Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Marzo 2021

Scialacquatore di sacramenti

Sono diventato uno che “scialacqua” i sacramenti

Una volta si diceva romanticamente che la famiglia è una cellula della società. Ma una società seria si fonda su uno statuto che, nel caso dello Stato, si chiama Costituzione. Quindi anche la sua cellula, la famiglia, se vuole essere tale e non un’ammucchiata, necessita di uno statuto che scatta con il rito del matrimonio, con tutto ciò che comporta. Riconosco la dignità di uno “statuto domestico” anche al matrimonio laico, che dimostra comunque la volontà di una seria prosecuzione nel Nuovo Testamento e un rito matrimoniale classificato fra i sette sacramenti: è il presupposto di fede per chiedere i sacramenti per i figli.

 

Quando mi si presentano due a chiedere il battesimo per il pupo, devo accertare il loro tipo di rapporto. In dieci anni, su 108 coppie, ben 63 si sono dette conviventi senza adempimenti al matrimonio ecclesiastico. Si affrettano a dirmi che ci stanno pensando, ma per quanto mi risulta, il pensiero si è realizzato solo in due casi! Insomma, i sacramenti sono trattati come articoli da supermercato che si possono scegliere a piacimento; e la Chiesa tollera “buonisticamente”. Mentre, viceversa, i sacramenti sono collegati da una logica e coerenza che li rapporta intrinsecamente. Non nascondo il mio irritato imbarazzo quando nel rito mi tocca fare la domanda preliminare: «Cari genitori, chiedendo il Battesimo per vostro figlio, voi vi impegnate a educarlo nella fede, perché, nell’osservanza dei comandamenti, impari ad amare Dio e il prossimo, come Cristo ci ha insegnato. Siete consapevoli di questa responsabilità?». È la circostanza in cui mi sento di più burattino liturgico!

 

Siamo oltre l’assurdo, specie se si considera il rigore con cui la Chiesa antica concedeva i sacramenti costitutivi del cristiano: battesimo, cresima, eucaristia. Ai nostri tempi impera il “buonismo pastorale”! Quousque tandem? Probabilmente fino a quando le gerarchie ecclesiastiche non ci daranno orientamenti chiari, rigorosi e coraggiosi. Non penso che il malanno sia solo di casa mia! In certi casi uno scossone ci vuole! Se non si muove qualcosa, sto meditando di darmelo io nel mio piccolo.

 

Nel caso specifico, non sarebbe negato il battesimo, ma rinviato a quando i genitori saranno diventati coniugi cristiani, per garantire un minimo di credibilità educativa dei figli in orientamento cristiano. Ove ciò non avvenisse, sarà il figlio, divenuto in grado di intendere e volere, a decidere. Mi creda: sono arci-stra-stufo di essere uno scialacquatore di sacramenti! E se il pupo muore non battezzato? Dio può salvare anche senza i sacramenti. In questa prospettiva mi preoccupano di più le giravolte sentimentali dei genitori, con crescente esito drammatico, come la cronaca odierna ci documenta con implacabile stillicidio. Ben diverso è il caso di genitori che soffrono cristianamente per un patito divorzio precedente, ma che abbiano almeno contratto il matrimonio laico, che resta pur sempre fondamento della famiglia seriamente intesa, senza facile turismo sentimentale con ricambio stagionale dei rapporti, come oggi è assai di moda. D.Alberto A. (FC n. 11 del 14 marzo 2021)

 
 
 

NO alla violenza

Post n°3548 pubblicato il 13 Marzo 2021 da namy0000
 

2021, Maurizio Praticiello, Avvenire 12 marzo

La storia. Caterina, che ha denunciato. La voce che serve alle donne

Una donna picchiata e terrorizzata per anni dal marito trova il coraggio di raccontare alla famiglia e alle autorità le violenze subite, per amore dei propri figli. Ecco perché andrebbe sostenuta

Adesso basta. La violenza sulle donne ha raggiunto limiti insopportabili. Il dramma non riguarda solo la vittima caduta nella trappola del carnefice ma tutti. Caterina è una mamma quarantenne. Ebbe la disgrazia di innamorarsi di Antimo, un giovane che divenne suo marito e che ben presto si rivelò essere violento.

Caterina lavora, porta i soldi a casa, lui no. Caterina mette al mondo tre figli, il primo che ha quasi 11 anni e una coppia di gemellini di 9. Lui riesce a isolarla dai genitori e dalle amiche, coloro che avrebbero potuto consigliarla, aiutarla, aprirle gli occhi. Per cinque anni Caterina non li vede, non li sente, nega a se stessa la gioia di abbracciarli e di essere abbracciata. Lentamente, senza che se ne accorga, diventa ostaggio del marito. Ma non si ribella, sopporta, tace. Ed è quest’atteggiamento, comune a tante donne vittime, il primo, grande problema.

