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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Settembre 2021

Conoscere e ascoltare, comprendere, imparare

Post n°3649 pubblicato il 18 Settembre 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 17 settembre

Amazzonia. Padre Juan Bottasso e gli Shuar: un incontro rivoluzionario

In Ecuador il salesiano, morto nel 2019, con i confratelli ha ribaltato la prassi missionaria attraverso l'incontro con l'antropologia, immergendosi completamente nella vita e nella cultura indigena

Sono tornato a Quito dopo trentasei anni. Speravo di rivedere un amico che mi ha aperto allora le porte dell’Amazzonia e il fascino dell’antropologia, ma Juan Giovanni Bottasso, il salesiano piemontese che ha lavorato più di chiunque altro al riscatto delle culture indigene dell’Amazzonia e delle Ande è morto nel 2019. Se non lo avessi incontrato nel 1985 e non mi avesse spedito in “oriente”, nella selva degli Shuar e degli Achaur, le tribù fiere della foresta che hanno resistito più a lungo contro gli spagnoli e poi ai tentativi di assimilazione, non sarei diventato antropologo.

La storia di Juan Bottasso è un’avventura. A diciassette anni parte con il fratello Domingo per diventare missionario nella foresta. Sono gli anni in cui il ruolo dei missionari comincia a essere messo in dubbio da loro stessi. La pratica di sottrarre i bambini ai villaggi per educarli nelle missioni ai valori del progresso comincia a essere considerata lesiva delle culture indigene. Il congresso missionario di Medellin negli anni sessanta segnerà una svolta definitiva. Bottasso e molti giovani missionari con lui, tra cui il padre Luis Bolla decideranno che il ruolo dei missionari è quello di comprendere e difendere le culture indigene, evangelizzare non significa essere al servizio degli stati nazionali che vogliono estinguere la cultura di questi barbari arretrati.

Si tratta, anzitutto, sosterrà Bottasso, di comprendere il profondo valore spirituale delle culture amazzoniche, i missionari devono imparare dagli antropologi quel fieldwork, “vivere insieme” agli indigeni senza imporre la propria cultura. Saranno loro a cercare di essere accettati nei villaggi, ribaltando la logica predatoria in vigore fino a poco tempo prima.

Juan e Domingo e Luis Bolla vivono una stagione eroica, insieme al padre Pellizzaro che sta finendo di compilare un dizionario shuar, formano alla scrittura bilingue i giovani shuar. Alcuni di questi raccontano il senso del vivere nella foresta, il rapporto con Arutam, lo spirito che annuncia a ognuno la sua vocazione (guerriera e non) con le forze della selva, con gli antenati, la complessa cosmovisione espressa in una ritualità linguistica impressionante. Gli Shuar e gli ancora più remoti Achuar coltivano una dialogicità e competitività fatta di rime, formule, una eleganza di forme quasi impossibile da apprendere.

Juan Bottasso decide che bisogna creare uno spazio nuovo per le culture indigene. Si consulta con gli antropologi, tra cui Antonino Colajanni e Maurizio Gnerre, vuole pubblicare le tesi di diploma dei giovani indigeni. Nasce così negli anni ’70 la casa editrice Abya Yala, un nome preso in prestito dagli indigeni Kuna di Panama, gli unici nell’amerindia che abbiano un nome per il continente. Abya Yala significa la terra che splende. Cominciano le pubblicazioni e allo stesso tempo il lavoro costante di Bottasso di aprire il mondo missionario a quello dell’antropologia. Sarà una collaborazione fervida, intensa, con antropologi come Philippe Descola e Anne Christine Taylor, con Sabine Speiser e centinaia di altri studiosi che trasformeranno non solo la visione missionaria, ma anche l’atteggiamento della antropologia accademica nei confronti del mondo missionario.

Abya Yala pubblicherà il diario di José Arnalot, un ex missionario salesiano che vivendo in mezzo agli Shuar capirà che ha ben poco da insegnare e molto da imparare. Il suo libro Quello che gli Shuar mi hanno insegnato segna una tappa fondamentale. Nel frattempo Luis Bolla chiederà al suo vescovo il permesso di “perdersi” nella foresta e vivere in tutto e per tutto come uno Shuar, non evangelizzando se non con la propria condivisione. Bolla, che da ora in poi si chiamerà Yánkuam’ diventerà una leggenda vivente, fuggendo nella selva sempre più remota per allontanarsi da quel progresso e da quella civiltà che vorrebbe assimilare gli indigeni.

