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Messaggi del 30/06/2019

Niente di nuovo sotto il sole

Post n°3071 pubblicato il 30 Giugno 2019 da namy0000
 

Lettera dell’insegnante e cantautore Roberto Vecchioni al direttore di Repubblica del 29 giugno 2019

Caro direttore, è proprio vero che non c’è niente di nuovo sotto il sole, quel (s)elios che brilla e illumina come selenio. Qualsiasi storia, intreccio, episodio, qualsiasi accidente, doloroso percorso, strazio o trionfo che la vita ci presenti nelle sue infinite variazioni c’era già stato, era lì da 2500 anni nella tragedia, nella commedia, nella lirica o nell’epica, nel romanzo e nell’epigramma dell’antica Grecia. Qualsiasi opera letteraria – dice Sepulveda – nasce o dall’Iliade o dall’Odissea, sono frantumate anime in gara con se stesse tutti i re Shakesperiani pari agli eroi sotto Ilio. Romantici dibattuti fra realtà e sogno, Goethe e compagnia, pari ad Ulisse Robinson di Swift, l’illuminista e Bloom di Joyce, peregrino dell’indefinibile tragedia di un solo giorno. I greci avevano teorizzato già nell’essere o divenire due inconciliabili e antitetiche sembianze della verità. Tutto è doppio, è duplice nell’universo e lo sarebbe stato fino a Hegel, fino a noi. E duplici intendevano pure le forme del vivere sociale, dello stare insieme, di governare una polis, uno stato. La prima, “catabolica”, tendeva a stringere, rinchiudersi, ammucchiare, difendersi, non rischiare l’ignoto; la seconda al contrario apriva, usciva, indagava il diverso, accoglieva, sfidava l’ignoto. La paura del diverso, appunto, ha caratterizzato tutto il neolitico. Ogni evento raro, sconosciuto era all’indice: il mestruo, il ritorno dalla guerra, il neonato malforme, la grandine, l’animale sconosciuto, mandavano in tilt un intero clan. I totem sono simboli di parentela protettiva: se mi imparento con la natura, con gli animali, io può darsi che me la cavo. In fondo ogni “destra” è una società di cacciatori raccoglitori. Quando nel regno di Tebe due scriteriati fratelli, figli di Edipo, si prendono a mazzate per salire al trono, succede che quello legittimo la spunta ma crepa e l’altro, l’illegittimo crepa pure e manco la spunta. E qui salta fuori Salvini, che allora si chiamava Creonte, fratello di Giocasta, regnante ad interim nell’attesa speranzosa che i due fratelli (le due anima del Pd) si facessero fuori l’un l’altro. Creonte ordina che il buono “il bianco” Eteocle venga seppellito con tutti gli onori; ma il cattivo, “il nero”, rimanga insepolto. A questa decisione si oppone fermamente la sorella dei due, una meravigliosa, indomita ragazza: Antigone. Il suo scontro con Creonte è epico. Creonte non si sposta di un centimetro: la legge dice così e basta, caso chiuso. Ma Antigone gli tiene testa con una fierezza che la fa forte dentro di un’altra legge più alta, più universale delle convinzioni umane. No. Lei seppellirà il fratello a qualsiasi costo, a qualsiasi coneguenza potrà andare incontro. È la madre di tutte le battaglie, il conflitto eterno tra ragione e cuore. La legge è quacosa di alto, di sacro. Socrate, che è innocente, non si pone nemmeno il quesito, potrebbe benissimo scansarla, fuggire, tutto è già preparato dai discepoli. Ma è un’altra stori. Socrate aveva votato lui stesso quella legge, la coerenza è per lui imprescindibile. Carola-Antigone non ha dubbi, non ha bilance, su cui pesare il male e il bene, il vero e il falso: lei entrerà in quel porto qualsiasi siano le conseguenze. La dabbenaggine degli uomini è credere che un contratto sociale sia ferro temprato da Dio in persona. Può anche darsi, ma certo l’umanesimo è diamante; di una luce che stravolge e sconvolge quando senti di averla dentro. Io me la vedo Carola, bella, ritta sul ponte a prendere quella decisione che per lei è solamente normale. Nessun tentennamento, nessuna paura, un riso naturale, convinto, gli occhi semichiusi nel sole accecante, nella certezza che tutti gli uomini sono diamanti. Lei non lo sa, ma le ha dentro di sé le ultime parole che Edipo in punto di morte aveva detto ad Antigone disperata: “Non piangere, figlia mia, c’è una sola parola che ci libera dall’oscurità, dal male del mondo. e quella parola è Amore”.

 
 
 

I tuoi dischi

Post n°3070 pubblicato il 30 Giugno 2019 da namy0000
 

Vinicio Capossela, cantautore, 53 anni (Intervista, FC n. 25 del 23 giugno 2019). Suo ultimo album: Ballate per uomini e bestie.

I tuoi dischi nascono da viaggi dove sei stato per questo?

‹‹Questo nasce invece da un isolamento. Da sette anni, a inizio gennaio, mi rifugio in una casa in un paese che d’inverno è disabitato, per studiare il Medioevo. All’inizio, mi sembrava di aver bisogno di questo periodo di distacco per spurgarmi dagli avvelenamenti dell’attualità. Poi mi sono reso conto che quello da cui fuggivo finiva dentro le canzoni che mi venivano fuori, e che mi sembravano di “evasione” dalla realtà. Mi sono chiesto: perché sento il bisogno di isolarmi? La risposta era: perché fuori c’è la peste. Mi sento come ai tempi di Boccaccio che, per proteggersi, si rifugiava nel racconto. La peste è la corruzione morale e il suo strumento di contagio, un veicolo di trasmissione capillarissimo, è Internet, dove, non a caso, si usano terminologie che hanno riferimenti epidemici, come virus o influencer››.

