Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Settembre 2020

Suonatrice di dotar

Post n°3414 pubblicato il 25 Settembre 2020 da namy0000
 

Canto l’amore contro tutti i pregiudizi

Yalda Abbasi, nata nel nordest dell’Iran, nel 1987, il Khorosan, studia al Conservatorio  Milano, canta le antiche canzoni d’amore nella sua lingua e fa beneficenza per i bambini. e questo le crea qualche problema

Intorno alla testa il fazzoletto a fiori diventato il simbolo della lotta delle donne del Rojava, intorno agli occhi le ciglia lunghissime, a incorniciare uno sguardo che illumina. Per questi due particolari mi aveva colpito, Yalda Abbasi, quando l’ho conosciuta durante una manifestazione di solidarietà al popolo curdo, ancora prima di scoprire che su Instagram aveva la “spunta blu”, che contraddistingue chi è davvero famoso (ha oltre 200.000 follower ndr). Quando ci siamo incontrate, ei si è presentata come una semplice studentessa di canto del Conservatorio di Milano, ma era chiaro dal suo sorriso, che la sua storia era molto più grande e profonda.

Trentuno anni, passaporto iraniano, Yalda viene dalla zona a nordest del Paese degli scià, il Khorasan, ed è curda. Il suo canto, quello nella lingua antica di un popolo diviso tra quattro Stati, è arrivato grazie a lei in tutto il mondo, varcando con la voce, confini che altri non potrebbero superare.

‹‹La passione per il canto è un’eredità di mia madre – spiega – anche lei cantava da giovane, prima della rivoluzione. Dopo, per le donne, non è più stato possibile esibirsi da sole››. Un divieto trasformato in voracità per la vita, che ha portato questa ragazza a non fermarsi nemmeno davanti alle troppe domande dei tribunali del suo Paese, ad una notte nelle carceri turche, alla vita lontano da casa. Cantare è l’unica cosa che conta, e farlo in quella lingua che per lei “parla solo d’amore” ma che per il governo dell’Iran rappresenta un problema.

Come è nata la tua passione per la musica antica curda?

Sono cresciuta ad Ouchan, nel nordest dell’Iran, una città famosa per la musica, dove si concentrano i migliori maestri di dotar, uno strumento a due corde, antichissimo e tipico di quest’area. Ho cominciato a sauonare e cantare ad orecchio, con gli anziani del posto: a loro sembrava strano che una ragazzina di 10 anni volesse imparare. Poi mi sono laureata in Information Technology a Mashhad, ma sapevo già che la mia vita srebbe stata la musica. Così ho inciso alcuni canti antichi e li ho diffusi sui social. È bastato questo perché i miei connazionali, da tutto il mondo, mi chiamassero a suonare. Ho cominciato con un tour di 15 concerti in Europa.

Ma così sono cominciati anche i problemi…

Sì, purtroppo. Io mi esibivo nella mia regione, ma anche nel resto del Kurdistan iraniano. Tuttavia le canzoni in cui si sentiva soltanto la mia voce non erano gradite: nel mio Paese è possibile cantare per una donna soltanto se accompagnata da una voce maschile. Sono stata convocata in tribunale e il processo si è concluso con una multa e il divieto di uscire dai confini dello Stato per due anni.

Che cosa è successo in questi due anni?

Ho continuato a studiare. Ma covavo un sogno: durante il tour in Europa ho incontrato Parvaz Homay, un cantante molto famoso in Iran, che viveva in Italia e studiava qui. Mi sono innamorata di questo Paese e ho deciso di trasferirmi. Ho studiato per due anni l’italiano e preso la certificazione B2 all’istituto di cultura italiana Pietro della Valle di Teheran. E, intanto, preparavo l’esame per il Conservatorio.

Come andò?

Avevo studiato canti barocchi, perché era questo il corso di studi che volevo intraprendere, la musica occidentale più vicina alla mia. Ma non cantai bene: conoscevo poco il pentagramma e poco la vostra armonia. Poi chiesi di suonare il dotar e cantare una mia canzone: i professori rimasero stupiti di come solo quelle due corde potessero riprodurre così tante note. Fui ammessa, ora sono al terzo anno.

