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Un mondo nuovo

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Messaggi di Agosto 2020

Vorrei che ci fossero tanti medici così

Post n°3389 pubblicato il 15 Agosto 2020 da namy0000
 

2020, Giangiacomo Schiavi, Scarp de’ tenis maggio-giugno. CORONAVIRUS

Vorrei che ci fossero tanti medici così, come il giovane specializzando che si è offerto di sostituire i colleghi di una casa di riposo in provincia di Roma, tutti contagiati dal Covid-19, e per questo costretti ad abbandonare i loro assistiti nel momento più duro della pandemia. Quando l’hanno intervistato in tv, in cerca forse di qualche denuncia sulle inadempienze della direzione e della politica, ha spiazzato tutti con queste parole: ‹‹Ho avuto il privilegio di fare un’esperienza straordinaria. Dagli anziani, dai malati di Parkinson, da chi era impossibilitato a muoversi, ho ricevuto una lezione di vita e di storia. Mi hanno raccontato gli orrori della guerra, la loro Resistenza, il coraggio di fare certe scelte in anni terribili, la fame, la paura, la felicità per la pace che ha portato tutti nelle piazze. Parlavano con orgoglio di un Paese che è il nostro, di sofferenza e di riscatto e qualche volta mi hanno fatto piangere. Grazie, grazie, ho detto più volte, non sapevo nulla di quei giorni e non dimenticherò mai questa lezione di storia e di umanità››.

Vorrei che ci fossero tanti medici così, anche come il dottor Luigi Cavanna, primario di oncologia all’ospedale di Piacenza, che le vite degli altri le ha salvate perché ha messo in piedi una squadra di pronto soccorso a domicilio nei giorni in cui di coronavirus si moriva in ospedale: non c’era posto e se avevi più di ottant’anni ti lasciavano fuori dalle terapie intensive. Lui non ha avuto paura a presentarsi con la mascherina a casa di malati e malate nei paesini isolati anche dai medici di famiglia. Prima si era offerto volontario al pronto soccorso del suo ospedale: un inferno. ‹‹Ho pensato che sarei stato più utile curando le persone a casa, evitando la corsa spesso inutile verso l’ospedale. È andata bene, abbiamo evitato altri morti, ma la cosa più bella che mi porto dentro è la gratitudine degli anziani che si sono sentiti accuditi, con la cura hanno avuto anche quello che mancava di più: l’ascolto››.

Sono esempi che danno un senso alla vita e a una professione. E che diventano copertine dei giornali stranieri. Cavanna è finito su Time, con Francesco Menchise, medico della terapia intensiva dell’ospedale di Ravenna. ‹‹Lavoratori coraggiosi che rischiano la vita per salvare la nostra››, ha scritto il corrispondente del settimanale americano. Non dovrebbe essere un’emergenza, una crisi o una pandemia a dirci che la sanità non è una catena di montaggio, che l’ospedale non è un’azienda, che il medico non è un customer satisfaction. Non si può ridurre la salute a un calcolo sui costi e i benefici. Non l’ha fatto Chiara, 43 anni, rianimatrice al neurologico Besta di Milano. Quando ha saputo che la terapia intensiva dell’ospedale di Lodi, era in crisi, ha fatto una scelta istintiva: ‹‹Vado dove c’è bisogno, siamo medici proprio per questo››. Dietro tanti sguardi che straziavano il cuore ha trovato altre colleghe come lei, capaci di dare fiducia e speranza. E quando è tornata nel suo reparto ha detto che dopo certe esperienze non si può più essere normali. ‹‹Prima dei diritti e dei doveri viene il bisogno di aiuto. Il Covid ce lo ha tragicamente ricordato››.

Vorrei che ci fossero tanti medici così. Ma forse ci sono, e non ce n’eravamo accorti.

 
 
 

Scritta da un ragazzo qualsiasi

Post n°3388 pubblicato il 10 Agosto 2020 da namy0000
 

2020, Lettera a FC n. 32 del 9 agosto.