Il lavoro di Bottasso diventerà sempre più coraggioso, fonderà una Università con un dipartimento di Antropologia Applicata ed essendo un uomo “politico” cercherà in tutti i modi di influenzare il governo dell’Ecuador perché dia agli indigeni i diritti alla terra in cui vivono e il rispetto delle loro lingue e culture. Con effetti straordinari perché otterrà che nelle scuole del paese esse vengano insegnate e contribuirà ad allargare “la lotta” agli indigeni della sierra di lingua quechua (milioni) alle popolazioni afro della costa. Nel frattempo Abya Yala comincerà a coinvolgere le popolazioni indigene del Perù, della Bolivia, della Colombia e del resto delle Americhe.

Il lavoro dell’infaticabile Juan Bottasso sarà per un verso il contributo a una nuova classe politica indigena in Ecuador e per l’altro il costante convincere la Chiesa della importanza del rispetto nei confronti dei popoli indigeni e del chiedere loro perdono per la repressione della loro cultura dalla Conquista in poi.

Fino all’anno precedente alla sua morte Juan sarà un infaticabile connettore di reti, viaggerà tra gli indigeni del Canada e quelli dell’India, sarà presente nei dibattiti di Survival International come in quelli delle Nazioni Unite. Denunciando l’attitudine per lui sbagliata della stessa Chiesa a dividere gli indigeni invece di comprendere che essi rappresentano un tutto connesso che ha una conoscenza spirituale fondamentale per la salvezza della natura e del pianeta. L’enciclica di Papa Francesco sul rapporto con la natura farà eco al lavoro decennale di Bottasso e degli altri pionieri. L’ultima opera che Bottasso porterà a termine sarà la pubblicazione dei dodici volumi del diario di quarant’anni di presenza tra gli Shuar di Yumkuam’, di Luis Bolla, un contributo straordinario alla conoscenza intima del mondo amazzonico e delle sue cosmovisioni.

Quando nel 1985 Juan mi affidò a suo fratello Domingo perché visitassi i villaggi Shuar, mi stupì la presenza di un mondo indigeno che aveva una università shuar per radio e una in presenza nella selva, che consentiva agli indigeni stessi di appropriarsi delle tecnologie e delle comunicazioni con piccoli aerei. Sull’aereo che mi portava nella foresta viaggiava un capo indigeno che aveva vissuto anni a Quito e che ora tornava perché in città si annoiava. Ricordo ancora la prima notte passata nella maloca, nella capanna Shuar, dove a me, imberbe antropologo, succedeva di assistere a conversazioni punteggiate di risate che duravano tutta la notte. Uno dei temi della loro ilarità doveva essere sicuramente il sottoscritto.

 
 
 