Le tournée sono aumentate e i viaggi moltiplicati. Come ti senti quando torni nel tuo Paese?

Mi sono esibita in Canada, Francia, Svizzera, ma soprattutto Germania, dove c’è la comunità curda più numerosa. Ho suonato di fronte a 15.000 persone con un gruppo tedesco di musica d’ambiente: loro in inglese, io in dialetto curdo, il Kermanj. È stato emozionante. Anche se tornare in Iran mi crea ogni volta dei problemi, io amo andare nei villaggi dove ho imparato, visitare i miei maestri, che ora sono anziani.

La tua vita è la musica, nonostante tutte queste difficoltà?

Cantare è la mia vita. anche in tribunale ho spiegato che io canto solo l’amore nella lingua dei miei antenati. Loro credevano che io sponsorizzassi qualche organizzazione politica ma, poi, hanno capito che non è così.

E allora qual era il loro problema?

Dicevano che usando il dialetto della mia regione avevo fatto conoscere al mondo che ci sono curdi anche nel nordest dell’Iran che questo li avrebbe in qualche modo uniti all’estero o anche nel Kurdistan. Il mio canto mi dà da vivere, è un lavoro, e non ha niente a che fare con la politica. Certo, voglio che i miei concerti abbiano anche un fine benefico: sono ambasciatrice del Maaf, un’associazione che cura i bambini mutilati di Afrin, nel Rojava curdo siriano, e devolvo a loro gli introiti di alcuni miei concerti.

Non deve essere stato facile cantare in Turchia, in zone che ora stanno vivendo momenti difficili…

Quando le autorità turche hanno saputo che sarei andata in quelle zone mi hanno arrestata per una notte. Ho dovuto prendere un avvocato che parlasse la mia lingua per farmi scarcerare. Però mi sono esibita comunque.

Cosa ti spinge a fare tutto questo, Yalda?

Il sogno di mia madre è un motore fortissimo. Perché lei ha fatto di tutto per me, mi ha aiutata sempre e quando torno in Iran canta con me.

E con una voce maschile…

Sì, facciamo dei duetti o terzetti. Ma io so che chi viene ai concerti vuole ascoltare me. Questo mi basta. (Maria Teresa Santaguida, Scarp de’ tenis, gennaio 2020).

 
 
 

Europarlamentare

Post n°3413 pubblicato il 24 Settembre 2020 da namy0000
 

Magid Magid, europarlamentare britannico, nonché ex sindaco di Sheffield, rifugiato nel 1994.

Io, rifugiato nero vi spiego perché vince il populismo

Arrivato dalla Somalia in Inghilterra a 5 anni, è stato eletto sindaco di Sheffield per i Verdi. ‹‹Molte persone si sentono dimenticate e trovano un capro espiatorio negli stranieri. La destra, semplicemente, sfrutta tutto ciò. È pericoloso. La Brexit? Credo che alla fine non si farà››.

‹‹Oggi la mia storia non sarebbe possibile››.

Magid Magid è somalo e britannico. È nato in Somalia nel 1989. È africano ed europeo. È un rifugiato ed è un europarlamentare per la regione dello Yorkshire e The Humber. Ed è tutte queste cose insieme perché, nel 1994, quando aveva 5 anni, insieme alla madre e ai fratelli, e nel suo Paese natale infuriava la guerra civile, un piano di ricollocamento l’ha portato da un campo profughi in Etiopia fino a Sheffield. In aereo. Qui Magid dice di aver conosciuto razzismo e discriminazione, ma anche di essersi innamorato di una città che ‹‹ha nel suo Dna accoglienza e rispetto››. Dopo aver studiato zoologia, aver lavorato nel marketing e con gli homeless, nel 2016 viene eletto consigliere comunale di Sheffield per i Verdi. Due anni dopo diventa Lord Mayor. Il ruolo è simile a quello del sindaco in Italia, ma con poteri minori. Nel 2019, sempre per i Verdi, viene eletto parlamentare europeo.

