Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Ottobre 2022

Luigi che diceva

Post n°3786 pubblicato il 13 Ottobre 2022 da namy0000
 

2022, Scarp de’ tenis Agosto

Luigi che diceva

Si chiamava Luigi T. Era nato nel 1889, ne aveva 100 quando è volato via. Non importa il cognome, importa altro. Qualcosa che nel vuoto doppio e vasto di agosto compare e ristagna come una carta velina sospesa nell’afa. Immagini, una sequenza trasparente che quel Luigi, padre e poi nonno mio, tuo, nostro, diffuse a suo tempo. L’abito scuro, sempre, camicia bianca, cravatta stretta e nera per una sorta di divisa dettata da un’abitudine antica e ordinata. Teneva, a lato del lavandino, nel bagno di casa, una striscia di cuoio. Stava lì per affilare a mano il rasoio, la lama mossa con una disinvoltura inarrivabile salvo cicatrici, per farsi la barba, ore 7 precise, ogni mattina. Dare del lei, a tutti, mi raccomando. Chiedere permesso, ringraziare. Cedere il posto. Ripeteva: «Cosa siamo qui a fare?». Per badare agli altri, si capisce. A chi non si accorge di poter fare. A chi non sa più che cosa fare. A chi fare non può. Con alcuni amici, poco dopo la fine della Prima Guerra mondiale, anno 1919, aveva fondato una banca. Una piccola banca messa su con i risparmi di quel gruppo minuscolo di persone. Ma come? Possibile? Spiegava che le banche, allora, quelle vere, pretendevano una quantità di informazioni prima di concedere prestiti urgentissimi e indispensabili a reduci nei guai. Contadini, artigiani, persone che avevano bisogno di una piccola spinta per ripartire. Tempi di risposta? Troppo lunghi. Con la terra, le bestie, i raccolti che andavano alla malora. Per questo, la “banchetta” come venne bollata, non senza sfottò. Un servizio. Diceva: «Se possiamo anticipare un po’ di denaro, perché no? La gente è perbene. Ogni prestito verrà restituito». Ne era certo, nemmeno un dubbio per lui che un giorno aveva perso il treno dovendo riportare in ufficio la matita messa in tasca per sbaglio prima di uscire. Infatti. In molti ottennero, ripartirono. Tutti restituirono. «Cosa siamo qui a fare?».

È passato tanto tempo, forse troppo. Eppure quel viaggio suo, al tramonto, mentre incominciava il nostro, continua ad offrire una memoria fatta di gesti semplici ma accurati. Cura è la parola più adatta qui. Cura per gli abiti, da far durare, da usare in relazione al dove e al quando. Cura per gli oggetti, pochi, utili tutti. La striscia di cuoio, il rasoio, l’abito per i giorni di festa, uno solo, la sobrietà come regola, l’educazione come sistema di regole non discutibile. Le stagioni osservate e rispettate per ciò che negano e danno, il rispetto che non flette indipendentemente dal contesto, dall’interlocutore. È roba vecchia, forse. Eppure, tra i nostri capricci, schiamazzi e vizi, modernissima. Indica un decalogo ancora possibile e, nel comtempo, una specie di conforto. Il poco come un tutto. La ricchezza come una risorsa interiore, gli oggetti materiali visti come strumenti solo necessari e non altro perché nessun bene materiale aumenta la caratura, la felicità, ogni intima soddisfazione.

Non si tratta di semplice malinconia da colmo estivo. E non pare un caso star qui a raccontarci ancora oggi di Luigi T., classe 1889. C’è qualcosa di utile, persino indispensabile che nel suo modo e nel suo tempo stava. Addirittura, per qualche forma, recuperabile. È questione di cura, appunto. Persino di salvezza. Nostra e di ciò che attorno a noi sta. Volendo, basta qualche piccolo sforzo, un ripristino minimo. «Giorgino, cosa siamo qui a fare?».

