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via Cupa

Post n°427 pubblicato il 14 Settembre 2015 da viburnorosso

L’altro giorno io e il Gufetto siamo andati a via Cupa.
A Via Cupa c’è il Baobab, un centro di prima accoglienza per rifugiati gestito direttamente da immigrati, che da giugno, dopo gli sgomberi dal piazzale della stazione Tiburtina, si è ritrovato con un numero di ospiti triplicato rispetto alla sua capienza. Roba da 650-700 pasti al giorno, per capirci.

Se sei uno che gira in macchina, a via Cupa puoi finirci solo per sbaglio, perché è un vicolo imbucato tra il Verano e la Stazione Tiburtina, su una strada che non porta da nessuna parte.

Se invece sei uno di quelli che girano a piedi, e per giunta scalzi, a via Cupa puoi finirci giusto per un miracolo, o qualcosa che gli somiglia, insomma. E allora meno male che esiste un posto così.

Io  e il Gufetto a Via Cupa ci siamo andati apposta. In macchina, che avevamo da scaricare delle buste di vestiti e uno scatolone con generi di prima necessità: succhi, sugo, patate, biscotti, roba da mangiare insomma, scelta un po’ a cavolo dagli scaffali di un supermercato leggendo dal telefonino una lista impossibile da completare.

A spesa fatta, il Gufetto mi ha fatto notare che avrei dovuto prendere anche un bustone di orsetti gommosi alla frutta, ma né a me, né ai volontari che avevano compilato quell’elenco infinito era venuto in mente: questo a dimostrare che il concetto di prima necessità è estremamente relativo, che i bisogni primari variano non solo per latitudine, ma anche per età, e che per il futuro non sarebbe male estendere la necessità oltre al bisogno, fino ad includerci dentro anche un po’ di piacere.

Che eravamo arrivati a via Cupa l’abbiamo capito subito, anche senza controllare sul navigatore: lasciamo la Tiburtina nel punto in cui i chioschi dei fiorai costeggiano il muro di cinta del cimitero e ci ritroviamo improvvisamente catapultati in una situazione piuttosto surreale, in mezzo a centinaia di persone dalla pelle scurissima, che sedute sui marciapiedi, o raggruppate in piccoli capannelli lungo i bordi della strada, aspettano che il tempo passi senza sapere quanto tempo li aspetterà.
Del resto sono migranti, in transito attraverso il nostro paese e per giunta sprovvisti di permesso di soggiorno, quindi non possono fare altro che attendere di rimettersi in viaggio per un altrove che spesso ignorano. Se sono fortunati, con un biglietto in tasca.

La prima impressione è stata di essere finiti in un non-luogo – un luogo cioè che non appartiene né alla nostra vita, né a loro, che non è né Italia, né Africa,  né casa, né galera – sospeso nel non-tempo di un’attesa infinita. Ho provato una sensazione di straniamento che ha preso addirittura la forma del disagio, quando con la macchina ho dovuto forzare il passaggio e farmi strada nel vicolo. Subito mi è salito un pensiero del tipo qua-io-non-c’entro-niente, giusto appena ricacciato in basso dal ragionamento che comunque ero lì con uno scopo ben preciso.

La seconda impressione, strettamente connessa alla prima, riguarda il modo in cui noi occidentali benestanti  – e  qui è irrilevante quanto benestanti, perché per i criteri di relatività di cui sopra siamo comunque tali – dicevo il modo in cui noi occidentali benestanti ci rappresentiamo il concetto di accoglienza, collegandolo in fondo a quello di gratitudine: io vengo qui, ti aiuto, non mi aspetto nulla, però tu mi ricambierai con quel sorriso, quella stretta di mano che mi faranno sentire tanto bene.

Ecco, questo è un ragionamento che va smontato sul nascere, perché implica senza volerlo la presunzione del benefattore.
Anche io ne sono stata tentata: mentre portavo lo scatolone con la spesa e gli abiti, cercavo di vincere il mio imbarazzo sorridendo timidamente a quelli che incrociavo e aspettandomi che loro facessero lo stesso con me, invece la maggior parte ha abbassato la testa o si è girata dall’altra parte, evitando di incrociare il mio sguardo.
Sulle loro facce non ho trovato sorrisi, ma piuttosto la paura di chi ha imparato a non fidarsi più di nessuno.
O quantomeno, una stanchezza tale che da non lasciar trapelare nessuna traccia di esplicita gratitudine.
Ovviamente questa cosa ti lascia spiazzato, perché non assomiglia neanche un po’ all’idea edulcorata di accoglienza che hai in testa.
Quindi molto meglio spogliarsi dei panni eticamente confortevoli del benefattore, per indossare quelli più anonimi del cittadino nell’esercizio dei suoi normali doveri di accoglienza: è l’unico modo per entrare in via Cupa, e in tutti gli altri posti che le somigliano, senza sentirsi troppo uno schifo.