Abbracciare la realtà

Gentile direttore,
avevo scritto questa lettera giorni fa, ma poi non l’avevo inviata. La lettura di “Avvenire” di domenica 12 settembre mi ha spinto però a ripensarci, ed eccola qua. È inutile negarlo: la malattia, anche un “banale” Covid 19 di una persona vaccinata, ti cambia la vita. Anche perché non sono banali le conseguenze che esso comporta: la mia positività ha fatto scattare la macchina organizzativa che ha coinvolto mio marito, i nostri tre figli, la scuola superiore in cui insegno. Eppure mi sento una privilegiata: in primo luogo per aver avuto, a suo tempo, la possibilità di ricevere il vaccino (che, se non mi ha impedito di contrarre il virus, mi consente di affrontarlo come una sorta di influenza). In secondo luogo, per avere la possibilità di fermarmi a riflettere, cosa che a volte non è scontata. La prima evidenza che mi pare chiara è che nessuna legge, nessun protocollo, per quanto perfettamente approntato ed applicato, può tutelarci davvero, se non impariamo l’arte del discernimento. Quello, innanzi tutto, che deve guidarci a preferire il minimo rischio, il vaccino, per il massimo bene: la vita. La nostra e quella degli altri. E che, parimenti, deve spingerci a non cercare “l’untore”, semmai il fratello da aiutare, non solo a combattere la malattia, ma anche i retropensieri che portano molti, sulla base del sentito dire, ad astenersi dal vaccino, rallentando la famosa “immunità di gregge” che tutelerebbe anche i “fragili”. Ringraziando Dio, nel corso della mia vita, gli unici periodi finora trascorsi a letto sono stati i lunghi mesi delle gravidanze, complicati ma fecondi e ricchi di attesa. Perciò, anche se ora mi trovo chiusa in una stanza in una splendida mattinata di settembre, cercherò di pazientare. Anche allora, in gravidanza, ho assunto farmaci che successivamente sono stati ritirati dal mercato per presunti, minimi effetti collaterali, ma in me non è mai venuta meno la certezza che chi me li aveva prescritti agisse per il mio bene. Anzi: ho volentieri tollerato gli “effetti collaterali” che mi hanno permesso di portare a termine la gravidanza. Quante donne, d’altronde, accettano gli effetti collaterali della pillola per evitarne una? La vita è fatta di scelte. Se viene meno la fiducia nulla potrà funzionare: la sanità, la scuola, la famiglia. La fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile, ma è la base delle relazioni e, non ultima, della Relazione, che è Dio. Ora (4 settembre) i miei tre figli, negativi al test rapido e in attesa del moleco-lare, sono confinati in soggiorno e scalpitano, come è normale che sia, per riconquistare la libertà che il buon senso oggi ci chiede di sacrificare. Gli altri due, attesi ma non nati, mi hanno insegnato molto su me stessa e sulla Vita: se ci rifiutiamo di abbracciare la realtà, tutta intera, anche quando è scomoda e complessa, perdiamo di vista la meta, la costruzione del Bene comune. Cecilia T. (Avvenire, 16 settembre 2021)

 
 
 

Pellegrino per amore

Post n°3647 pubblicato il 16 Settembre 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 15 settembre

Paolo «pellegrino per amore»

In cammino a piedi per 300 chilometri dal paese di Meledo alla Basilica di Aquileia per festeggiare 35 anni di matrimonio e «onorare» i suoi studi di storia cristiana

Un’intuizione teologica. Un’ispirazione amorosa e una volontà di ferro, che l’ha portato a piedi da Meledo, nel Vicentino, fin sulla soglia (ma solo fin qui) della Basilica patriarcale di Aquileia. Per questo Paolo Molon, 62 anni, da poco pensionato, è stato definito un «pellegrino per amore». Amore il suo per la storia del cristianesimo, che lui sta studiando presso la Facoltà di scienze teologiche di Vicenza, al terzo anno di studi. Amore verso la consorte Lorenza Chiarenzo, con cui è sposato da 35 anni che dirige un ufficio postale a Vicenza.

E insieme hanno celebrato il loro anniversario di matrimonio l’11 luglio, alla vigilia della sua partenza. Paolo ha così deciso di far “sposare” i due amori della vita: quello verso la storia cristiana e quello coniugale. La sua è stata una piccola, ma grande avventura lungo la pianura che lo separava da Aquileia, città del Friuli-Venezia Giulia nota per la Basilica e i resti romani di epoca imperiale. Trecento chilometri in otto giorni, con una media di dieci ore di cammino e 45 chi- lometri al giorno. Un cammino non segnato sulla carta, ma con numeri da grande camminatore che Paolo per modestia si affretta a svilire, dicendo: «Per amore si fa tutto, no? E visto che camminare è la mia grande passione, l’omaggio che ho voluto fare, è stato pieno di passione e sudore».

È questo suo spirito che rende Paolo diverso dal resto dei camminatori, dato che il suo è stato per metà un pellegrinaggio e per l’altra un cammino storico. «Mi ha colpito la storia di Aquileia che sto studiando all’università – spiega il pellegrino –, culla del cristianesimo nel Nordest, per cui raggiungerla mi sembrava di andare alle origini anche del nostro Sacramento matrimoniale. Entrare in quella Basilica poi era un modo per ringraziare per tutto questo». «Ho viaggiato con uno zaino di una dozzina di chili, con i bastoni che mi aiutavano a tenere il mio di marcia, lungo un tracciato che mi sono scaricato dalle mappe di Internet, orientandomi per strada col Gps del telefonino. Mi sono imbattuto in due giorni di pioggia, senza però mai fermarmi, con una temperatura media di 35 gradi».

