Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Febbraio 2022

L'anniversario

Post n°3707 pubblicato il 12 Febbraio 2022 da namy0000
 

L’ANNIVERSARIO E LO SCAMBIO DEI BIGLIETTI. MA GLI AMICI CI HANNO CRITICATO

Credevamo di aver inventato un nostro “gioco” di coppia ma, quando lo abbiamo raccontato ai nostri amici, siamo rimasti molto male perché ci hanno criticato a più non posso e ci hanno detto che il gioco non vale…

A noi era sembrato bellissimo, lo raccontiamo per avere il suo giudizio: in occasione dei nostri 42 anni di matrimonio, ci siamo ripromessi di scrivere ciascuno quello che dall’altro avrebbe voluto sentirsi dire; abbiamo scritto due bigliettini ben sigillati e alla nostra cenetta con lo champagne ciascuno ha aperto il biglietto dell’altro. Lui chiedeva: «Vorrei che tu mi dicessi che apprezzi molto quello che ho fatto per te in questi anni». Lei chiedeva: «Vorrei che ti dispiacesse quando non mi hai capito e dicessi che mi ami». Letto ciascuno il suo biglietto, dopo un attimo di silenzio ci siamo detti ciò che stava scritto nel biglietto magico e ci siamo abbracciati. Ma perché gli amici non ci hanno capito? – Annachiara e Lorenzo

La vostra narrazione mi commuove davvero, l’ho riportata quasi per intero perché possa essere di esempio a tante coppie! Vi chiedete: perché i vostri amici vi hanno criticato? Perché non si meritavano una narrazione così intima! Qualche settimana dopo lo scambio dei biglietti, li avete invitati a cena – erano tre coppie, per la precisione – e vi siete raccontati.

Le obiezioni alla vostra narrazione suonavano: non vale, se io suggerisco al coniuge che cosa deve dirmi, e lei/lui me lo ripete, fa soltanto il pappagallo. E poi, il contenuto poteva accendere una guerra: lui chiede di essere apprezzato in quel che fa per lei e lei potrebbe obiettare: “Ma non ti ho apprezzato abbastanza? Non ti ho fatto capire quanto ti stimo?”. Lei chiede a lui di accorgersi di non averla capita e di proclamare ancora una volta il “ti amo” che la fa sentire sicura e desiderata.

Questo è un “gioco ad altissimo livello”. Voi ci state insegnando un aspetto dell’intimità che è l’esperienza più profonda e più esaltante che può accadere tra umani. È l’esperienza dello stare davanti all’altro senza difese, senza autoproteggersi. E voi l’avete fatto: ciascuno, davanti allo champagne, ha fatto silenzio e poi ha pronunciato le parole che l’altro voleva sentirsi dire.

Le ha pronunciate con il cuore, senza difendersi né autogiustificarsi.

E così ci state insegnando una qualità imperdibile dell’intimità, vero capolavoro dell’amore: ti prendo come sei, il tuo desiderio vale più del mio, le tue esigenze vengono prima, io rinuncio a spiegarmi, ad avere ragione, perché sei tu che conti davanti a me.

L’esperienza dell’intimità è l’esperienza della caduta delle barriere. (Mariateresa Zattoni, Consulente e formatore, FC n. 6 del 6 febbraio 2022).

 
 
 

Partire da sé stessi

Post n°3706 pubblicato il 09 Febbraio 2022 da namy0000
 

2022, FC n. 6 del 6 febbraio

RAPINAVO BANCHE, OGGI FACCIO L’EDUCATORE

Finché metti “soltanto” la colla sui capelli di un compagno di classe sei “solo” un bullo, quando cominci con le rapine e ne fai più di una per la legge diventi un «rapinatore seriale». L’orlo del precipizio sta tra un padre che mostra scarsa fiducia nelle tue capacità e la gerarchia di un quartiere difficile in cui conta chi ostenta potere e scarpe firmate. Pensare che procurarsele con la forza, incoraggiato da uno più “scafato”, sia la soluzione è un attimo. Non tutti i bulli finiscono prima al Beccaria, poi a San Vittore, ma può accadere. A Daniel Z. è accaduto. Non sempre si risale. A Daniel è accaduto. Si è laureato in Scienze dell’educazione e racconta nelle scuole la sua storia, affidata al libro di Andrea Franzoso Ero un bullo (De Agostini), sperando che aiuti altri a fermarsi prima.