 
 
 

Manipolazioni ed errori

2022, Avvenire, 12 ottobre

Dove ci porta il gioco assurdo delle manipolazioni e degli errori

Caro direttore,
come ben sai, questa guerra atroce non si sta combattendo solo sulle terre d’Ucraina. La rete ormai è diventata un campo di battaglia, dove non volano missili o proiettili, ma notizie false, opinioni distorte, fino agli insulti più volgari e umilianti e minacce che molto spesso si allargano anche alle famiglie dei diretti interessati. Ad amplificare il tutto, c’è il fatto che Internet è il luogo dell’anonimato per eccellenza e che troppo spesso i social network, per come vengono gestiti, incoraggiano queste manifestazioni, con meccanismi di controllo insufficienti. Dramma nel dramma, da anni la Rete è diventata il terreno prediletto di una guerra parallela, quella della disinformazione. Una strategia portata avanti attraverso fake news, tentativi di screditare l’avversario, violenza verbale gratuita. Molto spesso si organizza una vera e propria macchina del fango. Si parte da un tweet estrapolandolo dal suo contesto, lo si commenta in maniera capziosa, senza aver mai letto o sapere nulla di chi lo ha scritto. Si tirano fuori contributi che risalgono a molti anni prima, ignorando il fatto che chi li ha scritti ha ammesso di essere stato, allora, a sua volta vittima di disinformazione. Oppure si crea un contributo falso ex novo, facendolo ritwittare da centinaia di utenti nel giro di pochi secondi, perché diventi virale. A volte si tratta di ”semplici polemisti”, che fanno dell’attacco personale e della creazione di macchine del fango un’abitudine regolare. Non si rendono conto di quanto questo sia pericoloso per tutti. Perché a fianco di queste persone ”ingenue e spontanee” ci sono dei veri professionisti della disinformazione, vere e proprie “brigate del web”, spesso pagate per diffondere odio e vedute distorte e che fanno delle polemiche che nascono sulla rete, un terreno fertile in cui proliferare. Questo fenomeno, ha un nome ben preciso: è una parte della guerra non lineare. L’ho studiata per molto tempo, nelle ultime 72 ore l’ho provata sulla mia pelle. Un mio tweet, tra i tanti, forse percepito come “di parte”, è stato rilanciato con malizia. E poi altri sono stati creati del tutto falsi per screditarmi. Coinvolgendo, ed è la cosa che più mi dispiace, anche “Avvenire”, al quale collaboro da anni. Chi è un professionista dell'informazione deve sicuramente usare i social nel modo più saggio possibile, tenendo conto delle sensibilità di tutti. Ma quando le parti sono fortemente polarizzate ci sarà sempre qualcuno pronto a forzare le interpretazioni e a spargere veleni. Anche questi sono i frutti della guerra.

Marta Ottaviani

Sai che stimo molto il tuo lavoro, cara Marta, e dunque prendo atto di ciò che mi scrivi. Da tempo non mi stupisco più di manipolazioni ed errori, ma conservo intatta la capacità di giudizio e anche d’indignazione mentre sento il dovere di non commettere mai manipolazioni e di evitare per quanto umanamente possibile gli errori. Detto questo, noi cronisti non metteremo mai abbastanza cura nei nostri articoli e nel dibattito pubblico, e non per prudenza fine a sé stessa, ma per rispetto degli interlocutori (chi ci legge, ci vede e ci ascolta) e del giornale per cui scriviamo. È bene, però, che ci si renda conto che questo dovere riguarda ormai proprio tutti, chiunque impugni e usi uno smartphone, e di questi tempi più che mai come in battaglia…

 
 
 

Ma alla fine...

Post n°3784 pubblicato il 12 Ottobre 2022 da namy0000
 

2021, Piero Colaprico, Scarp de’ tenis, Dicembre

MAGISTRATURA

Quando, alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia si trovò divisa tra filoamericani e filorussi nella commissione Costituente, i padri fondatori si chiesero cosa fare della magistratura.

Se metterla sotto il cappello della politica oppure renderla autonoma e indipendente.

Prevalse la seconda opzione. Una magistratura asservita al ministro di turno spaventava troppo, il fascismo era stato in fondo legale e si andava al confino cinque anni per aver detto “Mussolini è scemo”, il giudice metteva il timbro. Dove c’è troppa legge, c’è troppa angoscia per noi cittadini, lo sapevano già nella Roma dell’Impero.