«Il tratto più bello – conclude Paolo – è stato quello della Treviso-Ostiglia, con la pista larga e all’ombra: un lusso per ogni camminatore». Arrivato però alla meta, dinanzi alla Basilica ha avuto l’amara sorpresa: «Non si poteva entrare, perché stavano facendo delle riprese televisive». A nulla sono serviti i suoi 300 chilometri a piedi, il suo vestiario da pellegrino e il suo spirito da studente in teologia, che chiedeva di dare anche solo per un frugale sguardo all’edificio. Così se n’è tornato a Meledo, un po’ sconsolato, ma anche rincuorato per il traguardo raggiunto. Qui invece a spalancargli le porte di casa c’è stato invece l’abbraccio consolatorio della moglie Lorenza che ancora oggi commossa ricorda «il singolare regalo fattogli dal marito». «Ci sentivamo almeno due volte al giorno – ricorda la signora Lorenza –, al mattino, mentre mi recavo al lavoro e lui era già in cammino da alcune ore. La sera mi chiamava lui per dirmi com’era stata la giornata. In pratica, è come se fossi stato in cammino al suo fianco, ecco perché questo suo regalo rappresenta anche la nostra vita».

 
 
 

Tradimento

Post n°3646 pubblicato il 15 Settembre 2021 da namy0000
 

Una donna afflitta cercò un’amma conosciuta come saggia e amante di Dio. Tra le lacrime disse: “Amma, sto progettando di lasciare mio marito. È rozzo, senza parole per me, con molte pretese, mai contento di quel che faccio per lui. Pare pure che da qualche tempo mi tradisca. Che cosa vorrà il Signore?”.

L’anziana ascoltava pregando in silenzio. E soffriva. Tenendo lo sguardo rivolto all’icona, disse: “Figlia mia, il Signore è sulla croce. È là per noi. Non ti chiede di certo di allontanarti dalla croce, perché anche la tua è prima di tutto sua. Non vorresti essere il suo cireneo? Il peso maggiore della tua croce lo porta lui: egli è già il tuo cireneo. A chi mai potrà chiedere di aiutarlo a salvare tuo marito? Se questi tradisce te, ha già tradito lui. Preghiamo e attendiamo: chissà che non ci suggerisca una soluzione diversa da quella che stai progettando. Dio ha molte risorse. Ne avrà una per te, come l’ha avuta per Giuseppe che voleva lasciare Maria”.

La donna si asciugò le lacrime, sorrise e ringraziò. E amma Rosa continuò a pregare.

 
 
 

don Roberto

Don Roberto, giravi con una «Pandina color tortora», giorno e notte, per portare generi di conforto ai diseredati e, soprattutto, per offrire la tua presenza mite e gentile. Eri l’icona vivente dell’amore verso il prossimo, chiunque fosse, compreso chi ti ha sgozzato, come agnello sacrificale, come capro espiatorio della nostra umanità, spaurita ed indifferente.

 

A chi gli chiedeva di stare attento diceva: «Cosa vuoi che mi succeda? Al massimo vado da Gesù».

Con il pretesto di portare la colazione, riusciva a entrare nelle vite di gente che spesso aveva perso ogni speranza. Ma nessuno, né i volontari che lo aiutavano, né gli amici, e in fondo nemmeno i suoi familiari, sapeva davvero chi era. Don Roberto non parlava mai di sé, non rilasciava interviste, non ha lasciato nulla di scritto.

 

Racconto un episodio. Il suo set erano le strade di Como, giorno e notte. Aveva il portamento fiero di una diva e infatti pretendeva che tutti la chiamassero Sophia Loren. E anche le poche persone che degnava della sua attenzione diventavano ai suoi occhi personaggi dello spettacolo: attori, registi, cantanti. Come tutte le vere dive era altera, quasi superba. Voleva fare sempre di testa sua. Guai a tentare di convincerla che il freddo può scalfire anche una star da premio Oscar e che, almeno di inverno, forse era meglio passare le notti in dormitorio. Ti rispondeva in malo modo: «Alberto Sordi, che vuoi da me? Lasciami in pace». Nessuno ha mai detto a Sophia Loren cosa doveva fare. Lei doveva sentirsi libera di andare in giro, con la sigaretta sempre in bocca e di riposarsi dove meglio le pareva.

