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Post n°460 pubblicato il 09 Luglio 2018 da viburnorosso
Lo zio Angelino l’ho conosciuto solo dai racconti della zia Anna, che, oramai giunta a 88 anni, tiene vivi nella memoria ricordi già scivolati nell’epica della storia, come quella volta che dal secondo piano del palazzo dove viveva spararono ad uno dei due tedeschi che presidiavano la sede della RAI a Via Asiago, RAI che però allora si chiamava EIAR, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche. Il soldato, un ragazzo, giaceva riverso sull’asfalto, la gente cominciava radunarsi sul marciapiedi, finché arrivò un plotone di occupanti e presero a salire su per l'edificio da cui era partito il colpo, lei e altri ragazzi come lei intanto tutti pigiati nel solaio, al buio, che c’era il coprifuoco, il tonfo lento e cadenzato degli scarponi militari che rimbombava inesorabile in gola, ogni passo più vicino, e poi improvvisamente si arrestano, passi e cuori, entrambi, l’apnea si dilata, i ragazzi tutti muti come pesci, senza più un briciolo di ossigeno nelle branchie, e il tonfo che riprende al contrario, sempre più distante, sempre più rapido, o forse è solo il battito cardiaco che si libera nella scampato pericolo.
Quella volta lo zio Angelino non c’era, o forse è semplicemente rimasto fuori dal cono di luce del ricordo della zia Anna, i ragazzi si sono presi tutta la scena, mentre lui dimenticato in un angolo buio del solaio conta i decimi di italiano adulto che mancano a fare un tedesco. Ritorna però come protagonista assoluto di altri racconti.
Ad esempio quello in cui una famiglia di ebrei bussò alla porta dalla OCEM, l’officina di costruzioni elettromeccaniche che lui dirigeva, e gli chiese rifugio. Lì tenne nascosti per diverso tempo negli scantinati, dove la zia Anna dice che c’era un cunicolo, o una specie di passaggio segreto, non ho capito bene, finché un giorno venne un ufficiale a chiedere se per caso non avesse visto degli ebrei in giro e lui ovviamente negò, e mentre quelli intanto perquisivano le officine, prese la lista con i nominativi che teneva nascosta sotto la maglia e se la mangiò, e siccome all’epoca gli inchiostri erano parecchio tossici, poi stette male giorni e giorni, una roba tipo avvelenamento da piombo.
Nel dopoguerra, negli anni del boom economico, lo zio Angelino alla OCEM aveva inventato una macchina che copiava i testi, una fotocopiatrice insomma: si indebitò fino al collo per realizzare il progetto e costruire il prototipo, cinquanta milioni di lire dice la zia Anna, non so se la cifra sia verosimile, ma insomma, tanti, tantissimi soldi, per quella che doveva essere una svolta nella vita. C’era un generale, ora non ricordo il nome, con cui si era accordato per depositare brevetto, la sera prima avevano mangiato insieme, e il giorno dopo con tutti gli incartamenti doveva presentarsi in un certo ufficio per chiudere la pratica. La mattina va lì, con tutti i bozzetti e i lucidi, le marche da bollo, e il vestito buono, io me lo immagino così - che uno non apre la porta al successo con gli abiti stropicciati e la barba sfatta - ma il generale non c’era, aspetta un po’, aspetta ancora, poi si avvicina la segretaria con aria incredula e gli annuncia che quella stessa notte il generale era venuto a mancare.
Così, durante quel breve, inconsistente lasso di tempo che separa la cena della sera prima dall’appuntamento del mattino dopo, il tempo giusto per un sonno ristoratore, si compie il destino del generale, pace all’anima sua, e anche quello dello zio Angelino: non c’è più nessuna porta da aprire, nessun successo da far accomodare. Al posto del generale defunto ne arriva un altro, ma di questo la zia Anna non sa il nome, già siamo nella parte buia del racconto, ricorda solo che respinge il brevetto: ha le sue conoscenze da sostenere, altri brevetti da far passare. E così la fotocopiatrice dello zio non vede mai la luce, rimane un prototipo, mentre l’appartamento sopra al cinema Mignon viene pignorato per pagare i debiti.
“L’anno scorso, mentre sistemavo” dice la zia “ho ritrovato lucidi e bozzetti del progetto. Stavano in una valigia di cartone in cima ad armadio. Li ho presi, ho fatto due viaggi al cassonetto, e li ho buttati tutti”.
“Ma perché zia? Perché l’hai fatto? Erano un ricordo, e poi magari avevano un valore!”
“Ecco appunto, erano il ricordo di un dolore. Non ha senso prolungarlo, è durato anche abbastanza. E poi ora le fotocopiatrici sono pure superate. Non fate tutto col telefonino voi?”
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