Caterina lavora, accudisce i figli, la casa. Prende bastonate. Sa per esperienza che appena tenta di ribellarsi le cose peggiorano, e allora ingoia. Poi, un bel momento, esplode. A tutto c’è un limite. Un giorno si rende conto che la strada intrapresa è solo un vicolo cieco che la porterà alla morte. Lui diventa sempre più intrattabile. I bambini, terrorizzati, iniziano ad avere problemi. Caterina chiede aiuto alla famiglia, alle amiche, ai suoi stupendi genitori. Denuncia. Finalmente. Una, due, tre volte. Fa ritorno alla casa paterna. Lui la insegue. Non può permettere che la preda gli sfugga.

Non è possibile che la dolce Caterina, sempre buona, silenziosa e sottomessa, lo abbia lasciato. Vengono allertati i servizi sociali, le forze dell’ordine. Ognuno fa la sua parte. Viene intimato all’uomo di non avvicinarsi al nuovo domicilio della moglie. Divieto che non verrà osservato. Le leggi per gente come questa non esistono. Sono essi legge a se stessi; padroni della vita e della morte di chi ha avuto la disgrazia di finire nel loro raggio di azione.

Piove quella mattina, quando, infuriato, raggiunge la casa degli ex suoceri, li ritiene responsabili della decisione presa da sua moglie. Caterina è là, lo vede, si chiude in casa con i suoi. Sono terrorizzati. Lui entra nel cortile con fare minaccioso, si arrampica sulla grondaia. Nascosti dietro ai vetri, i familiari assistono alla scena. La pioggia ha reso la grondaia viscida, lui scivola a terra, si rialza, ritenta, cade di nuovo. Accosta un vecchio tavolo, si arrampica, cade ancora. Infine distrugge la piccola telecamera che, per fortuna, ha ripreso la scena. Grazie a quel filmato di pochi minuti quest’uomo violento finisce in carcere. Ben presto tornerà in libertà. Caterina e i suoi non osano pensare a quel giorno. La trasmissione Chi l’ha visto?, mercoledì sera, porta la storia di Caterina nelle nostre case. Orrore allo stato puro, anche i cuori più cinici e induriti si sciolgono.

Dalla mia parrocchia, la bella Caterina ha raccontato la sua storia. E ha detto chiaramente di temere che l’uomo che le promise eterno amore la ucciderà. Uno scempio che non può accadere, non deve accadere. I bambini hanno bisogno della loro mamma, i genitori della loro figlia, il mondo ha bisogno di questa donna fragile, coraggiosa e bella. Prima che venga rimesso in libertà, vigilata o meno, l’uomo che abbiamo visto arrampicarsi per la grondaia per nuocere alla sua ex donna, la società civile deve tirare fuori il meglio di cui è capace. E permettere a questo nucleo familiare di vivere in un luogo segreto, in modo sereno. Caterina ha diritto alla sua libertà, alla sua dignità, alla sua vita.

Quante donne si trovano in questo momento nelle condizioni di Caterina in Italia? A quante sono stati rubati gli anni più belli della loro vita da maschi stupidi e violenti? Il pensiero corre agli ultimi femminicidi registrati. Alcuni erano stati annunciati da tempo. A riguardo è stato fatto tanto, è vero, ma non basta. Se siamo ancora a questo punto vuol dire che non basta, che bisogna fare di più. Diciamo basta. Inorridiamo. Ribelliamoci. Gridiamo. Gridiamo insieme: «Io sono Caterina».

 
 
 

La sapienza

Post n°3547 pubblicato il 12 Marzo 2021 da namy0000
 

Nel libro dei Proverbi, per esempio, il maestro ammonisce così il discepolo: «La sapienza ti salverà dalla via del Male…, da coloro che abbandonano i retti sentieri per camminare nelle vie delle tenebre…, nei sentieri tortuosi, nelle strade distorte» (2,12-15).