«Ho toccato il fondo in isolamento a San Vittore», spiega oggi Daniel, educatore nei Servizi sociali del Comune di Milano: «Una frase di Aristotele rende l’idea: “Chi pensa di entrare nella città facendo a meno degli altri o è bestia o è Dio”. Mi sono sentito bestia, perso. Ho iniziato a leggere, poco convinto, su suggerimento di un vicino di cella, per evadere dalla noia, in biblioteca mi son trovato a cercare nelle vite degli altri risposte al senso della mia. Nei libri ho trovato le parole per dare voce al mio dolore».

Chissà quanti adulti gli avranno suggerito di leggere e studiare, invano fin lì: «Un’infinità», ammette Daniel, «anche persone capacissime. La verità è che io non ero pronto». Poi è scattato qualcosa che Fiorella T., volontaria a San Vittore e del Centro Portofranco, racconta con un aneddoto: «Ero andata a trovarlo dopo che aveva cambiato sezione. Alludendo al cineforum, cui mi occupavo, mi chiese: “Fai sempre vedere quei tuoi film noiosi?”». Replicai: “Perché non mi hai detto che li trovavi noiosi?”. “Perché vedevo come li guardavi tu e mi sforzavo di capire che cosa ci fosse di importante”. Da lì, l’ho convinto a riprendere gli studi interrotti e arrivare alla maturità, trovando in lui un caso anomalo, tanta era la sua sete di sapere. Ecco che cosa voleva dire Daniel con “essere pronto”: «Gli incontri sono decisivi, ma non ti salvano se non fai la tua parte».

Curiosamente, sono quasi le stesse parole che usa la dottoressa Annamaria F., allora pubblico ministero del Tribunale per i minorenni di Milano, che per Daniel è stata controparte nella dialettica processuale: «Rappresentavo l’accusa, sapevo che era intelligente, che poteva farcela, non per questo sono stata “buona” con lui, nel senso di chiedere una sanzione più mite: definirei la giustizia per minorenni “trasformativa”, perché può aiutare a cambiare. Ho insegnato per anni, prima: so che nel processo educativo serve rigore, che non significa severità, ma ribadire il rapporto di causa-effetto tra azioni e conseguenze: si deve percepire che non si scappa. L’assunzione della responsabilità è la più efficace arma di difesa: se ti difendi incolpando gli altri o la società, non arrivi a capire che si cambia a partire da sé stessi».

Il percorso è tosto, mai lineare. don Claudio B., anima della Comunità Kayros e cappellano del Beccaria, lo sa: «Non ho mai perso la fiducia in Daniel, non l’ho mai abbandonato, ma nel periodo di isolamento in carcere gli ho fatto sentire la distanza». A chi gli chiede come si intervenga ai primi segnali risponde: «Agli adulti che affrontano i bulli ripeto di non rimuovere l’esperienza della sofferenza dalle vite dei ragazzi, non li aiuta a crescere. Chi educa deve saper aspettare, anche a costo di soffrire lui per far sperimentare un po’ di frustrazione. Il bullo va disinnescato con l’autorevolezza: se come adulti usiamo la violenza, anche solo verbale, otteniamo l’effetto opposto. Serve pazienza, non nel senso di accettare tutto, ma di mettere in conto che si devono investire anni, con ricadute nel conto».