A differenza di quanto è successo a lui e alla sua famiglia, oggi, la stragrande maggioranza di chi vuole chiedere asilo in Europa è costretto a mettere a repentaglio la sua vita in lunghi e pericolosi viaggi. Secondo Magid, le condizioni di migranti e rifugiati sono peggiorate così tanto negli ultimi 25 anni, perché c’è troppa poca compassione, ‹‹un sentimento potentissimo di cui non dovremmo mai dimenticarci, anche nei momenti più difficili››.

E, invece, di compassione ne trovano ben poca gli stranieri che provano ad attraversare il Sahara, che si imbarcano sulle coste della Libia, che percorrono a piedi la rotta balcanica e finiscono incarcerati in un hotspot come quello di Lesbo, sovraffollato e indegno.

Magid tutto questo, per sua fortuna, non l’ha vissuto.

Come ha iniziato a fare politica?

Ho iniziato perché ero stufo di lamentarmi: non aveva senso continuare a chiedere alle persone sbagliate di fare le cose giuste. E così ho deciso di dare il mio contributo. Mi sono iscritto al partito Verde britannico dopo che, nel 2014, alle precedenti elezioni Ue, i partiti di estrema destra avevano avuto dei buoni risultati. Ho pensato che era urgente fare qualcosa. Credo sia fondamentale avere dei giovani che fanno politica, ma credo anche che non possiamo aspettare che siano loro ad appassionarsi: dobbiamo agire, dal basso, per coinvolgerli il più possibile.

Ma perché, secondo lei, l’estrema destra è cresciuta in questi anni in molte parti d’Europa e anche all’interno del Parlamento Ue?

È mancata un’alternativa. Nel Regno Unito, molte persone si sentono dimenticate, disilluse, pensano che il governo non le ascolti e vedono i servizi pubblici peggiorare. Trovare un capro espiatorio negli stranieri, come fa l’estrema destra, è una risposta semplice a questa situazione. E così i migranti vengono disumanizzati. L’estrema destra fa esattamente questo e, ormai, il suo tremendo linguaggio è stato normalizzato. È pericoloso.

Lei, invece, è andato nella direzione opposta, scrivendo su una maglietta che indossa spesso “Gli immigrati hanno fatto grande il Regno Unito”. Come mai?

Quando mi sono candidato per la prima volta a Sheffield, volevo mandare un messaggio forte: ho voluto sottolineare il contributo che gli immigrati, di ogni nazionalità e provenienza, hanno dato al Regno Unito, giocando tra l’altro con uno dei più celebri slogan di Donald Trump (Make America Great Again). Allo stesso modo, nella campagna elettorale per le europee, che ha toccato anche parecchie località rurali molto conservatrici e favorevoli alla Brexit, non ho mai nascosto le mie idee. Non ho fatto compromessi per piacere alle persone e questo è stto apprezzato.

Ue, non riflettono ancora la diversità che caratterizza gran parte del Continente. Le minoranze sono ancora poco rappresentate. È un problema?

È una situazione preoccupante, da un punto di vista sia morale sia politico. Il Parlamento Ue dovrebbe riflettere al meglio l’Europa, minoranze comprese. È molto importante che tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati. Oggi non è così. E credo sia uno dei motivi per cui le persone non sono legate ai loro parlamentari. Sono stato di recente ad Anderlecht, un quartiere di Bruxelles, e quasi nessuno sapeva chi erano i loro rappresentanti in Europa. E stiamo parlando di persone che abita a qualche chilometro dalla sede del Parlamento Ue. Figuratevi cosa accade nel resto del Continente.

Qual è stato il momento migliore del suo anno da Lord Mayor di Sheffield?