Questa è una lettera qualsiasi, scritta da un ragazzo qualsiasi, di una città qualsiasi. Queste mie parole vogliono spronare coloro che comodi siedono al vertice del nostro Paese, perché con i loro silenzi stanno drogando tutti noi, iniettandoci dosi massicce di una sostanza che apparentemente non lede la persona, ma che lentamente la porta alla morte. Mi rivolgo a voi che tutelate e pubblicizzate il gioco d’azzardo come il più normale degli hobby, il passatempo ludico per eccellenza, senza minimamente riflettere sulle conseguenze che questa droga ha sulle persone, le famiglie e il Paese intero.

Io ho poco più di 30 anni e gioco da quando ne avevo 18; nella mia breve storia ho accumulato debiti su debiti e speso migliaia di migliaia di euro; mi sono fermato e ho chiesto aiuto ricevendo l’assistenza psicologica gratuita da parte della mia regione, ma senza che nessuno in qualche modo ponesse un freno saldo al mio vizio. Siamo malati! Ce lo ricordate anche voi con l’acronimo di Gap (Gioco d’azzardo patologico), ma nonostante tutto, non ponete un limite a tutto ciò: la droga per noi è alla portata giornaliera, accessibile in ogni dove e in ogni momento.

Avete fatto bene i conti e sapete bene che “curarci” non vi costa nulla in paragone agli introiti derivanti dal gioco, ma vi invito a guardare oltre, perché i dati sono in continuo aumento e con il tempo saranno sempre più le persone da aiutare e tutto il Paese lentamente ne risentirà. Fate meno pubblicità, impedite l’accesso presso le sale gioco a chi ha questa patologia (attraverso il codice fiscale potete inibire l’utilizzo delle slot), create fondi per i centri di aiuto e donate sostegno economico a chi in malattia vi ha arricchito.

Non vivo in una buona situazione economica, tutt’altro, ma resisto perché amo la vita e non voglio far la fine di tanti che come me hanno ceduto alla vergogna, ai sensi di rimorso e all’abbandono totale; perché questa malattia ti porta a vivere in costante solitudine: amici e parenti spesso si allontanano per paura e chi decide di sostenerti non ha le giuste competenze e/o risorse.

Stato italiano fatti carico del mostro che hai creato perché noi giocatori in fin dei conti abbiamo la sola colpa di aver creduto che tutto ciò fosse normale, ma di normale qui non c’è nulla. – UN CITTADINO ITALIANO

 
 
 

La Terra

Post n°3387 pubblicato il 08 Agosto 2020 da namy0000
 

“La Terra è un solo Paese. Siamo onde dello stesso mare. Foglie dello stesso albero. Fiori dello stesso giardino”.

 
 
 

Scrivere di lui

Post n°3386 pubblicato il 06 Agosto 2020 da namy0000
 

Avvenire, Marco Tarquinio, 5 agosto 2020: Sergio Zavoli è morto e questo lutto ci riguarda profondamente. Confesso, però, che ho cercato di resistere alla tentazione di scrivere di lui – giornalista per davvero, e come pochi – e, dunque, del nostro strano e straordinario mestiere. Avevo – e ho ancora – paura di cadere nella retorica. Nulla di più facile, nulla di meno intelligente. Zavoli lo avrebbe forse accettato con pazienza e con un sorriso leggero dei suoi, senza darsene troppa pena, ma non lo merita.

Proverò, allora, a chinarmi appena, con affetto e rispetto sulla lunga parola scritta, detta, filmata e incarnata che è stata la sua vita di cronista, di cittadino, di intellettuale e di cristiano. Un uomo inquieto e pacato, capace di cercare e trovare senza perdere la voglia di cercare ancora, incapace – grazie a Dio – di dimenticare il proprio limite, ma libero e saldo nella consapevolezza della collettiva grandezza dell’umana condizione.

