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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 22/03/2020

Enciclica di papa Paolo VI

POPULORUM PROGRESSIO

LETTERA ENCICLICA
DI SUA SANTITÀ
PAOLO PP. VI

INTRODUZIONE

 

LA QUESTIONE SOCIALE È QUESTIONE MORALE

Sviluppo dei popoli

1. Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa. All’indomani del Concilio Ecumenico Vaticano II, una rinnovata presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico le impone di mettersi al servizio degli uomini, onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di una azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità.

Insegnamento sociale dei papi

2. Nelle loro grandi encicliche, "Rerum novarum" di Leone XIII, "Quadragesimo anno", di Pio XI, "Mater et magistra" e "Pacem in terris" di Giovanni XXIII - senza contare i messaggi al mondo di Pio XII  -, i nostri predecessori non mancarono al dovere, proprio del loro ufficio, di proiettare sulle questioni sociali del loro tempo la luce del vangelo.

Il fatto maggiore

3. Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prender coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale. Giovanni XXIII l’ha affermato nettamente, e il concilio gli ha fatto eco con la sua costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si tratta di un insegnamento di particolare gravità che esige un’applicazione urgente. I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello.

I nostri viaggi

4. Prima della nostra chiamata al supremo pontificato, due viaggi, nell’America latina (1960) e in Africa (1962), ci avevano messo a contatto immediato con i laceranti problemi che attanagliano continenti pieni di vita e di speranza. Rivestiti della paternità universale, abbiamo potuto, nel corso di nuovi viaggi in Terra Santa e in India, vedere coi nostri occhi e quasi toccar con mano le gravissime difficoltà che assalgono popoli di antica civiltà alle prese con il problema dello sviluppo. Mentre ancora si stava svolgendo a Roma il Concilio ecumenico Vaticano II, circostanze provvidenziali ci portarono a rivolgerci direttamente all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. E davanti a quel vasto areopago ci facemmo l’avvocato dei popoli poveri.

Giustizia e pace

5. Infine, recentemente, nel desiderio di rispondere al voto del concilio e di volgere in forma concreta l’apporto della santa sede a questa grande causa dei popoli in via di sviluppo, abbiamo ritenuto che facesse parte del nostro dovere il creare presso gli organismi centrali della chiesa una commissione pontificia che avesse il compito di "suscitare in tutto il popolo di Dio la piena conoscenza del ruolo che i tempi attuali reclamano da lui, in modo da promuovere il progresso dei popoli più poveri, da favorire la giustizia sociale tra le nazioni, da offrire a quelle che sono meno sviluppate un aiuto tale che le metta in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso": Giustizia e pace è il suo nome e il suo programma. Noi pensiamo che su tale programma possano e debbano convenire, assieme ai nostri figli cattolici e ai fratelli cristiani, gli uomini di buona volontà. È dunque a tutti che noi oggi rivolgiamo questo appello solenne a una azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità.

 
 
 

In prima linea

Post n°3284 pubblicato il 22 Marzo 2020 da namy0000
 

Coronavirus. Noi preti in prima linea. Ma per giocare di squadra

Maurizio Patriciello, Avvenire, sabato 21 marzo 2020

Sulla croce, mai come adesso, i preti italiani condividono in tutto la sorte del popolo affidato alle loro cure. Soprattutto quando per loro celebrano la Messa davanti ai banchi vuoti.

Domenica 23 novembre 1980, un terribile terremoto sconvolge la Campania, la Lucania e si estende fino alla Puglia e alla Calabria. Una catasfrofe. Giovane infermiere, due giorni dopo sono già in Irpinia. Piove a dirotto, macerie e fango dappertutto. Freddo, dolore, incredulità, morte. La solidarietà umana fu stupenda; gli imbrogli, le ruberie, le furbizie, la camorra, verranno dopo e saranno, come sempre, deprimenti.

Quando l’uomo sa tirare fuori il meglio da se stesso, quando sa scorgere in chi implora aiuto non “l’inferno” da fuggire, ma il paradiso da conquistare, viene “promosso a uomo”.

Volli correre. Non farlo mi era vietato. Non dalla legge ma dalla mia coscienza. Fu lei a liberarmi dalla paura e a mettermi le ali ai piedi. Era rischioso? Certamente e lo sapevo. Ma la vita, in fondo, non è un continuo rischio? A chi sa mettere a repentaglio la propria per salvarne altre vanno appuntate le medaglie d’oro.