Quando ho deciso di vietare al presidente Trump l’ingresso in città. È stato un gesto simbolico, ma per me, in quel momento, era un segnale importante. Ce ne sono stati anche altri, di segno diverso. Per esempio, ad ogni consiglio comunale di quell’anno ho invitato un artista locale ad esibirsi. Volevo che tutti i cittadini considerassero il Municipio come qualcosa che appartenesse a tutti loro.

Brexit: come è possibile essere arrivati fino a questo punto? Cosa succederà?

In Inghilterra, a Natale, si usa mangiare il tacchino. Ecco, per noi britannici, aver votato per la Brexit è stato come per un tacchino votare a favore del Natale. Significa peggiorare le cose. Eppure molte persone, pur non conoscendo come funziona l’Unione europea né quello che fa per loro, pensano sia la causa di tutti i loro guai. Io resto ottimista. Più il processo si allunga e meno probabile è la nostra uscita dall’Ue. Sono convinto che i miei connazionali si stuferanno. Anche perché la Brexit non rappresenterebbe la fine di tutti i problemi, ma l’inizio.

Dove pensa di essere fra 5 anni?

Qui, senza dubbio. Sono convinto, come dicevo, che la Brexit non sarà attuata mai, quindi, potrò completare tutti e cinque gli anni da europarlamentare. Poi però non penso di ricandidarmi. Fare politica, per me, non è mai stata un’ambizione o una necessità. Finché sentirò che sto imparando e dando un contributo positivo alle cause che mi stanno a cuore, continuerò a fare politica. Poi, chissà… (Scarp de’ tenis, Gennaio 2020).

 
 
 

Ripara buche del tempo

Post n°3412 pubblicato il 22 Settembre 2020 da namy0000
 

2020, Scarp de’ tenis Gennaio. Street art. L’artista che trasforma buche e marciapiedi in opere d’arte.

Lei si chiama Irina Belaeva, ha origini bielorusse, anche se a Messina tutti la chiamano Irma.  La donna tutte le mattine percorreva un viale cittadino, Boccetta, e camminava su strade piene di buche. Così, essendo un’artista, ha pensato a come correggere lo scempio. Ha cominciato a realizzare i mosaici che colorano oggi i marciapiedi ricoprendo le buche del tempo e causate dagli atti vandalici. Naturalmente ha avuto subito il permesso del Comune, felice di trovare un volontario che tappasse le buche. La rigenerazione di Irina è continua e adesso l’artista prosegue il suo lavoro di restituzione della bellezza a una città segnata dall’incuria. I tappeti di Irma è ormai un progetto che è facile vedere quando si cammina per Messina.

 
 
 

Il primo degli italiani

Post n°3411 pubblicato il 21 Settembre 2020 da namy0000
 

2020, Stefano Baldolini, HuffPost 21 settembre.

Aldo Cazzullo: "Dante, il primo degli italiani"Intervista all'autore di “A riveder le stelle” nei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta che "ha inventato gli italiani". ″Un racconto del suo viaggio all’Inferno, ma anche il racconto del viaggio in Italia che fa, perché l’Inferno è anche un viaggio in Italia”

 

″È il racconto del viaggio all’Inferno di Dante, ma anche il racconto del viaggio in Italia che Dante fa, perché l’Inferno è anche un viaggio in Italia”. Esce per Mondadori “A riveder le stelle” di Aldo Cazzullo, vicedirettore e firma del Corriere. L’occasione sono i 700 anni dalla morte dell’“unico poeta che chiamiamo col diminutivo”, di cui abbiamo “familiarità e soggezione”, colui che ha pensato gli italiani come dovrebbero essere e, forse a parte alcune eccezioni, ma ne parleremo con l’autore, non sono mai stati. Ma “il primo degli italiani”, nonostante le invettive, gli insulti, gli scherni, “ci ha inventati”, e ci voleva bene. Eccome. 

 

E’ stata una faticaccia? Confrontarsi con Dante non è una cosa da poco.