Anche Daniel sa di non essere arrivato: «A 29 anni, anche come educatore ho ancora tanta strada da fare, mi riconosco solo un piccolo valore aggiunto: il mio passato mi dà un po’ di intuito e di empatia in più con i ragazzi difficili. Sono fiero di come sono più che della mia laurea. So che nella vita farò ancora errori, escludo però di tornare a commettere reati». Che non lo dica per posa lo si è capito da come ha risposto al primo messaggio di una sconosciuta: «Macché dottore, io sono uno scappato di casa».

 
 
 

M Il figlio del secolo

Post n°3705 pubblicato il 09 Febbraio 2022 da namy0000
 

2022, HuffPost 8 febbraioPotente e avvincente "M Il figlio del secolo", con Popolizio mattatore

Diario di uno spettatore. 

Diario di un paradosso, di una scissione interiore e professionale, di una strana coincidenza temporale. Mentre una maggioranza mai vista così da 30 anni aderiva entusiasta, giovani in testa, alla settimana santa della distrazione di massa (dal Covid, dalla crisi della politica, dal caro bollette, dalla solitudine...) che in Italia si chiama Sanremo, una minoranza forte e convinta sceglieva invece il teatro civile, impegnato, che affronta la storia e vuole farne memoria.

 

M Il figlio del secolo, ambizioso, potente affresco-spettacolo di Massimo Popolizio dai libri di Antonio Scurati, ha orgogliosamente debuttato al Teatro Strehler di Milano proprio la prima sera del festival e vi rimarrà coi suoi consolanti tutto esaurito fino al 26. Ben diciotto agli attori coinvolti per raccontare in trenta quadri l’ascesa di Benito Mussolini, cominciando dalla fondazione dei fasci di combattimento e dalla bruciante sconfitta del 1919. Sconfitta che grazie alla violenza squadrista (colpisce nel programma di sala il dato storico che gli eccidi italiani ammontarono a quattro volte quelli dell’analoga ascesa hitleriana in Germania) e agli errori degli avversari, si tramuterà in consenso crescente, passando per la Marcia su Roma fino al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925. È quello dell’assunzione pubblica di responsabilità di Mussolini per il delitto Matteotti e del consapevole affermarsi della dittatura, episodio che nello spettacolo, grazie anche alla straordinaria interpretazione del deputato socialista di Raffaele Esposito, si ritaglia un peso importante. Popolizio attore invece, qui ormai anche in veste di grande direttore d’orchestra, prende per sé l’aspetto più teatrale e grottesco del dittatore, lasciando a Tommaso Ragno il racconto della sua vicenda politica ed esistenziale. L’adattamento teatrale del testo di Scurati, realizzato sempre da Popolizio con la collaborazione di Lorenzo Pavolini, ha un andamento circolare, parte dall’ultima battuta del libro per poi tornare alla fatidica frase pronunciata nel 1925 in Parlamento da Mussolini al momento di “addossarsi la croce del potere”: “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io ne sono il capo”.

 

"È una staffetta tra diciotto attori (val la pena citarli tutti in ordine alfabetico: Riccardo Bocci, Gabriele Brunelli, Tommaso Cardarelli, Michele Dell’Utri, Giulia Heatfield Di Renzi, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Diana Manea, Paolo Musio, Michele Nani, Alberto Onofrietti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Sandra Toffolatti, Beatrice Verzotti) – spiega l’attore regista – che, lontano da ogni retorica, porta all’attenzione del pubblico il ritmo incalzante di una scalata al potere, avvenuta in un momento di profonda debolezza di istituzioni e partiti". Ed ecco il nesso stupefacente e inquietante dello spettacolo - che sentiamo tutti, spettatori e teatranti - con le stagioni vissute da cittadini in questi trent’anni di sventata delegittimazione della politica e della democrazia. È una storia, un passato, quello di M, che non si conosce mai abbastanza, in particolare i sei anni orribili che seguono la fine della Prima Guerra Mondiale, con l’impresa dannunziana di Fiume, la paura di una imminente rivoluzione socialista e il dilagare di una violenza trasversale, giovanile e non, appresa giorno dopo giorno da una generazione nelle trincee della Grande Guerra. Nello spettacolo ci sono tutti: Mussolini, Marinetti, D’Annunzio, Margherita Sarfatti, Nicola Bombacci, Pietro Nenni, Giacomo Matteotti e la moglie Velia, Italo Balbo, oltre a tante storie inventate con grande efficacia per dare “carne” allo spettacolo: un popolo confuso che poco alla volta si ritrova ostaggio del proprio consenso all’”uomo della Provvidenza”. Quanto è facile riconoscere, nelle immagini di massa Luce di quegli uomini, donne, adolescenti e bambini inneggianti, i nostri padri, madri, nonni, zii e zie educati a quell’insano entusiasmo di regime. E quanto è struggente sentirlo risuonare oggi, oggi che nuovi populismi sono invocati un po’ dappertutto.

