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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 15/10/2022

Montagna, patrimonio fragile

Post n°3787 pubblicato il 15 Ottobre 2022 da namy0000
 

2022, Scarp de’ tenis, agosto

MONTAGNA. PATRIMONIO FRAGILE

Andrea e Miriam, 45 anni in due, vivono a 2.259 metri

La vita, quassù, non è semplice. Nessuna comodità, ci vogliono regole e consapevolezza. Il telefono quasi non prende, la connessione va e viene, ma questo è niente. Bisogna centellinare la corrente e persino l’acqua. Eppure ci sono giovani che un lavoro in cima alla montagna l’hanno cercato e abbracciato con entusiasmo.

Siamo al Rifugio Fraccaroli, a Cima Carega nelle Piccole Dolomiti: 2.259 metri sul livello del mare, sul confine tra Trentino e Veneto. Da questa estate, dopo 53 anni in cui il rifugio è stato gestito dalla stessa famiglia, iBaschera, a fare i padroni di casa sono ora Andrea L. e Miriam R., 25 anni lui e 19 lei. A vederli sembrano due ragazzini, ma poi, sentendoli raccontare il loro lavoro, capisci perché il Cai abbia deciso di affidare loro il Rifugio.

«Abbiamo lavorato in altri rifugi nelle scorse stagioni, e avevamo il sogno di poterne gestire uno che non fosse raggiungibile in auto – racconta Miriam -. Quando si è aperta questa possibilità, abbiamo partecipato presentando il nostro progetto, ed eccoci qui».

Il Carega è la montagna di casa per loro che vivono a valle, in provincia di Vicenza: conoscono bene queste terre e le frequentano da sempre. Andrea, che è laureato in tecnologie forestali e ambientali, le ha anche studiate.

«Bisogna fare i conti con la poca acqua: si lavano i piatti col contagocce, ci si lava una volta a settimana. Abbiamo un bagno solo, in condivisione con gli ospiti. Alla sera spegniamo tutto ciò che consuma elettricità, incluso il frigorifero. Per le stoviglie usiamo quelle di carta o le palette di legno per il caffè, per avere meno cose da lavare, e utilizziamo detersivi a basso impatto inquinante, ma anche quello dei rifiuti è un altro tema: vanno portati a valle a mano, a chi frequenta la montagna si chiede di riportar giù i propri rifiuti».

Andrea e Miriam, con la collaborazione di genitori e fratelli, riescono a garantire ogni giorno il pranzo e la cena: propongono una scelta di diversi primi e secondi al mezzogiorno; mentre la sera c’è un menù fisso, servito tra le 19 e le 20. La vita segue i ritmi della natura: «È come tornare alla vita di una volta – spiegano – quindi alle dieci di sera si spegne la luce e si fa silenzio».

Non tutti capiscono la filosofia della montagna, e questo è forse il lato più difficile del lavoro. «Dopo la pandemia hanno iniziato a frequentare la montagna tante persone, ma non tutti accettano la fatica. C’è chi non riesce a comprendere che un rifugio non è un ristorante: non si può arrivare alle dieci e pretendere di cenare, oppure non capiscono perché non abbiamo il bancomat, o ancora si lamentano del prezzo della birra. Ma è anche vero che molti mostrano sensibilità e quando alla sera vedi il Rifugio pieno, con tante persone che ci fanno i complimenti, questo dà soddisfazione».

 

Dobbiamo recuperare il legame con la terra. Marco B. ha solo 21 anni ma ha le idee ben precise

C’è nella sua generazione, lui ne è convinto, un ritorno al legame con la terra che quella precedente aveva perso. Ora invece sono tanti i giovani come lui che, invece di andarsene verso una vita più moderna in città, risalgono la montagna e scelgono di starci.

Marco B. non viene da una famiglia propriamente montanara: è cresciuto a Borgo San Dalmazzo, l’ultimo grosso centro abitato della provincia di Cuneo prima di salire verso le Alpi Marittime.

Eppure l’amore per la montagna deve aver avuto un’impronta forte nella sua famiglia, perché tutti e tre i fratelli, di montagna, hanno scelto di vivere. Dei tre, la più famosa è Marta, campionessa del mondo di sci; poi c’è Matteo, che alleva mucche e pecore e che trascorre le estati in alpeggio. E infine Marco, che dallo scorso anno è diventato il gestore del rifugio Emilio Questa, nell’alta Valle Gesso, a quasi 2.400 metri, a pochi metri dal confine con la Francia.

«Siamo sempre stati appassionati delle nostre montagne, fin da piccoli. Da ragazzo, appena finiva la scuola, raggiungevo mio fratello per dargli una mano con gli animali», ricorda Marco. La sua occasione è arrivata nell’estate dell’esame di maturità. «Stavo lavorando in alpeggio con mio fratello e abbiamo saputo che l’ex gestore del rifugio sarebbe andato in pensione. Io non avevo granchè voglia di andare avanti a studiare, mentre l’idea di lavorare in mezzo alla natura e a questa bellezza mi attirava. Ci siamo informati e ho deciso di provarci». Ad aiutarlo ci sono il fratello, la cognata e pochi altri dipendenti. L’apertura va da giugno a metà settembre, anche se in realtà il tempo che dedica al rifugio, tra lavori di manutenzione e organizzazione, è molto di più.