La magistratura italiana del dopoguerra nasce con le migliori intenzioni, ma, senza farla lunghissima, recentemente sono state pubblicate delle intercettazioni telefoniche non molto onorevoli per le toghe, che raccontano come non si faccia spesso carriera per merito, ma per altre ragioni, meno pulite.

Ilda Bocassini ha un curriculum investigativo molto raro, ha messo a segno inchieste cruciali, eppure nessuno dei suoi colleghi ha voluto che facesse carriera sino ad occupare un posto di procuratore capo. Di qualsiasi argomento del codice penale si sia occupata – mafie, corruzione, terrorismo – ha sempre portato a casa il risultato. Sono le sue inchieste che l’hanno trasformata per moltissimi “in un mito”, come si diceva, ma per altri è diventata un “nemico”.

La prima inchiesta con il metodo Bocassini (lei dice sempre metodo Falcone, Giovanni Falcone, ammazzato dalla mafia nel 1992, suo grande collega e amico, ma non è lo stesso) si chiama Duomo connection e si svolge a Milano alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Lei prima dell’inchiesta Mani pulite, che attaccherà la corruzione politica nel 1992, inquadra un fenomeno: una famiglia di Cosa nostra, fornita di assassini e trafficanti, deve costruire delle case e per poterlo fare deve pagare la tangente a chi qui al Nord è più forte. E cioè al partito socialista. Lo scandalo è gigantesco, le microspie che mostrano una metropoli nera e collusa sono state piazzate nel cantiere dalla squadra del capitano Ultimo, lo stesso che catturerà a Palermo, nel 1993 Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra.

Bisognerebbe aprire una parentesi su tutti i processi avviati a Palermo contro Ultimo e conclusisi nel nulla, ma ci porterebbe fuori tema. Fuori tema ci porterebbe anche la circostanza di una Bocassini che lascia Milano, va in Sicilia per indagare sulle stragi e, inascoltata, avverte i colleghi siciliani che il pentito Vincenzo Scarantino stava raccontando bugie sugli attentati. Restiamo a Milano, dove Ilda Bocassini torna appena dopo che Antonio Di Pietro ha lasciato il pool Mani pulite e la toga. E, rientrata in ufficio, contraddice le malignità che la vogliono incapace del lavoro di squadra. Affianca Gherardo Colombo nell’inchiesta sulle corruzioni ai giudici di Roma, organizzate da Cesare Previti e pagate da Silvio Berlusconi, per portare il gruppo Mondadori nelle sue proprietà. Nel 2007 Bocassini fa arrestare i reduci degli anni di piombo, assassini delle Br totalmente fuori tempo, ma ancora pericolosi. E quando diventa procuratore aggiunto della Distrettuale antimafia, mette in linea ogni informazione con i colleghi, quasi una ventina, e non trapela un fiato: chiunque lavori con lei sa che non può fare da “talpa”. I suoi dicevano testualmente: «Se ne becca uno, se lo mangia».

Quanto ha fatto è noto, o si trova facilmente in rete. Uno pensa alla Costituente, alle buone intenzioni del passato, si guarda intorno nel mondo contemporaneo e non può non chiedersi perché l’Italia sprechi le capacità di indagare a fondo di persone come Bocassini, o come Ultimo. Una ragione ci sarà, alla fine. Ma alla fine…

 
 
 

Generazione dei riparatori

Post n°3783 pubblicato il 11 Ottobre 2022 da namy0000
 

2022, Avvenire 9 ottobre

Idee. Sarà, questa, la generazione dei "riparatori"?