Finché sulla sua strada non ha incontrato un prete mingherlino che diceva di chiamarsi Roberto. Aveva notato un particolare che per una diva come lei dev’essere stato intollerabile: la sua borsetta era tutta strappata.

Qualche giorno dopo, si è ripresentato con una borsetta nuova e le ha detto: «Guarda, questa l’ho presa per te».

Sophia Loren ha bofonchiato qualcosa, ha preso la borsetta e ha squadrato meglio quel prete dall’aria così gentile: somigliava a un cantante che aveva visto alla Tv tanto tempo prima. Forse non aveva il suo vocione, ma per il resto era lui: Fausto Leali.

Lui le chiese se poteva sedersi un attimo sulla panchina accanto a lei e lei accettò. E, per la prima volta dopo tanto tempo, passò forse un’ora a parlare con qualcuno senza arrabbiarsi. Da allora Fausto Leali andava a trovarla ogni giorno. Quando notava che anche le scarpe avevano fatto il loro tempo, passava in un negozio, gliene comprava un paio e gliele portava. Anche se, si sa, regalare delle scarpe a una donna e farla contenta è un’impresa ai limiti dell’impossibile. Se poi stiamo parlando di Sophia Loren, è inevitabile che faccia qualche capriccio: «Fausto Leali, ma pensi davvero che io possa andare in giro con queste?». Ma lui non demordeva: tornava in negozio anche quattro, cinque volte, finché la sua amica non era soddisfatta. Chi l’ha detto che solo perché si povera ti devi sempre accontentare, devi rinunciare ai tuoi gusti, alla tua personalità?

E poi, con la scusa delle scarpe, Fausto Leali aveva la possibilità di entrare un po’ di più nel cuore di quella diva che nella sua vita doveva averne viste davvero tante.

Poi, un giorno, le loro strade si sono separate. Oggi Sophia Loren è ospite in una comunità in Svizzera. Per un curioso gioco del destino, proprio il Paese in cui trascorre gran parte della vita la vera attrice. Fausto Leali invece, il “suo” Fausto Leali, una mattina di settembre è volato in cielo.

Ho deciso di raccontare questa storia all’inizio di questo capitolo perché mi sembra racchiuda bene il senso della vita di don Roberto Malgesini da quando, nel 2007, è arrivato a Como.

Per lui, definizioni come “prete di strada” o “prete dei poveri” sono non solo riduttive, ma proprio imprecise. Il suo obiettivo non è mai stato trovare un tetto a chi non lo aveva (anche se poi ha ospitato persone a casa sua durante i mesi più duri della pandemia) o dare un pasto caldo a chi altrimenti sarebbe rimasto a digiuno. Questi sono servizi che svolgono benissimo organizzazioni come la Caritas, con cui don Roberto per altro ha sempre collaborato. Per lui queste attività erano solo uno strumento per entrare nell’animo delle persone.

Come mi ha raccontato Laura, una delle volontarie che più gli è stata accanto, «l’approccio di don Roberto non era: “Voglio conoscerti per aiutarti”. Ma: “Voglio conoscerti perché mi interessi”. Si poneva nei confronti di chiunque in una posizione di assoluta parità». In poche parole, don Roberto non è mai stato un assistente sociale, ma è sempre rimasto un prete che, attraverso un caffelatte o una coperta, cercava di fare ciò per cui anni prima aveva deciso di lasciare il posto in banca: annunciare la Parola di Gesù. Ma anche qui bisogna intendersi: tutti quelli che lo hanno conosciuto mi hanno raccontato che don Roberto non ha mai fatto proselitismo. Non si è mai presentato con la Bibbia in mani cercando di convertire le persone che incontrava. Il fatto che gran parte degli incontri si concludessero con una preghiera recitata insieme veniva naturale e proprio per questo riusciva a lasciare nei cuori dei segni molto più duraturi (FC, n. 37 del 12 settembre 2021).

 
 
 

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