I ritmi sono faticosi: «Si inizia alle 5 di mattina e quando hai due turni di cena finisci alle 22, prima delle 23 non sei a dormire. Speravo di avanzare del tempo per l’altra mia passione, che è la fotografia, ma finora ne è rimasto ben pco», sorride.

Il loro menù cerca di rispettare le tradizioni locali, il pane lo fanno fresco ogni giorno, nei taglieri si trovano formaggi dei produttori della zona, tra cui quelli del fratello.

Anche Matteo ha scelto una vita legata alla terra, agli animali, alla loro montagna: ha aperto il suo allevamento appena terminato il liceo, da subito affiancato da Sara, che oggi è sua moglie. Durante l’inverno si occupano a valle del loro allevamento di pecore sambucane, una razza autoctona, poi d’estate salgono all’alpeggio, non distante dal rifugio di Marco.

«Non collaboro solo con lui – dice Matteo -: ho contatti con tanti rifugi e operatori del settore agricolo della vallata, sono quasi tutti giovani, che hanno voglia di lavorare per la terra, con il rispetto che merita».

La sua è una generazione molto legata alla natura, racconta. «A differenza di quella precedente, dei nostri genitori, che aveva un po’ perso il contatto con la terra. Forse perché hanno vissuto un’epoca di prosperità economica che ha portato a sottovalutare l’aspetto del lavoro agricolo, del lavoro in montagna, del lavoro più duro. Ora, per noi, questo legame con la terra è tornato importante».

 

Quando preservare il creato significa generare aiuti per i più poveri

La montagna è un luogo da preservare ma anche uno spazio che accoglie e restituisce generosamente. Lo dimostra una realtà silenziosa e tenace come quella dell’Operazione Mato Grosso nata proprio in questo contesto. Il progetto prende forma nel lontano 1967, quando don Ugo De Censi, padre salesiano che diventerà la guida dell’Omg (fino al 2018 quando viene a mancare) organizza una spedizione giovanile missionaria nel Mato Grosso, la regione interna del Brasile al confine con la Bolivia che versava in condizioni di grande povertà. Don Ugo non desiderava solo assistere ed educare, ma liberare dalla povertà. Con questo spirito prende il via il progetto: da allora le missioni nell’America Latina sono tantissime (si creano oratori, istituti pedagogici, case per bambini abbandonati, ospedali) e ancora oggi, dopo tutti questi anni, è più attivo che mai, come ci racconta don Ambrogio Galbusera uno dei coordinatori.

Perché il collegamento con la montagna?

È proprio dai campi estivi della Val Formazza, in provincia di Verbania, che nacque l’idea di creare un gruppo di giovani che andasse ad aiutare le popolazioni più povere del Sud America. Da allora, il progetto ha mantenuto, come un filo sottile, il suo spirito, senza mai spezzarsi. Pur non avendo un’organizzazione strutturata siamo riusciti a portare avanti le nostre missioni coordinandoci in tutta Italia. La montagna ha un ruolo centrale perché grazie ai tanti rifugi alpini che abbiamo costruito durante i campi di lavoro e a quelli già esistenti ce abbiamo in gestione possiamo contribuire a salvaguardare ambienti sempre più delicati a raccogliere i fondi necessari per aiutare le popolazioni in difficoltà.

Come sono organizzate le vostre missioni?

L’Omg propone ai giovani di lavorare gratuitamente per i più poveri. Ci sono gruppi di ragazzi che lavorano gratuitamente durante la settimana dopo il lavoro, oppure, come accade spesso nella gestione dei rifugi, il sabato e la domenica. D’estate organizziamo campi di lavoro di una settimana o quindici giorni. Tutto il ricavato viene inviato alle missioni. Tutti possono entrare a fare parte dell’Omg, senza preclusioni né ideologiche né religiose. Le attività delle diverse missioni in Perù, Ecuador, Brasile, Bolivia formate da volontari – oltre ai ragazzi ci sono anche famiglie e sacerdoti – si concentrano in vari ambiti, come quello educativo, religioso, sanitario, agricolo e sociale. I volontari offrono il loro lavoro in forma gratuita. Ogni estate partono verso le missioni gruppi di giovani per un periodo di vari mesi. Alcuni restano anche per anni.

Qual è l’obiettivo?

In questi ultimi anni in particolare, ci siamo concentrati soprattutto sull’ambito formativo dando così origine a scuole, a taller (scuole tecniche), istituti di avviamento al lavoro di vario genere, con una componente prevalentemente artistica, fino a raggiungere livelli di grande professionalità e talento. In questo modo rendiamo autonome le popolazioni locali delle Ande che possono restare nel loro territorio e renderlo quindi meno povero.

E per i ragazzi italiani cosa significa prendere parte alle missioni?

Significa crescere secondo lo spirito di san Giovanni Bosco: buoni cristiani ed onesti cittadini. Attraverso questo impegno, intraprendono un cammino educativo in cui imparano concretamente cosa significhi la fatica, l’impegno sociale, il rispetto e la collaborazione con gli altri, la sensibilità e l’attenzione ai problemi dei più poveri ma anche la difesa della bellezza del creto. E la bellezza del dare senza aspettarsi nulla in cambio.

 
 
 

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