 
 
 

Sulle rotte del mondo

Post n°3546 pubblicato il 10 Marzo 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 9 marzo

Vite donate. Trento: il Covid uccide padre Giorgio Abram, medico dei lebbrosi in Africa

45 dei suoi 77 anni li ha spesi in Ghana per combattere un morbo che continua a mietere vittime, scoprendo terapie efficaci e fondando due ospedali. Un gigante della medicina e della carità evangelica

È morto sabato 6 marzo in Ghana a causa del Covid il missionario trentino padre Giorgio Abram, frate francescano conventuale. Aveva 77 anni ed era rientrato in Italia qualche mese fa per una visita al fratello padre Giuliano Abram (anch'egli conventuale in servizio a Padova), poi morto pure lui di Covid.
Ordinato sacerdote nel 1970, padre Giorgio con la sua laurea in medicina era partito per il Ghana dove si è dedicato per 45 anni alla lotta contro la lebbra (in particolare alla patologia nota come "ulcera del Burundi", che colpisce soprattutto i bambini), fondando anche due ospedali. Considerato esperto internazionale da varie organizzazioni sanitarie, nel 1977 ha fondato Ialo per il coordinamento del lavoro di lotta contro la lebbra in Ghana, nei Paesi limitrofi e anche in Vietnam, dove il medico e religioso trentino è stato richiesto dal governo per la propria competenza.
Durante l'intervento al convegno dei missionari trentini in Africa «Sulle rotte del mondo», tenutosi nella città del Concilio nel settembre 2011, padre Giorgio aveva spiegato come «il grande passo in avanti effettuato in Ghana è stata la scoperta di farmaci che curano la lebbra e uccidono il batterio che la provoca. Prima si faceva ricorso a batteri statici e quindi si doveva continuare a tenere i batteri fermi, ma non sconfitti. Invece con la rifampicina, un antibiotico che va direttamente al microbatterio della lebbra, sappiamo che si può guarire. I pazienti possono essere anche curati in casa».
Padre Abram definiva la sua attività «una scelta vocazionale per arrivare a coloro che hanno più bisogno, agli «scarti» nelle «periferie del mondo». Nel 2015 aveva dato alle stampe il libro «Quattro gatti senza storia» con sottotitolo «Riflessioni semiserie di un missionario» (Edizioni Messaggero Padova): 54 racconti brevi dai quali emergeva tutta la sua carica di umanità, con tratti di acuta ironia, e la profonda fede che hanno contraddistinto una vita donata senza mezze misure ai più poveri.

 
 
 

Imprenditrice di start up

2021, AGI 7 marzo.

Storia di Anita, migrante dall'Albania e ora imprenditrice di start up

Il racconto di Anita Likmeta. La madre arrivò a Bari con la nave Vlora, nel celebre sbarco di cui in questi giorni si ricorda il trentennale, alla presenza del premier albanese Edi Rama

L’Italia è la mia patria adottiva. Sono italiana, sono cresciuta qui. È la mia casa. Sono albanese perché sono nata lì ma sono anche italiana. Sono “ibrida”. E soprattutto l’Italia mi ha accolta”. Nei giorni che ricordano il trentesimo anniversario dell’arrivo degli albanesi in Italia (celebrato anche dal premier albanese Edi Rama, presente a Bari e Brindisi), Anita Likmeta, 34 anni, racconta all'AGI la sua storia.

Oggi vive a Milano, è imprenditrice nel ramo digital attraverso le start up. Il suo lavoro, spiega, le regala soddisfazioni, ma questa storia 30 anni fa è cominciata male, con un brutto segno, poi per fortuna scomparsa.

 “La mia - spiega Anita ad AGI - è una storia un po’ particolare. Mia madre, Ela, è arrivata nel ‘91 a Bari con lo sbarco della Vlora. Con lei, mio fratello e mia sorella, che erano piccoli, rispettivamente di 9 mesi e di 3 anni. Io sono invece rimasta in Albania e ho fatto il ricongiungimento familiare nel ‘97”. “Avevo 5 anni e mia zia, tornando dal liceo, mi disse che mamma e i miei erano morti - narra Anita - per un paio di mesi fu traumatico. Fu una notizia bomba per me piccolina. L’accetti purtroppo per quella che è e non puoi cambiarla. Mi faceva strano l’idea della morte. E sì perché molti albanesi sono morti in quel viaggio della Vlora”.

Per Likmeta, “si parla spesso di chi é arrivato ed ha concluso la corsa, ma non si parla di chi quella corsa non l’ha conclusa ed ha trovato la morte sull’Adriatico. Ecco, io ho vissuto per due mesi sapendo che non avrei mai più rivisto i miei. Poi gli stessi zii mi dissero che mamma, mio fratello e mia sorella, erano vivi. Non ci credevo quasi”. 