È stato fondamentale il lockdown. Non soltanto per trovare due mesi vuoti per scrivere ma anche per fermarsi un attimo a riflettere. C’è un canto, il decimo, in cui sono puniti i falsari, e Dante scrive “Immaginate di vedere tutti i malati degli ospedali delle zone paludose come la val di Chiana, la Maremma, la Sardegna, dove si moriva di malaria, immaginate il fetore, ‘le marcite membre’. Questo è nulla in confronto a quello che ho visto nella malabolgia’”. Con i malati di lebbra che si grattano le piaghe, qualcuno sdraiato supino, qualcuno bocconi. Ecco, quest’immagine spaventosa dell’epidemia non era ai tempi di Dante una dolorosa sorpresa. Era una tragica abitudine. Tant’è che la generazione successiva alla sua è stata spazzata dalla pandemia. Però quella ancora successiva è quella che fa il Rinascimento. Di qui la straordinaria capacità dell’Italia di riprendersi.

 

Lei scrive che non le interessava fare un commento alla Divina Commedia “ma un racconto del viaggio di Dante, e di come le sue parole abbiano contribuito a creare l’identità italiana”. 

È il racconto del viaggio all’Inferno di Dante, ma è anche il racconto del viaggio in Italia che Dante fa, perché l’Inferno è anche un viaggio in Italia.

 

Perché solo l’Inferno?

Perché l’Inferno è quello che abbiamo tutti in mente, anche se non escludo di proseguire con il Purgatorio e il Paradiso. Dante con cui abbiamo grande confidenza - l’unico poeta che chiamiamo per diminutivo come chiamassimo Leopardi, Giacomino - lo conosciamo molto meno di quanto pensiamo, e inoltre un po’ intimidisce. Come se parlasse di massimi sistemi, del paradiso, dell’inferno, dell’impero, di cose alte che non ci riguardano, ma non è così, fin dall’inizio, Nel mezzo del cammin di nostra vita, la parola chiave è nostra. Dante sta parlando di noi. Di noi uomini, di noi italiani. 

 

Già, noi italiani, che parliamo la sua lingua. E che, lei sostiene siamo stati inventati proprio dal poeta della Divina Commedia.

Noi in qualche modo parliamo la lingua del libro, che lui prende dai mercati di Firenze e per un bel po’ si parla solo a Firenze. Un po’ come il popolo ebraico che parla il libro per eccellenza, la Bibbia. Riprendendo in mano Dante, a settecento anni dalla sua morte, ho scoperto che è un poeta di straordinaria modernità. La sua lingua è molto viva, sono rimasto colpito nel vedere quante espressioni che usiamo tutti i giorni sono state inventate o codificate da Dante. “Stare solo soletto”“Degno di nota”Non ragioniam di lor ma guarda e passaCosa fatta capo ha. La stessa idea del Bel paese è un’immagine che si inventa Dante. Ma c’è di più, Dante si inventa proprio l’Italia. L’Italia, che ha questo di straordinario rispetto alle altre nazioni, che non è nata da una guerra come la Francia, non è nata da un matrimonio dinastico come la Spagna, non è nata da un trattato diplomatico. L’Italia è molto più giovane come Stato, ma esisteva già grazie a Dante che si inventa l’idea della Roma dei Papi e la Roma dei Cesari. La classicità e la cristianità. Dio e l’uomo, insieme. Ecco allora che l’Italia ha una missione: custodire questa eredità classica, farla vivere. L’Italia è un sistema di bellezza, di arte, di cultura, di poesia. E non è un’idea isolata ma feconda. Era già in Giotto, suo contemporaneo, suo concittadino, suo amico, suo ritrattista. Se tu guardi il campanile di Giotto, vedi che è un’opera di architettura, ma anche di scultura e di pittura. Petrarca magari non molto, ma Boccaccio amava Dante. Tutti i poeti, gli scrittori che hanno a cuore l’Italia, si rifanno a Dante. Leopardi scrive sopra il monumento di Dante che si prepara a Firenze, Manzoni scrive ‘Marzo 1821’, c’è Ippolito Nievo, prima ancora Foscolo. 

