalla follia nazista la piccola Ester della famiglia Di Veroli. «Avventandosi sul commissario – racconta – gli pestarono i piedi e tutti gridavano: “È mia sorella! È mia sorella!…Laciatela perde!». Guardando verso il campanile si scorge la finestrella della scala a chiocciola… «Quelle bambine – dice don Francesco – sono state salvate da questo stesso amore: quello delle suore, del parroco… quello di un intero popolo che qui si è fatto una sola famiglia».

 
 
 

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