Come ho vissuto gli anni dal ‘91 al ‘97 in Albania? “Mah - riprende il suo racconto Anita - c’era una situazione molto tesa, quasi come fosse l’ultimo giorno prima del diluvio. Hai la sensazione che stia arrivando una grande pioggia sin quando, poi, è scoppiata la guerra civile. In quei giorni - prosegue Anita - chiedevo a mio nonno: ma dove vanno tutti questi? E lui mi diceva: vanno a reincontrare la loro povertà. Per lui, scappare non aveva senso perché anche la povertà aveva una sua dignità".

"In realtà, l’Albania era un Paese con l’economia a terra, le piramidi finanziarie erano crollate e la gente doveva rifarsi una vita. Piramidi finanziarie costruite ad hoc ed un giorno bisognerà fare chiarezza anche su questo, sulla politica di allora che le permise. Accadeva - dice ancora Likmeta - che vendevi la tua casa e ti davano somme incredibili, con la gente che pensava che il liberismo economico fosse quello”.

L'arrivo in Italia e l'affermazione professionale

“Io sono arrivata a Bari con un traghetto da regolare - prosegue Anita - da Bari sono salita a Pescara dove mamma aveva trovato lavoro come sarta. I miei stavano benissimo. Mio fratello e mia sorella erano cresciuti in Italia, rispetto a me avevano avuto una vita da “Mulino Bianco”. Eravamo in un paese, Villanova di Cepagatti, poi ci trasferimmo a Cepagatti, quindi a Pescara, dove mia madre apri la sua attività come imprenditrice nella sartoria”. “Io faccio l’imprenditrice grazie a lei - afferma ancora Anita - oggi vivo a Milano e lavoro nell’ambito digital. Ho delle partecipazioni in varie start up mentre mia madre vive in Spagna, con il suo compagno, e sta cercando di riaprire la sua attività che ha chiuso dopo la grande crisi”. 

Perchè non mi sono buttata anche io in ambito sartoriale? “Mah, me lo chiedo anche io - risponde Anita - in verità dopo la laurea in filosofia alla Sapienza, mi sono messa a studiare in ambito tech, mi interessava molto il digital. Sono diventata ambasciatrice delle Nazioni Unite per un progetto che si chiama “Connect Albania”. Il progetto è innovatore, utilizza la diaspora albanese per incentivare gli imprenditori, non solo albanesi ma anche italiani, e far crescere Paese. Con “Connect Albania” abbiamo iniziato quest’anno con vari incontri anche se tutti on line”.

“Oltre a “Connect Albania”, sono in una start up che si occupa di smart working e ha sede in Sicilia. Col crowdfunding - spiega Likmeta - abbiamo chiuso una raccolta per investimenti di 250mila euro. Poi sono in un’altra start up, che sta a Catania e Milano, che si occupa di marketing e sta andando molto bene. Le due start up - puntualizza - si chiamano Coderblock e Creation Dose”.

“Il lavoro che faccio mi piace moltissimo - dice ancora Anita -. mi piace creare cose che non esistono, ponti, opportunità. Dall’Albania manco da tanto, non ho più rapporti. Ci sono tornata solo due volte in questi anni, ma l’Albania è un Paese che sta crescendo e ha voglia di cambiare, facendo i conti anche con se stesso, anche se è difficile”. “L’Albania - afferma ancora Likmeta - ha una gioventù che vuole riscattarsi ed è un Paese che merita attenzione. Ci tengo tanto. Tengo tanto al progetto “Connect Albania” che si muove nel solco dei rapporti tra Italia e Albania e vede partecipi anche alcuni ministeri italiani".

"Cerco di rafforzare questo ambito e di contribuire ad una prospettiva nuova. Allo stesso tempo, mi auguro che non si dimentichi la tragedia del popolo albanese, che è quella di tutti i popoli migranti che scappano dalla propria terra verso una direzione che non si sa bene quale possa essere. Oggi l’Albania è come l’Italia degli anni 60, c’é voglia ricostruire un profilo identitario e commerciale”.

“A ben vedere - conclude Anita Likmeta con AGI - l’Italia con l’Albania ha conosciuto la prima ondata migratoria, Lampedusa è arrivata dopo. E mi ricordo bene cosa si diceva degli albanesi in quegli anni: brutta gente, persone da cui stare alla larga. Invece, allargando lo sguardo sull’immigrazione oggi, penso che nigeriani o ghanesi possano essere un’opportunità. Le persone sono una risorsa, sono in grado di creare, a patto che incontrino sulla loro strada interlocutori culturali che possano comprenderli”. 

 
 
 

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