È un mondo fragile, rotto, fratturato, è una umanità ferita, cesurata, spaventata. Sta a questa generazione, la più colpita dalla catastrofe, capire se sarà una generazione di riparatori o no

Sono passati molti anni da un testo che fece epoca, Apocalittici e integrati di Umberto Eco. Oggi non sarebbe più possibile scriverlo con la coscienza serena. Che l’Apocalisse sia una cifra di questo millennio ci sono pochi dubbi. La deriva che ci trascina verso la fine del Pianeta, il pericolo nucleare, il moltiplicarsi dei regimi di tortura e dittatura sono sotto gli occhi di tutti. Sono i terribili segni dei tempi di fronte ai quali ogni atteggiamento ottimista risulta fuor di luogo. Oggi scrittori, intellettuali, sarebbe bello dire politici, hanno un dovere ben preciso se non vogliono solo trastullarsi con il proprio e l’altrui destino. Come ci ha insegnato Sebald, che era nato nel 1944, è impossibile non fare i conti con l’abisso, la caduta, la distruzione. È un compito che Sebald si è prefisso tutta la vita e che oggi investe in pieno chi crede nel senso della scrittura, della letteratura, della ricerca, della testimonianza. Lo si può svolgere però in vario modo. C’è ovviamente la retorica di tutto questo, è facile mettersi dalla parte della ragione e tacciare il mondo di tradimento. Oppure, alla Sebald, sentirsi corresponsabile di ciò che ci sta accadendo. La faccenda riguarda tutte le generazioni viventi, ma in particolar modo coloro che si sono affacciati a questo mondo pochi decenni fa. Essere nati dentro la catastrofe significa qualcosa di ben preciso dal punto di vista non solo di ciò di cui bisogna occuparsi, ma anche del modo di farlo. Recentemente un giovane filosofo, Leonardo Caffo, ha tentato di definire la situazione in cui ci troviamo con sei parole chiave, in un testo dal titolo Velocità di fuga. Le parole sono: attesa, semplicità, ecologia, isolamento, anticipazione, offlife. Fanno accenno alle parole delle Lezioni americane di Italo Calvino (1988): leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, e, incompiuta, coerenza. Oggi sarebbe molto difficile scrivere qualcosa di simile, non solo per la grandezza e lo stile di Calvino, ma perché parlare di leggerezza, di esattezza, di rapidità evocherebbe alcune impossibilità e dei grandi errori degli ultimi decenni. Questi nostri tempi sono caratterizzati da pesantezza, opacità, confusione e ambiguità: i quattro cavalieri della nuova apocalisse. Caffo però, fedele a un mandato che investe la sua generazione, tenta di lanciarne di nuove. Non è solo tra i giovani scrittori del momento a tentare di parlare, di catastrofe e di possibili vie di fuga. Ad esempio è quello che fa Andrea Staid nell’invito a un ritorno alla semplicità anarchica e agreste dell’abitare (La casa vivente, Add), o chi, come Federico Campagna (Magia e tecnica, Tlon) , tenta una fuga dall’utopismo postmarxista nel mondo dell’alchimia. Qualcuno un po’ più anziano di loro come Matteo Meschiari (Landness, Meltemi) invece insiste sul nero, sull’abisso, sull’aspetto supergotico della catastrofe e lo fa insultando il secolo e i responsabili. Sono vari modi di fuggire, vari modi di intestarsi la catastrofe, di manifestare la coscienza della sua ineludibile presenza infestante. Va dato atto a Caffo di tentare una strada meno urlata e meno ingenua, un vedere cosa si può fare, adesso, nel proprio piccolo. Caffo è un pessimista con una tendenza alle piccole riparazioni. Il suo libro mi fa pensare a una filosofa americana, Elizabeth Spelman, che ha scritto Repair, un libro sull’attitudine umana a riparare. La fragilità del mondo richiede un atteggiamento di riparazione. Oggi ne abbiamo bisogno, il mondo, l’umanità, richiedono riparazioni. Repair significa anche e più sottilmente la capacità di farsi perdonare, di chiedere scusa, di negoziare, di trattare con quello che offre il presente. Forse un passo avanti rispetto alla testimonianza della fragilità, forse un passo avanti rispetto alla pura e semplice identificazione con la fragilità. Sta a questa generazione, la più colpita dalla catastrofe, capire se sarà una generazione di riparatori o no. È un mondo fragile, rotto, fratturato, è una umanità ferita, cesurata, spaventata, è la guerra, è la fine della natura, la distruzione dell’Amazzonia, le dittature che annunciano l’Apocalisse adesso come non mai. Come mi piacerebbe che questi miei amici trentenni e quarantenni fossero i filosofi della caduta dell’Impero, Marc’Aurelio, Origene, Plotino, Giuliano l’Apostata! Come mi piacerebbe che rileggessero l’Apocalisse di Giovanni. Ma sono tutti figli di un riciclato materialismo dialettico e digiuni di teologia, peccato, ma non è detto che al prossimo giro saranno gli ultimissimi i loro temi. Velocità di fuga di Caffo è un onestissimo fedele ritratto di una generazione. Che vuole testimoniare l’impastoiamento in cui viviamo, l’impossibilità effettiva di spiccare il volo e andare altrove, l’adesione eccessiva all’untuosità dei media, dei social, perfino dell’ecologia per non parlare della geopolitica. Sembra di sentire gli effetti di questa strana coda di drago che è stata la pandemia, ma anche la rottura della globalizzazione, la caduta di ogni universalismo. Difficile essere ottimisti, ma si può tentare con una buona velocità di fuga di guardare le cose da una prospettiva diversa, e da lì magari capire cosa resta da fare.