Quando nel 2015 gli proposi di tornare a scrivere, a novantadue anni suonati, ogni santo giorno e per tre mesi di fila, la rubrica che s’affaccia su questa prima pagina, provò a dire di no. Ma non gli riuscì. Un po’ per amicizia e molto per la condivisione profonda di tante nostre disarmate e forti battaglie informative dalla parte dei più deboli e dei senza voce, che apprezzava e commentava privatamente con me e interpretava pubblicamente con l’originalità, la libertà e l’elegante concretezza del suo stile.

Alla fine Sergio faticò a smettere, quasi gli costò chiudere quella sua e nostra "finestra" battezzata «Prima dei fatti». E poi non seppe e non volle più ricominciare. È l’unico serio cruccio di questi miei anni di direzione di "Avvenire", ma in esso conservo anche la certezza del valore che ancora oggi rappresenta il dono di quel suo ultimo, breve e disteso riflettere nero su bianco, in un tempo in cui purtroppo tanti sono tornati a confondere il bianco e il nero, il bene e il male, e si tende a radicalizzare tutto, cancellando le infinite sfumature di colore che rendono affascinante l’esistenza, alimentano l’ansia di giustizia e di bellezza, sostengono la fiducia e la speranza.

A questo serve il nostro lavoro, ci ha prima dimostrato e poi ricordato Zavoli con la sua vita e la sua civile passione. Fare i giornalisti serve a vedere dentro la notte e in pieno giorno, anche quando tutto è talmente scuro o così abbacinante da sembrare indecifrabile. Nulla lo è mai del tutto, e la costanza rigorosa e indagatrice di un cronista, così come la forza delle analisi di chi ha idee chiare ma non arroganza, può aiutare gli uomini e le donne a riconciliare la cronaca in cui siamo immersi con la storia che possiamo e dobbiamo fare e di cui siamo parte. E tanto più quando questo è difficile, quando l’oscurità incombe, i sentimenti popolari sono tesi, la partigianeria (quella politica come ogni altra, persino nel paradiso perduto dello sport) distorce gli sguardi, storce le bocche e condiziona i giudizi.

Sergio Zavoli ha saputo fare fino in fondo questo lavoro umile e indispensabile. Lo ha fatto alla radio, in tv sui giornali, da reporter e da direttore. Lo ha fatto persino nella stagione del diretto impegno politico e del seggio in Parlamento. Lo ha fatto come pochi, anzi per certi versi come nessuno. Ed è riuscito a unire, nel suo lungo racconto della vita, l’alto e il basso, l’epica del sudore e il sussurro dello Spirito, la riflessione serrata e profonda sulle stagioni chiave della vita italiana e la rincorsa e la domanda arguta e popolana all’eroe del momento.

Del resto, come ha confessato pubblicamente nel 2017 in uno dei Seminari che organizzava alla Biblioteca del Senato, «siamo nati per essere l’umanità» e il «compito cruciale» di chi se ne rende conto e non se ne sgomenta «dovrà essere quello di conciliare e sciogliere le diversità per unirle, spenderle nel nome delle condivisioni, non delle separatezze».

Poteva ben dirlo, da uomo di pace qual era, e mai irenista. Incapace di sottovalutare le insidie incombenti, gli smarrimenti possibili, i cataclismi inevitabili, i ritornanti mostri. «Oggi, al pari di Ulisse, ognuno è in pericolo», ragionava e ci invitava a ragionare in questo «cambiamento d’epoca» che papa Francesco chiede di governare con amore e saggezza e di cui lui aveva acuta consapevolezza. E ci avvertiva sulla provvisorietà di ogni approdo che consideriamo definitivo: «Itaca non rappresenta la fine di un rischio, bensì la scelta concettuale del nostro sterminato cammino». Buon cammino nella luce, Sergio, amico mio, ora che questa notte è finita.

