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Messaggi del 01/06/2019

La svolta

Post n°3047 pubblicato il 01 Giugno 2019 da namy0000
 

Nicola è un ragazzo che ha conosciuto la cocaina a 26 anni, dopo un fidanzamento finito male. Aveva iniziato con l’ecstasy a 18 anni. Ma qando è rimasto solo, la cocaina è stata la compagna che lo sosteneva, lo nascondeva, lo difendeva. ‹‹Nella mia vita c’è stato un rifiuto da parte della società, ci sono stati degi abusi che ho subìto, quindi tutto ha creato in me un bisogno di essere amato ce mi metteva in questa ricerca, ma puntualmente venivo tradito e deluso››.

Dall’uso allo spaccio il passaggio è stato rapido. Dopo dieci anni è riuscito a chiedere aiuto. La svolta è arrivata grazie a una lettera della sorella maggiore. ‹‹Non riconosco più quel bambino che, nonostante tutte le avversità, aveva una forza interiore che dava coraggio a noi adulti: dov’è finito?››. Nicola ha preso in mano la sua esistenza, vivendo due anni di programma terapeutico nella Comunità Nuovi Orizzonti. Dopo il reinserimento lavorativo e altre esperienze s’è sposato e ha deciso con sua moglie di aiutare altri giovani: ‹‹Sono rimasto in comunità perché sentivo la chiamata a ridonare quell’Amore, con la A maiuscola, che avevo ricevuto e di cui avevo bisogno. È stato quell’Amore che mi ha salvato››. Oggi Nicola e la sua sposa operano in Bosnia Erzegovina (FC n. 22 del 2 giugno 2019).

 
 
 

Mouhamed Ali

Post n°3046 pubblicato il 01 Giugno 2019 da namy0000
 

Mouhamed Ali Ndiaye, senegalese di nascita, italiano per amore, è diventato un pugile affermato, sognando Cassius Clay di cui ha preso il nome musulmano.

Il suo destino da pugile era segnato già nel suo nome, Mouhamed Ali, come il leggendario campione che prima di divetare musulmano si chiamava Cassius Clay. L’aveva scelto il papà, pugile anch’esso e ammiratore del boxeur statunitense.

Il piccolo Mouhamed fu sottoposto a duri allenamenti, che lo tenevano lontano dai giochi e talvolta anche dalla scuola. E quando Muhammad Ali andò in Senegal, il padre si attivò per farlo incontrare con il figlio, la prima volta quando aveva solo cinque mesi, la seconda quando aveva dieci anni. lo ricorda in un libro appena uscito Mi chiamo Mouhamed Ali (Piemme), scritto con Rita Coruzzi, giornalista coraggiosa costretta, dopo un intervento chiururgico andato male, sulla sedia a rotelle. ‹‹Ho dei bellissimi ricordi di quell’incontro››, racconta Mouhamed: ‹‹Eravamo in un hotel di Dakar, abbiamo fatto colazione, chiacchierato. E il campione mi ha intrattenuto con giochi di prestigio››.

Il ring cominciò a dargli parecchie soddisfazioni, tanto da diventare, a 17 anni, campione del Senegal dei pesi welter. Ma il suo Paese gli stava stretto, capiva che più di tanto non avrebbe potuto fare, e lui aveva grandi sogni, voleva imporsi a livello internazionale. ‹‹Nel 2000, mi trovavo in Francia per una competizione, cominciai a cercare lì una palestra in cui allenarmi, ma trovai solo porte chiuse. Allora, dato che mi stava per scadere il visto, decisi di raggiungere dei miei parenti in Italia, dove arrivai in treno. Finii per stabilirmi a Pontedera, dove c’era una grande tradizione pugilistica. Ero di fatto un clandestino, e l’unico lavoro che potei trovare fu il venditore ambulante nei mercati e nelle spiagge. Ma a una certa ora mollavo tutto per andarmi ad allenare. Cominciai a fare incontri da dilettante e nelle Marche mi vide combattere l’allora presidente della Federazione pugilistica: mi notò e mi convocò in nazionale. Feci vari tornei internazionali e a Santo Domingo vinsi una medaglia d’oro ma durante un incontro ricevetti un brutto colpo che mi causò il distacco della retina. Cessai di gareggiare. Dopo l’intervento, il medico che mi operò mi diede il permesso di tornare sul ring. Era il 2004, e in quello stesso anno vinsi il Campionato italiano, riportando nella mia città, Pontedera, il titolo dopo trent’anni››.

Nel 2005, passò nei professionisti e ottenne diversi successi, vincendo, tra l’altro, il Campionato italiano e quello dell’Unione eropea. ‹‹Purtroppo ho avuto un nuovo distacco della retina; neanche allora mi sono voluto arrendere, e dopo un’altra operazione, ho continuato a combattere. Poi, all’ennesimo intervento, mi hanno impiantato un cristallino artificiale. A quel punto rischiavo di perdere la vista, e nel 2016 mi sono ritirato. Era lo stesso anno della morte del mio leggendario omonimo››.

Ora Mouhamed fa il mediatore culturale con i migranti, anche se a tempo determinato, ed è ancora alla ricerca di un posto fisso. È impegnato nel sociale come Ambasciatore di buona volontà per i disabili dell’Africa dell’Ovest, volontario della Croce Rossa e dei Vigili del Fuoco. La moglie, Federica, è italiana che si è convertita all’islam, e hanno tre bambini.

‹‹Non vorrei che i miei figli  seguissero le mie orme: combattere comporta troppi sacrifici. E io ho sacrificato alla boxe la mia infanzia, mio padre non si rendeva conto che ero solo un bambino. Eppure è stata tutta quella fatica che mi ha spinto a non mollare mai, allenarmi per me è stata come una religione. E mio padre è orgoglioso dei risultati che ho raggiunto, vive ancora in Senegal. Lui è stato il mio primo maestro, gli devo tanto. È anche grazie al lui che nella mia vita non mi sono mai arreso e ho continuato a perseguire i miei sogni››. (FC n. 22 del 2 giugno 2019).

 
 
 

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