 
 
 

Fede autentica e dono

Post n°3782 pubblicato il 09 Ottobre 2022 da namy0000
 

2022, FC n. 41 del 9 ottobre

Quando il mistero del dolore apre nel cuore spazi immensi

Mia sorella Agnese era una persona speciale: i suoi modi gentili e delicati, il sorriso gioioso e la voce dolce la rendevano una creatura deliziosa. Era impossibile non volerle bene. Agnese è nata in una famiglia numerosa composta da quattro fratelli e quattro sorelle ed è cresciuta secondo sani principi, seguendo il buon esempio dei genitori. Da giovane frequentava l’oratorio dove faceva parte del coro parrocchiale. Poi il matrimonio con Silvano, da cui sono arrivati due figli e quattro adorati nipotini, che ha curato mentre i genitori erano al lavoro. Ha sempre amato gli animali e la natura: trascorreva le vacanze in montagna e, non appena ha potuto, si è trasferita insieme al marito Silvano in un casolare immerso nella campagna. In casa ospitava un cane e i gatti, le rondini facevano il loro nido sotto al tetto. Sapeva cogliere la bellezza delle cose semplici: che fosse un fiore, un arcobaleno o il mutare dei campi nelle diverse stagioni. Era sempre disponibile ad aiutare con l’allegria e la bontà d’animo che l’hanno da sempre caratterizzata e che erano l’arma con cui ha conquistato il cuore di tutti.

Qualche anno fa le è stata diagnosticata la Sla, e da quel momento la sua vita è cambiata drasticamente. Nonostante la malattia che progredisce inesorabile e ti toglie tutto fino all’ultimo respiro, è riuscita quasi inspiegabilmente a mantenere una fede solida e una serenità autentica alimentata dal grande Amore per la vita che le bruciava dentro. È stata curata, giorno e notte, da Silvano: quel marito che le ha fatto da infermiere, fisioterapista, aiuto e supporto e l’ha voluta assistere in prima persona. La sera, per confortarla e incoraggiarla, le leggeva i salmi, e quando lo ringraziavo per tutto quello che stava facendo per mia sorella, mi rispondeva che non l’avrebbe mai ripagata di quanto lei gli aveva donato.

Negli ultimi anni era immobilizzata e riusciva a comunicare solo tramite gli occhi utilizzando un lettore ottico con cui scriveva e mandava messaggi. È grazie a questi messaggi che quel mondo fiorito che si portava dentro riusciva a emergere e a spargere il suo profumo, superando la barriera del suo corpo. In quel periodo, un giorno una rondine è entrata dalla finestra e questa occasione ha ispirato Agnese a scrivere una poesia, che vi lascio come suo ricordo.

Rondinella che voli lassù, porta la mia preghiera a Gesù. Vorrei che su questa Terra non si parlasse più di guerra. Vorrei le gambe per camminare. Vorrei le braccia per abbracciare. Vorrei la bocca per dare tanti bacini sulle morbide guance dei miei nipotini. Vorrei la voce per cantarti le lodi più belle, come facevo da piccola con le mie sorelle. Ma forse sto chiedendo troppo: sembra mi sia rimasto solo il cuore. Ma invece ho tutto, perché ho te Signore – Lorenzina M.

 
 
 

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