 

180 minuti di storia e di storie avvincenti, di esame di coscienza collettivo: affascinanti e tesi, fragorosi e sottili, resi clowneschi dalle travolgenti entrate in scena del mattatore Popolizio: mascherato, sospeso su un trapezio, “dancer” in ghette, bombetta e bastone, di espressionistica efficacia. Austere le scene di Marco Rossi, centralissimi i costumi Gianluca Sbicca, molto scandite le luci di Luigi Biondi, coinvolgenti i video di Riccardo Frati, invasivo e potente il suono di Alessandro Saviozzi.

 

Una coraggiosa, imponente produzione del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina. Che significa Luca Ronconi, la sua memoria e il suo sogno di un teatro ambizioso e grande, che uscisse dalla scena ed entrasse nel cuore della società e dei cittadini.

 

Questo il Teatro Pubblico, e il Piccolo Teatro in quanto capostipite, ha come compito. Eppure anche piccolo con la p minuscola è bello, e ugualmente consapevole della sua missione. Se no non si capirebbe perché un teatro fresco di nascita come l’Oscar di Milano, raccolto nella sua piccola sala circolare, si lanci con Matteotti medley, documentario teatrale a cura di e con Maurizio Donadoni, regia di Paolo Bignamini, nella stessa scommessa del cosiddetto “teatro civile”. Singolare che scene e costumi, poveri ma belli, siano creazione di gruppo di allievi della scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Brera: Eleonora Battisti, Gaia Bozzi, Hefrem Gioia, Martina Maria Pisoni, Giada Ratti, Valentina Silva, Alessia Soressi coordinati dal loro docente e mentore Edoardo Sanchi. E che la Produzione Desidera–Teatro degli Incamminati si sia avventurata con questa proposta sullo stesso “mood “di racconto del Piccolo Teatro. Ma il Matteotti di Maurizio Donadoni, grande interprete anche lui, è come più raccolto e personale, una sorta di monologo interiore che affronta le tempeste della storia quasi controvoglia, spinto dalla coscienza di “tradire” la classe proprietaria di provenienza perché colpito dall’ingiustizia verso gli ultimi. E quando nel finale Donadoni si commuove semplicemente segnalando agli spettatori le lettere fra Giacomo e la moglie Velia, documento di storia civile e insieme di un grande amore, a parlare è quasi di un martire riluttante, un martire che solo la violenza cieca degli avversari ha trasformato in eroe.