 

Ma quale era l’identità immaginata da Dante, che non poteva certo pensare a un’Italia politica? 

Dante non pensa all’Italia come Stato, perché per lui il potere temporale è l’Impero. Però è un Impero che regola, non un Impero che comanda, che regge e armonizza, che non vìola le libertà comunali, che per Dante sono sacre. Con l’Italia è molto severo, arrabbiato, indignato, tratta malissimo tutti. I pistoiesi sono tutti biscazzieri, cioè corrotti; mette in scena Vanni Fucci, questo ladro sacrilego che ha rubato il tesoro del duomo, e gli fa dire Son Vanni Fucci, bestia, e Pistoia mi fu degna tana”; i bolognesi sono tutti ruffiani, fanno soldi con le donne, i genovesi e i pisani che si sono combattuti alla Meloria li attacca nello stesso canto, e su Pisa è durissimo: Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ’l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona!. Ce l’ha con Roma, là dove Cristo tutto dì si merca e con Firenze, naturalmente.

 

Non gli perdona l’esilio, ai fiorentini, e viene rimbeccato da Machiavelli.

Machiavelli non amava Dante, perché dal suo punto di vista aveva denigrato la patria fiorentina. Però tornando all’arrabbiatura di Dante, va detto che è frutto dell’amore che lui ha in serbo, la vorrebbe diversa. Nel Purgatorio scrive Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!”. Si rivolge al cielo: E se mi è concesso, o sommo Dio che fosti crocifisso per noi in terra, sono i tuoi occhi giusti rivolti altrove?”. Se non è amor di patria questo...

 

Quali sono i mali dell’Italia per Dante?

La corruzione. La divisione, l’odio tra le fazioni, questa condanna a dividersi sempre e comunque, guelfi contro ghibellini, eppoi quando vincono i guelfi, Bianchi contro Neri. Una famiglia contro l’altra. Un ramo della stessa famiglia contro l’altro. Poi, l’incapacità di riconoscere una leadership, di non avere un rapporto sereno con il potere. 

 

Una cosa vera ancora oggi.

Certamente, noi non abbiamo un rapporto sereno con il potere. Il leader non viene sostenuto o criticato, ma blandito o abbattuto. In circostanze ovviamente non paragonabili, ma pensiamo al Duce appeso a testa in giù, Moro nel bagagliaio della Renault rossa, Andreotti sotto processo per mafia, Craxi sepolto sotto le mura della medina di Hammamet. Non abbiamo un rapporto maturo con il potere. Piuttosto, coltiviamo l’idea dell’interesse privato che prevale sempre sull’interesse pubblico. La difficoltà a concepire che una persona possa fare qualcosa nell’interesse di qualcuno, che non sia se stesso. È una cosa eterna, non siamo cambiati. Dante scrive che i migliori non fanno politica, e che le cose che vengono decise a ottobre arrivano a stento a metà novembre. Sembra il ritratto dell’Italia di oggi. 

 

Giovanni Prezzolini lo definisce l’“antitaliano”, di fatto la persona più lontana da tutto quello di cui abbiamo parlato: Dante è etico, rigoroso, unisce pensiero e azione. 

È tutto vero, però è italiano. Anzi, il primo degli italiani. È quello che si inventa l’Italia, che ci dice ciò che dovremmo essere. Ecco, il canto più autobiografico della Divina Commedia è quello con Ulisse. Ulisse è Dante, come Flaubert ripeteva “Madame Bovary c’est moi”. Ulisse è l’uomo che non si accontenta, che si mette in viaggio, che va oltre le Colonne d’Ercole, naufraga ma è anche il primo uomo moderno, l’antenato di Cristoforo Colombo. Intendiamoci, Dante è un uomo del Medioevo ma allo stesso tempo è “il primo umanista” come dice Pessoa. 

 

Tornando al libro, e al suo viaggio in Italia, mi sembra che qui lei usi un espediente narrativo. Ciò che Dante non descrive dell’Italia, anche futura, quindi da lui inimmaginabile, diventa Italia reale attraverso evocazioni, associazioni di immagini simili. 