 
 
 

Lettera ar Padreterno

Post n°3385 pubblicato il 01 Agosto 2020 da namy0000
 

Proprio come le formiche famo ponti muri e dighe, c’affannamo come pazzi a fare guerre armare i razzi, bombardamo co li droni li cattivi contro i boni. S’adunamo poi a milioni pe fa’ le rivoluzioni. Controllamo da remoto i satelliti e le foto de tempeste, d’uragani, de cicloni e de tsunami. O’ capisci Padrete’, che co st’opere imponenti, ste invenzioni, sti portenti, c’era parso de sape’ molte cose più de te. Proprio come fa er pavone, co le piume tutte aperte, co quell’aria da sbruffone, l’omo sapiens se diverte a sfida’ madre Natura. E senza n’ombra de paura, senza manco n’incertezza, che le spiagge l’ha coperte te liquami e de monnezza. Ha ’nquinato mari e fiumi, ndo’ li pesci so digiuni tra la plastica, le cicche, tra tubetti te pasticche. So’ bollenti le marmitte sull’asfalto che se squaglia e pija focu come paja che stu caldu eccezionale fa fiorire er pescu a Natale. Poi, co bombe e baleniere ha purgato specie intere. Le onde nostre nu so’ mare, so’dei sonar pe stanare le criature degli abissi che ce famo i stoccafissi. I piromani, i conosci? Ah, quelli incendiano li boschi, provocando l’alluvioni, nubifragi e li monsoni. Pure lor si so’ stremati, che li ghiacci se son sciorti, e li lupi ormai affamati, stanno a valle mezzi morti. Padre mio, scusa li toni, ma lo so’ che me perdoni, se te dico francamente st’omo tuo nu vale niente. Semo meno de ‘no schizzo, de ‘no spruzzo su quer muro, e sapemo pe’ sicuro che ce basta nu starnuto, ‘na risata co lo sputo, ca la vita è buio e vetro, tutto in meno d’un minuto. Boccheggiando a testa indietro, ce trovamo da San Pietro manco er tempo d’un saluto. Senza un bacio siamo morti: nani, miopi, ottusi e storti; arroganti e presuntuosi, tra movida e pub chiassosi; non curanti der dolore te la gente che soffriva; troppo aridi d’amore su un Pianeta che spariva tra li scoppi der motore de la moto che partiva. Ce tenevo che sapessi che sta manica te fessi, senza un filo d’umiltà, che tu chiami umanità, ha capito la lezione, sotto i colpi del bastone. Li bastardi del creato, noi, sta razza maledetta, quarche cosa l’ha ‘mparato, e jè toccato farlo in fretta: nun ha senso proprio niente, si nun poi sta’ co la gente. Basta, Dio, so’ disperato! Damme fiato, damme un prato, damme er vento sulla pelle, damme l’occhi suoi, du’ stelle, l’aria fresca te collina, o der mare, che è salina, damme l’erba sotto i piedi, e un pallone co du’ reti. Oltre un campo ben rasato, l’orizzonte sconfinato nel tramonto della sera e la calma, quella vera. Tu, da solo, tutto puoi, tu, che nun sei come noi, fa’ finì st’epidemia, che scompaja, vada via. Ce lo sai, semo ‘mperfetti, ma lo vedi tra li letti, c’è l’amore, mo’ nun manca, grande come la speranza. Oltre i vetri, in quella stanza, te la gente in tuta bianca, che combatte senza sosta ‘sto nemico che li sfianca, che je sta rompendo l’ossa. Se c’aiuti, vinceremo sta battaja eccezionale contro un virus che è letale. M’emoziono, adesso, e tremo, che quest’essere mortale, a cui er male ha messo un freno, po’ fa cose straordinarie. Si capisce che è terreno. (Testo, circolato sul Web, letto da Paola Cortellesi, attrice. Non so chi sia l’autore).

 
 
 

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