Del resto, se è facile sapere di essere dalla parte giusta quando guardi i bimbi che giocano sorridenti nel cortile del Baobab sui tricicli scassati ricevuti in beneficienza, più difficile è provare la stessa sensazione appena varchi quei cancelli e ti ritrovi per strada tra le centinaia di quelli che aspettano, eternamente ai margini di qualcosa che sta lì ma non gli appartiene.

L’ultima considerazione va al Gufetto, che appariva evidentemente turbato.
“Non era come me l’aspettavo” – ha detto – “Il  fatto è che la televisione non ti fa vedere le cose per come sono veramente”.
Ecco, penso che per una generazione cresciuta dentro alla realtà virtuale un po’ di realtà brutale non può che far bene, anche per capire che fuori dagli schermi piatti, quando uno cade, non ha altre sei vite a sua disposizione e spesso manco si rialza. 

Insomma, ci torneremo.
Magari stavolta anche con un sacco grandi di orsetti gommosi gusto frutta.

 
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Commenti al Post:
GnothiTauton
GnothiTauton il 14/09/15 alle 23:06 via WEB
A me, figlio obbediente di Santa Romana Chiesa, nato e cresciuto nel Meridione d'Europa, hanno insegnato a fare del bene senza dirlo in giro; possibilmente senza farlo sapere neanche a chi riceve. E lo stesso sto cercando di insegnare a chi viene dopo di me
(Rispondi)
 
viburnorosso
viburnorosso il 15/09/15 alle 00:07 via WEB
In effetti ci avevo pensato, se fosse prudente scrivere 'sta cosa qui. Perché il rischio che suonasse come un autoincensamento c'era.
In realtà voleva piuttosto essere una riflessione sul tema della accoglienza e su come viene edulcorato dai media. Anche oggi seguivo una trasmissione e notavo come il meccanismo narrativo sia sempre lo stesso: in qualche posto già abbastanza sfigato di suo arriva un copioso contingente di migranti, il solito gruppetto di coraggiosi, sfidando maldicenze e convenzioni li accoglie, e via a seguire immagini di abbracci, balli, pacche sulle spalle e nuove amicizie.
Di solito si finisce attorno ad una mensa apparecchiata, o si suggella il nuovo incontro con una partita di calcetto, che nell'immaginario collettivo non c'è niente di più efficace di un gruppo di neri che fanno acrobazie con un pallone ai piedi.
Io non dico che questo non avvenga, anzi sarei ben contenta che avvenisse molto più spesso, dico solo che questa è solo una parte della narrazione, quella che merita di essere sceneggiata. Tutto il resto è assai meno fotogenico.
(Rispondi)
 
 
esperiMente
esperiMente il 15/09/15 alle 10:38 via WEB
Gnothi, a me pare evidente che l'intento della Viburna non sia quello di esibirsi ma invitare a riflettere.
(Rispondi)
 
 
 
PRONTALFREDO
PRONTALFREDO il 15/09/15 alle 14:30 via WEB
Fiuuu, ma allora sei ancora viva!
Mi hai fatto stare in pensiero Mirè, pensavo fossi passata a miglior vita...
(Rispondi) (Vedi gli altri 3 commenti )
 
 
 
viburnorosso
viburnorosso il 15/09/15 alle 14:53 via WEB
In effetti st'estate eravamo passate a miglior vita entrambe, vero Espe?
Peraltro fa dei mojiti da paura!
(Rispondi)
 
 
 
PRONTALFREDO
PRONTALFREDO il 16/09/15 alle 14:45 via WEB
E che non lo so?
Basta vedere la sua faccia... tipica di chi ha appena fatto un mojito.
(Rispondi)
 
 
 
PRONTALFREDO
PRONTALFREDO il 17/09/15 alle 10:11 via WEB
Da paura.
(Rispondi)
PRONTALFREDO
PRONTALFREDO il 15/09/15 alle 08:48 via WEB
Via Cupa.
Già il nome è tutto un programma.
(Rispondi)
 
viburnorosso
viburnorosso il 15/09/15 alle 10:00 via WEB
Quello che ho pensato anche io. E non mi risulta le abbiano cambiato nome.
(Rispondi)
Utente non iscritto alla Community di Libero
in effetti... il 23/09/15 alle 10:02 via WEB
una via Cupa, per giunta senza uscita, poteva sembrare un'invenzione letteraria.
(Rispondi)
 
viburnorosso
viburnorosso il 25/09/15 alle 17:50 via WEB
In effetti un'uscita ce l'ha, solo che ti riporta indietro alla stazione Tiburtina, quindi se non ci vai apposta, non ha senso passarci.
(Rispondi)
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