Ci sono alcune cose che sono evocate, altre descritte quasi da cronista. Dante è stato anche un grande reporter. Quando scrive “Ravenna sta come stata è molt’anni”, sembra di leggere il celebre attacco di Giorgio Bocca da Vigevano: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”. Certo è molto di più di un nostro collega, ma è anche un grande reporter che descrive l’Arsenale di Venezia come farebbe un grande cronista. Sì, oltre alle descrizioni minuziose ci sono evocazioni, come Scilla e Cariddi che a me hanno fatto venire in mente il terremoto di Messina del 1908, o l’immagine di una montagna in un lago, che per me non ricorda altro che il Vajont. 

 

Un po’ profeta di sventura?

Certo che no. Come dire, c’è una grandezza, ma anche una dolcezza. Pensiamo alla descrizione del lago di Garda, delle Dolomiti, il Mincio, Mantova, tutta quest’acqua, e tutta la storia che è passata lì, nel Risorgimento o nella Grande Guerra. Così com’è il primo che parla del golfo del Quarnaro, quindi di Trieste irredenta. Del pezzo di Italia che ci manca, della Dalmazia, dell’Istria, fino alla tragedia delle foibe. In Trentino c’è un ossario che prende il nome di Dante. I nostri eroi nazionali non sono dei Napoleoni, dei generali vittoriosi, dei condottieri, è gente che ha saputo morire e morire bene. Nel Risorgimento, con gli irredentisti, nella Resistenza. Senza piagnucolare, senza maledire i carnefici, avendo parole di pace e di amore per l’umanità. Come nell’ultima lettera di Ciro Menotti alla moglie. Certo uno può dire: che cosa c’entra con Dante? 

 

Ecco, che cosa c’entra?

Da lui partono tanti fili che attraverso quei luoghi, attraverso le sue parole, attraverso i valori che lui esprime, arrivano fino a noi. Anche attraverso l’esilio. Lui è un uomo senza patria. La prima cosa che facevano gli irredentisti in Trentino, italiani che si sentivano italiani ma non potevano essere italiani, è erigere statue di Dante e intitolare scuole a Dante. 

 

Lei stesso ammette che nell’Inferno di Dante “il lettore rischia di perdersi”. Però non gli risparmia nulla, non omette nulla, nessun dettaglio o storie per noi oggi meno significative. Come in un’espiazione necessaria per emergere dal nostro inferno, “dobbiamo risalire fino alle radici scavate e raccontate da Dante”.

Mi sono posto il problema se fosse il caso di raccontare storie che adesso non ci dicono nulla. Che so, Buondelmonte de’ Buondelmonti, per Dante personaggio importantissimo, per noi è un puro nome; Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti, a cui Dante strappa i capelli, Filippo Argenti,“spirito maledetto”, che ha schiaffeggiato Dante, possono dirci poco. Ma nel mio libro non c’è un nome dell’Inferno che manchi. Bisognava restituire tutto, raccontare tutto, sia i miti, che la storia del tempo di Dante, che è la nostra storia, che ci riguarda. Ma vorrei aggiungere un’ultima cosa.

 

Prego. Vorrei parlare del ruolo della donna, molto importante nella Divina Commedia. In questo Dante è modernissimo. Qualcuno ha scritto che Dante è il primo femminista, io non mi inoltrerei in questo territorio, non mi piace associare definizioni moderne a epoche lontane, ma sicuramente la sua concezione è molto moderna rispetto a un tempo in cui si discuteva se la donna avesse un’anima o meno. Così scrive che la specie umana si distingue dalle altre proprio grazie alla donna. Che, intendiamoci, non è una donna ‘angelicata’, ma una donna forte. Si pensi a Beatrice, che in Paradiso lo salva, ma lo rimprovera anche, lo sprona a migliorarsi, ad ascendere. Per non parlare di Francesca, figura meravigliosa, vittima di un vero femminicidio. O di Medea, accusata di aver ucciso i figli, che Dante non mette all’Inferno, dove invece mette Giasone, chiosando: “E anche di Medea si fa vendetta”. Noi lo abbiamo capito molto dopo che le donne possono salvare l’umanità, perché sanno prendersi cura della specie umana, della Terra, e oggi governano bene, pensano alle generazioni future; e mi riferisco a leader donne che sono entrate in scena, a figure come Angela Merkel, che in tempi di Covid, hanno saputo gestire l’epidemia meglio di molti colleghi uomini. 