 

Le parole di Giacomo Matteotti poco più che ventenne lo provano: “Ogni epoca ha avuto i suoi martiri, le sue vittime, gli inutili eroi che col loro sacrificio, hanno aperto gli occhi e la strada agli altri”. Il 10 giugno del 1924, a Roma, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, Matteotti viene rapito e ucciso da un gruppo di “arditi” del fascio milanese, la cosiddetta “Ceka fascista”, organismo voluto da Mussolini per mettere a tacere segretamente gli oppositori. Oggi, racconta Donadoni nello spettacolo, una via, un corso, una piazza Giacomo Matteotti esistono in molte città italiane. Se però ci viene chiesto a bruciapelo chi era Matteotti, pochi tra noi saprebbero andare oltre un generico: “ deputato socialista ucciso dai fascisti nel...e lì la memoria si è già impantanata. Che se ne sappia così poco, dell’implacabile oppositore alle menzogne del fascismo nelle aule del Parlamento, è un peccato. Per qualche mese, in seguito a quel delitto, il fascismo sembrò di stare per cadere. L’occasione fu persa dalle opposizioni, che con la scelta del cosiddetto Aventino lasciarono il campo a Mussolini e gli permisero di trasformare la crisi in occasione per rafforzare definitivamente il suo regime. “Matteotti medley” ripercorre questa storia alternando il racconto dei fatti nudi e (talvolta) crudi, a citazioni da musiche popolari dell’epoca che vedono Donadoni, accompagnato dall’evocativa fisarmonica di Stefano Indino, farsi interprete trasognato di molti repertori del tempo: dalle marcette squadriste agli stornelli contro il Negus, dalle musiche da ballo alle canzoni d’amore diffuse dalla radio, ai rifacimenti in chiave politica di molti inni del tempo. Uno spettacolo importante, quasi “portatile”, che replica dopo replica crescerà.

Un po’ la sorte che è toccata in questi dieci anni a Se dicessimo la verità, l’opera-dibattito sulla legalità di Giulia Minoli ed Emanuela Giordano, arrivata al suo ultimo capitolo, che ha attraversato l’Italia fra teatri, scuole, università e luoghi pubblici i più diversi, semplicemente offrendo storie vere di resistenza e lotta alla criminalità organizzata in collaborazione con le associazioni della società civile sul territorio.

A Milano è in qualche modo simbolico vederla tornare in scena (fino al 13 febbraio) nella storica sala di via Rovello, oggi Teatro Paolo Grassi, dove è nato il Piccolo. Ma va ricordato che ha mosso i primi passi nel 2011 nella nobile magnificenza del Teatro di San Carlo di Napoli, approdando solo nel 2017 al Piccolo e alla collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e in particolare con il Corso di Sociologia della Criminalità organizzata di Nando dalla Chiesa. Spiegano le autrici che “dopo tante storie raccontate, la forma scenica si è modificata grazie a una narrazione segnata dal bisogno di capire il nostro prossimo futuro, minacciato da un disimpegno che lascia ancora più spazio al potere criminale, alla “prassi” della corruzione come modus vivendi. Purtroppo, non possiamo più parlare solo di “infiltrazioni del crimine” – aggiungono – ma di “complicità con il crimine”, di “prassi criminale” a cui ci stiamo abituando, con distratta colpevolezza. Il teatro non dà lezioni di vita e non ci offre soluzioni a buon mercato, offre stimoli e opportunità di conoscere e di riflettere, questo noi cerchiamo di fare, con convinzione, pensando soprattutto ai ragazzi. E proprio ai ragazzi ci rivolgiamo con un lavoro che, parallelamente, realizziamo nelle scuole di tutta Italia; perché lo spettacolo non sia solo un’occasione isolata ma parte di un percorso di avvicinamento a temi fondamentali per la loro crescita». Infatti lo spettacolo di volta in volta si arricchisce di storie riguardanti la regione in cui è presentato.