A una delle vittime di questa peste, Tiziana Cantone, la ragazza che si è tolta la vita dopo la diffusione sui social network di sue immagini intime, hai dedicato una canzone. Perché la sua vicenda ti ha così colpito?

‹‹Perché è emblematica della deresponsabilizzazione che c’è oggi. Azioni che possono distruggere le persone vengono compiute così per gioco, per ridere un po’, senza minimamente pensare ai possibili effetti››.

Il singolo Il povero Cristo contiene un’immagine molto forte: Gesù decide di risalire sulla Croce perché ha capito che il Comandamento più importante che ci ha lasciato, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, è troppo difficile per l’umanità. Mentre noi urliamo sempre più forte, Cristo sceglie di tacere. Quindi la sua venuta sulla terra è stata inutile?

‹‹L’espressione “povero cristo” è ambivalente: si usa non tanto per designare il Figlio di Dio ma un “poveraccio”, uno che non ce la fa. La canzone parla prima di tutto di lui, di un uomo che, a causa della sua avidità, non riesce a mettere in pratica un precetto di per sé semplice, ma rivoluzionario. Se guardiamo il mondo, obiettivamente la Buona Novella non è arrivata››.

Perché hai scelto di girare il video de Il povero Cristo a Riace?

‹‹Perché, al di là delle vicende giudiziarie dell’ex sindaco Mimmo Lucano, mi sembra un luogo in cui prima si è cercato di mettere in pratica la Buona Novella e poi di negarla. L’esempio di Riace, un paesino tornato a vivere grazie agli immigrati, va contro al modello dominante per cui l’Europa paga due paesi, la Turchia e la Libia, per tentare di bloccare l’arrivo dei poveri. Riace è un esempio pericoloso, che evidentemente andava fermato››.

Il Gesù del video è Enrique Irazoqui, lo spagnolo protagonista del Gesù in Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Che fine aveva fatto e perché hai pensato a lui?

‹‹Ho trovato Enrique attraverso il Centro studi pasoliniani. Ha 74 anni, e ha vissuto una vita molto ricca, facendo lo scacchista. Gli ho raccontato il senso della canzone, e lui ha accettato di partecipare. Il Cristo del Vangelo è morto giovane e bello, come i grandi eroi, come ce lo mostra Pasolini in quel magnifico film. Quindi, pur facendosi uomo, non ha vissuto la condizione più umana di tutte, che è quella dell’invecchiare. Mi è venuta così la suggestione di far rivedere il volto di Enrique, che ricordavo quando nel film con un vigore incredibile pronuncia il Discorso della montagna, adesso, scavato dalle rughe. Un povero Cristo che ora tace, osservando tanti poveri cristi come lui, i migranti››.

Gesù ritorna in La ballata del carcere di Reading, ispirata al componimento omonimo di .Oscar Wilde, che a tal proposito scriveva “Cristo non è morto per salvare la gente, ma per insegnare alla gente a salvarsi a vicenda”.

‹‹È l’ultima opera di Wilde, scritta subito dopo la sua prigionia. Denuncia la barbarie della pena di morte e del carcere che non redime, ma umilia e dunque rappresenta il tradimento del messaggio cristiano. Un tradimento che ho cercato di tradurre con questi versi: “Il cappellano non si è inginocchiato. Non la Croce nell’aria ha segnato. La Croce che Cristo ha donato a salvezza di chi ha peccato”. Questa ballata è davvero un canto degli ultimi che colpisce e commuove perché è il frutto dell’animo di uno scrittore che fino a quel momento aveva fatto dell’estetismo la materia prima della sua arte››.

Il sacro è presente non solo in questo album, ma in buona parte delle tue canzoni. Dove ritrovi di più questa dimensione?

‹‹In un mondo che sostituisce sempre più la ritualità con la procedure, io ritrovo il sacro prima di tutto nelle parole, quindi nella letteratura. E poi nella cultura contadina, che contempla il sacro inteso anche come sacrificio››.

Sei un grande affabulatore. C’è qualcuno da cui hai preso questa capacità?

‹‹Nella mia famiglia non circolavano molti libri. Eppure i miei genitori erano grandi narratori. Lavoravano in fabbrica, e la sera raccontavano in dialetto storie del loro paese di origine, in Irpinia, che mi affascinavano. Quando poi ho letto Omero, vi ho ritrovato lo stesso senso dell’onore, del fantastico e perfino l’epica di quelle storie di vita vissuta con cui sono cresciuto››.

L’album si intitola Ballate per uomini e bestie. Vuoi suggerire che per ritrovare un po’ della vostra umanità dobbiamo guardare agli animali?

‹‹Abbiamo solo da imparare dalla purezza delle bestie, dal loro legame non mediato da sovrastrutture con la natura e con le altre creature. Detto questo, il poeta e regista Silvano Agosti ha presentato una petizione alle Nazioni Unite per proclamare l’essere umano Patrimonio dell’umanità: una provocazione geniale per dire che possiamo salvarci solo se recuperiamo la nostra essenza›› (FC n. 25 del 23 giugno 2019).

 
 
 

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