 
 
 

Lavorare per Dio

Post n°3410 pubblicato il 21 Settembre 2020 da namy0000
 

La sorte benedetta di chi lavora per Dio

Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: ‹‹Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?››. Gli risposero: ‹‹Perché nessuno ci ha presi a giornata››. Ed egli disse loro: ‹‹Andate anche voi nella vigna›› (Mt 20,1-16).

‹‹Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?››. Come mai la gente può vivere senza consistenza e nell’inconcludenza? Tanti giovani con il cambio in “folle”, spingi sul gas ma la macchina resta ferma, tante persone come viti spanate, giri ma non succede niente. Perché? La domanda del padrone della parabola sugli operai nella vigna, sembrerebbe alludere a un rimprovero, lo stesso che troviamo sulla bocca degli operai della prima ora: ‹‹Hanno lavorato un’ora soltanto e… noi… abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo››.

 

Proviamo a leggere con una prospettiva meno fredda questa parabola: “lavorare o non lavorare” è uguale a dire “impegnarsi o no” o non piuttosto “avere di che sfamare i propri figli oppure no”? La fatica del lavoro è un peso, certamente; ma è una fatica che segnala la condizione dignitosa di chi ha qualcosa di cui vivere.

 

Il dramma della disoccupazione ha due aspetti: quello economico e quello, non meno tragico, della dignità. Quel che fa soffrire un disoccupato non è solo che non può procurarsi di che vivere, ma anche patire l’umiliazione dell’inutilità. Vedere che nessuno ha bisogno di me, non servo a nulla. L’amarezza degli anziani è la percezione di non essere richiesti, che non si abbia necessità di loro.

 

Avere un lavoro è una cosa grande, è il primo dono di Dio all’uomo: ‹‹Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo…›› - il verbo “dominare” in realtà, in ebraico, vuol dire “governare, amministrare”. È una dimensione che deriva dalla somiglianza con Dio, è qualcosa di celeste che ci abita dentro, ci nobilita e ci realizza, portandoci a costruire tutto il bene che c’è.

 

Come mai qualcuno non fa niente? Ecco la risposta dei disoccupati della parabola: ‹‹Perché nessuno ci ha presi a giornata››. Alla lettera: “Assunti a salario”.

 

Il fenomeno di un numero crescente di giovani che non cercano lavoro è la condizione di anime senza salario, senza qualcuno che metta in relazione la fatica con un risultato, con un riscontro, con un’utilità. È il non senso.

 

Che sorte benedetta, quella di poter lavorare, faticare, spendersi e stancarsi per qualcosa di valido. Essere presi a lavorare per il migliore dei padroni, che sa dare la paga di un giorno che è oggi, che è il senso della vita, per farci fare cose tanto belle, le sue opere. San Paolo dice: ‹‹Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone›› (1Cor 9,16) ossia: servire il Signore non mi dà diritti da accampare ma assolve le mie necessità, mi risolve. Non io servo Lui, quando faccio la sua volontà, ma il contrario.

 

Ecco il non senso: non conoscere la ricompensa di questo padrone, e restare indefiniti, aspettando qualcuno che dia la vera ricompensa al nostro cuore… (Fabio Rosini, FC n. 38 del 20 settembre 2020)

 
 
 

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il 31/08/2022 alle 18:17
 
Ottimo articolo da leggere sul divano sorseggiando gin...
Inviato da: cassetta2
il 09/05/2022 alle 07:28
 
 

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