Un’ora agile di racconto, quattro giovani attori preparati ed efficaci (Daria D’Aloia, Giuseppe Gaudino, Domenico Macrì, Valentina Minzoni) alternati a dei brevi contrappunti musicali firmati da Tommaso Di Giulio con Leonardo Ceccarelli alla chitarra e Paolo Volpini alla batteria. Ma la produzione Piccolo Teatro di Milano–Teatro d’Europa e Centro Teatrale Bresciano si vede anche nell’eleganza asciutta della proposta, da non confondere con tanta generosa “animazione” di buona volontà su questi temi. Qui c’è una drammaturgia solida, che arriva a tutti e coinvolge, che sceglie l’oggettività tagliente delle storie al posto della retorica, la razionalità invece dell’emotività. Un teatro civile esemplare, che informa e forma, in cui la professionalità del tutto è il passe-partout adeguato per comunicare temi complessi e drammatici. Istruzioni per l’uso: “Se dicessimo la verita’ – Ultimo capitolo” è parte integrante de “Il Palcoscenico della legalità”, un progetto di CCO - Crisi Come Opportunità promosso con CROSS - Osservatorio sulla Criminalità Organizzata, LARCO- Laboratorio Analisi e ricerca sulla criminalità organizzata - Università degli studi di Torino, Fondazione Pol.i.s, Fondazione Falcone, Centro Studi Paolo Borsellino, Avviso Pubblico. Enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie, Fondazione Silvia Ruotolo, AddioPizzo, DaSud, Italiachecambia.org, Fondazione Giancarlo Siani Onlus. In collaborazione con Università di Pisa - Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, Università di Bologna – Master Gestione e Riutilizzo di Beni e Aziende confiscati alle mafie. L’età consigliata per lo spettacolo è dai 12 anni in su, per avere una buona comprensione dei temi affrontati. Le autrici la sentono forse implicita e un po’ intimorente, ma noi la parola “educazione”, a proposito di questo spettacolo, la usiamo senza vergogna: da dieci anni “Se dicessimo la verità” fa educazione nel Paese. E in un Paese dove ce n’è davvero un grande bisogno.

 
 
 

Il Mistero

Post n°3704 pubblicato il 06 Febbraio 2022 da namy0000
 

2022, Maurizio Praticiello, Avvenire 5 febbraio

Il parroco: il Mistero ha la voce dei bimbi. Dalla paura alla vita

«Rivedo gli occhi impauriti delle loro mamme, poi la gioia nel giorno del Battesimo. Li abbiamo aiutati a nascere, sono vivi. Uno spettacolo

«Finchè avete il mistero avete la salute: distrutto il mistero è distrutta la salute» avvertiva Chesterton. Il mistero ci mette al riparo da una delle malattie più perniciose che possa colpire un uomo: la noia. Ci siamo ritrovati a percorrere questa incredibile avventura della vita, a gestire questo patrimonio di inestimabile valore, senza averlo chiesto. Un dono, o una condanna?

Dobbiamo far fronte a mille incombenze – mangiare, bere, studiare, lavorare – che, però, anche ci danno gioia. Abbiamo lentamente imparato a capire, riflettere, ragionare. La vita è una caccia al tesoro che, nascosto in mille, inesauribili filoni, ci tiene svegli, attenti, motivati. Un augurio da fare a tutte le persone è quello di essere curiose. Come gli archeologi, gli speleologi, gli astronauti, gli alpinisti, gli innamorati. Augurare loro di avere lo stesso coraggio di chi scende nelle viscere della terra, si fa catapultare nello spazio, si arrampica sulle vette, penetra nel cuore della persona amata.

Per farlo, però, occorre essere umili, farsi piccoli, riconoscere di essere solo dei poveri ignoranti di fronte alla grandezza in cui siamo immersi. Solo il mistero ci mette al riparo dal non senso, dal trascinare una vita piatta e ripetitiva. Il mistero ci salva. Potrebbe essere questa una di quelle notizie che gettano luce sui grovigli dell’esistenza. Una sorta di vangelo. In questo nostro mondo, zeppo di anfratti da esplorare, vette da scalare, galassie da studiare, il primo, grande, immenso mistero siamo noi stessi. L’uomo è una meraviglia. Non tutti e non sempre se ne accorgono, purtroppo. Per farlo devi rallentare il passo, fermarti, fare silenzio, non cadere nella trappola dell’abitudine.