Non ero prete in quel lontano 1980; anzi, a dire il vero, nemmeno più cattolico. Quando i fratelli soffrono non si può rimanere affacciati alla finestra, quando implorano il tuo aiuto, non soccorrerli è atto criminale. Il male, la cattiveria, il cinismo, il disprezzo possono, purtroppo, anche suscitare reazioni simili. Non così accade davanti alle lacrime di una mamma, di una nonna, di un giovane che ti guardano con il terrore di non farcela. Penso che la solidarietà tra gli uomini sia la sola virtù capace di farci sentire membri di una sola, grande famiglia.

Dopo l’incontro con Gesù travestito da frate francescano, sono diventato prete, a servizio della Chiesa e del popolo di Dio. Un popolo che non si esaurisce entro i confini della mia parrocchia, ma che incontro ovunque, per strada, in treno, in aereo, sui social. Da prete sto vivendo questa orribile pandemia insieme a tutti gli italiani, cosciente che il “sì” pronunciato nel giorno della mia ordinazione deve essere ripetuto ogni giorno, anche davanti a un plotone di esecuzione.

Il primo desiderio alla notizia di ciò che stava accadendo al Nord – in Lombardia ho tantissimi cari amiche e amici – è stato quello di correre, andare, fare qualcosa. Rendermi utile, portare conforto, dare una mano, anche attingendo alla mia antica professione. Sia detto senza finta umiltà e senza ostentazione, non è la paura del martirio a tenere a casa me e tanti miei confratelli in questi giorni, ma l’obbedienza che dobbiamo in quanto italiani e preti alle legittime autorità civili – quando non ci chiedono cose che vanno contro la coscienza e la fede – e religiose. Obbendienza che in questi giorni non ci è stata chiesta per motivi ideologici o politici, ma per amore verso i fratelli. Oggi il bisogno di volare a fare agli altri ciò che vorrei fosse fatto a me, se l’invisibile nemico decidesse di attaccarmi, deve fare i conti con la peculiarità di questa catastrofe.

Oggi non serve l’eroe solitario, ma un lavoro di squadra ben organizzato, dove ognuno deve fare in pieno la sua parte, e solo quella. Per il bene di tutti. Oggi anche la superbia e la vanità, che si annidano dappertutto, devono lasciare spazio all’umiltà. Solo stando insieme, condividendo scienza, intuizioni, professioni, sostanze, esperienze, possiamo camminare fiduciosi verso la speranza. Il virus non bada alle frontiere; non conviene lasciarlo prosperare tra i poveri, i senzatetto, i profughi, gli immigrati, perché rimarrebbe una minaccia per tutti. Oggi cristiani e non cristiani possono riflettere insieme e meglio sul desiderio di Gesù: «Ut unum sint».

Fare la volontà di Dio vuol dire non arroccarsi caparbiamente sulle proprie convinzioni, facendone magari un idolo, ma essere pronti a partire o a rimanere fermo, come Lui comanda. A spenderti, come tanti cari confratelli in servizio negli ospedali e nelle case di cura, al punto da non avere nemmeno il tempo di pregare il Vespro, o rimanere a casa a bussare al cuore del buon Dio per ore. So di certo che tanti giovani preti sarebbero pronti a partire per il fronte, se fosse loro richiesto. Il dramma è che non sappiamo dove sia situato il fronte dove si nasconde l’invisibile nemico.

L’Italia e il mondo sono diventati una sola trincea. Dopo aver pianto la scomparsa dei numerosi sacerdoti lombardi, stiamo piangendo la morte di don Alessandro, il primo prete campano a oltrepassare la soglia dell’eternità a causa del coronavirus. Aveva solo 45 anni, questo caro confratello. «Chi parla della croce deve essere pronto a salire sulla croce» scriveva padre Nazareno Fabbretti. È vero. Sulla croce, in attesa della risurrezione, mai come adesso, i preti italiani condividono in tutto la sorte del popolo affidato alle loro cure. Soprattutto quando per loro celebrano la Messa in una chiesa con i banchi vuoti. Una tristezza e un dolore immenso, mitigato solo dalla certezza di compiere la volontà di Dio.

 
 
 

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