Siamo miliardi di essere umani, tutti unici, tutti irripetibili, tutti incredibilmente belli. Miliardi di misteri che s’incontrano, s’intrecciano nel loro peregrinare. L’uomo vuole capire, ha bisogno di capire, deve capire. Il tempo che ha a disposizione – una manciata di anni – non è poi tanto. Deve darsi da fare. Come un bambino rompe i giocattoli e ci guarda dentro. Che grande, l’uomo. Ha spaccato l’atomo, è arrivato sulla luna, ha dichiarato guerra alle malattie; purtroppo, sovente, ha fatto guerra anche ai suoi fratelli. Ed è stato orribile. Ha capito di poter fare a meno di tante cose ma non della compagnia di amici, vicini, fratelli, della loro comprensione, del loro amore. L’amore: ecco un altro mistero incastonato nel mistero. Perché m’innamorai di te? Non eri la più bella, ricca, intelligente, ma sei tu quella che amo.

Tra le esperienze più esaltanti dell’essere umano c’è quella di donare vita ad altre vite. Li chiamiamo "figli", queste creaturine scoccate da noi. Noi, che non saremmo riusciti a produrre un moscerino, abbiamo creato altri esseri umani. Ci sarebbe da impazzire. Neonati, quindi indifesi, incapaci di badare a se stessi. Fragili come cristallo, forti come il marmo. Tra loro e chi li ha messi al mondo si è creata da subito un rapporto originale che li accompagnerà per il resto della vita, un affetto particolare, un amore unico.

La donna che ci portò nel grembo sarà per sempre nostra mamma, l’uomo nostro padre. Il figlio come uno specchio in cui ti specchi. Non lo vendi, non lo regali, non lo abbandoni. Lo tieni con te, lo proteggi, lo aiuti a crescere, lo ami. È tuo e non è tuo. È parte di te, ma non sei tu. Verso di lui hai tanti doveri e pochissimi diritti. Lo guardi, lo contempli, lo interroghi. Hai paura di fargli male, che si faccia male, che gli facciano del male. Un figlio ti trasforma la vita. Al suo confronto tutto diventa piccolo. Vive da poche ore e ti sembra di conoscerlo da sempre. Un mondo senza bambini sarebbe impietosamente destinato all’estinzione.

I bambini, le loro grida, i loro capricci, la loro fragilità, i loro problemi, i loro giocattoli, i loro egoismi, le loro piccole scoperte, le loro domande, sono la linfa della terra. Sono il mistero di cui non possiamo fare a meno. Ma deve fare i conti, l’uomo, con un altro insidioso nemico: l’abitudine. Quella strana capacità, cioè, di bendarsi gli occhi, tapparsi le orecchie e il naso e non meravigliarsi più. Di ritenere che tutto gli sia dovuto, che tutto sia "normale", che tutti – anche Dio – gli siano debitori. L’abitudine gli ruba la capacità della contemplazione, della riconoscenza, della gratitudine. Dello stupore. È incredibile come riesca a fare l’abitudine a tutto, l’uomo. Propedeutica e alleata della noia di cui, però, ha il terrore e dalla quale tenta di difendersi. Per tenerla a bada, ha inventato mille accorgimenti, alcuni buoni e benedetti, altri palesemente falsi, rischiosi, bugiardi. Droga, alcol, "gioco" d’azzardo, tradimenti, potere, denaro, sono solo alcune di queste menzogne cui si sottomette. Bugie simili all’acqua di mare: più ne bevi più aumenta la sete. Purtroppo, i maestri che occupano le cattedre non sempre sono all’altezza delle altissime lezioni da tenere ai giovani.

Un bambino che si va formando nel grembo di una donna, invocando solo la carità di essere lasciato in pace per pochi mesi, è il più grande mistero di cui necessita questa nostra bella e contraddittoria umanità per non morire, non invecchiare, non annoiarsi. Un invisibile, prezioso concentrato di vita, di futuro, di bellezza. Uccidetelo e avrete ucciso voi stessi. Gettatelo nella fogna e vi trascinerà con sé. 42 milioni di aborti nel mondo nell’anno che è passato sono una cifra spaventosa per tutti, credenti e non credenti. Come è stato possibile? Dove è andata a nascondersi la pietà? Quel bambino che non avrebbe voluto morire ero io, eri tu, mia mamma, tua mamma. Eravamo noi che invece fummo accolti, amati, coccolati.
In questi anni decine di bambini che stavano per essere abortiti hanno visto la luce, grazie all’aiuto della nostra parrocchia.

Rivedo gli occhi delle loro mamme impaurite (poche volte quelli del babbo), l’abbraccio sincero delle nostre volontarie, gli incontri, le preghiere, gli incoraggiamenti, gli aiuti concreti. Poi, un sospiro di sollievo: nascerà. Rivedo la loro immensa gioia nel giorno del Battesimo. La riconoscenza per chi le ha aiutate a non cedere alla cultura della morte, a fidarsi della bellezza della vita. Nacquero. Sono vivi. Uno spettacolo. Più belli di tutte le opere d’arte realizzate da che esiste il mondo. Sono vivi. Felici di calcare questa nostra terra. Daranno vita ad altre vite. Li vedo spesso, in chiesa, per la strada, e sempre mi commuovo. Alcuni, piccoli, in braccio alle mamme, o che sgambettano, altri ormai adolescenti, giovanotti, signorine. E la mia mente, inebriata dal mistero, vaga.

 
 
 

Tutte le persone hanno valori dentro

Post n°3703 pubblicato il 04 Febbraio 2022 da namy0000
 

Speranza per chi si crede ormai perduto

Tutte le persone hanno valori dentro, ma spesso non nel giusto ordine. La sfida, oggi, è quella di educare i ragazzi a dare una gerarchia alle priorità della vita.

Vi racconto un aneddoto: tempo fa, ho assistito a una lezione di un professore di Filosofia con dei ragazzi. Il professore ha preso un’anfora, ci ha versato alcuni sassi grandi, sembrava piena. Poi ha preso dei piselli, che scendendo negli interstizi hanno trovato posto nell’anfora. Alla fine ha preso della sabbia e ha dimostrato che anch’essa ha trovato spazio nel contenitore. Infine vi ha versato due bicchieri di birra, i ragazzi lo guardavano tra lo stupito e il perplesso: «Vabbe’, prof, ma che vuol dire?».

Il professore ha spiegato: «Ragazzi, l’anfora siamo noi. I sassi grandi sono le cose davvero fondamentali nella vita: la fede, la famiglia, la ragione, l’amore. Non a caso i sassi sono pochi e grandi. Poi vengono i piselli, più piccoli, ma importanti anche loro, anche se meno dei sassi: la scuola, il lavoro, la casa, l’amicizia, la macchina per andare al lavoro. Servono per vivere, ma i sassi vengono prima. La sabbia rappresenta le cose quotidiane: il telefonino, l’abbigliamento alla moda, le piccole cose cui comunque teniamo».

I ragazzi provocavano: «Sì, vabbe’, prof, ma la birra che c’entra?». «Vedete, tutte le persone hanno dentro sabbia, sassi, piselli, ma troppe volte non sono nel giusto ordine di priorità: se mettiamo prima la sabbia, poi i piselli, alla fine i sassi non ci stanno più. Se sarete così bravi da crescere mettendo nella vostra vita le priorità nell’ordine giusto, vi meritate la birra, questo volevo dirvi». Se lavoriamo insieme, come società, per mettere nell’ordine giusto delle priorità, non esiste nessun ragazzo, nessuna persona che non possa alla fine arrivare a bersi quella birra (don Antonio Mazzi, FC n. 1 del 2 gennaio 2022).

 
 
 

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