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Cara collega ...

Post n°356 pubblicato il 22 Gennaio 2014 da viburnorosso

 

Tempo fa ho commesso un errore.
Ho aperto una di quelle mail che iniziano con “Cara collega” e proseguono con un “ho pensato proprio a te per …”
Avrei dovuto capirlo subito che si trattava di una fregatura, perché quando si parte blandendo il proprio interlocutore, poi segue sempre una richiesta.
E invece, non solo l’ho aperta la mail, ma l’ho anche letta fino in fondo.
E ho fatto di peggio. Ho accettato la proposta che conteneva, pentendomi poi con la stessa rapidità con cui avevo pronunciato il mio “Va bene!”.

Il fatto è che faccio fatica a dire di no, proprio non ci riesco: è un limite che probabilmente ha a che fare con il mio sistema di autostima, però almeno ne sono consapevole.
Del resto con 10 anni di psicanalisi si raggiungono diverse consapevolezze. Anche di questo sono consapevole, per dire.

Ma sto divagando.
Per farla breve nella lettera mi veniva chiesto se ero disponibile a stare in commissione per la discussione di alcune tesi di dottorato, adducendo come motivazione l’affinità tra i miei interessi di ricerca e quelli di una delle candidate.
Capite che posta in questi termini, era una richiesta impossibile da rifiutare senza passare per ingrati, in quanto presuppone l'esistenza al mondo di qualcuno che possa essersi letto i miei lavori.
E che fai, ad uno così gli dici di no?

Anche per questo motivo ho dato il mio assenso, nella convinzione comunque che si trattasse solo di un contatto esplorativo e che poi al momento della decisione avrebbero optato per qualcuno più competente, o anche solo proveniente da una sede meno distante.
Ma evidentemente basavo le mie speranze su argomenti fallaci e inconsistenti, perché a fine novembre mi è arrivata la nomina ufficiale.

“Gentile collega abbiamo il piacere di comunicarle che …” Stavolta però non sono manco andata fino in fondo.
Avevo già capito il guaio in cui mi ero cacciata. E come avrei passato le settimane successive.

Tre giorni prima di Natale infatti mi sono stati recapitati a casa tre tomi di circa 250 pagine l’uno.
Ho iniziato da quello più vicino ai miei interessi di ricerca, mentre per ultimo mi sono lasciata quello col titolo più avvincente:
“La fricative postalveolari sorde  nel dialetto frusinate”.
Perché, come si sa, dulcis in fundo.

Un paio di settimane fa, all’inizio dei saldi, ho avuto un primo segnale di cedimento.
Per tenermi incollata alla sedia mi ripetevo che comunque la trasferta mi avrebbe fruttato qualche denaro.
Ma il pensiero di tutte quelle vetrine traboccanti di scarpe scontate al cinquanta percento che aspettavano solo me per essere calzate aumentava notevolmente il mio senso di frustrazione.
Così mi sono messa alla ricerca di argomenti convincenti. Mi è venuto in mente che anche la mia collega di stanza (“cara” pure lei, evidentemente) era caduta nella mia stessa trappola, così le ho mandato un messaggio:
“Ho bisogno di una motivazione forte. Quanto ce la pagano la trasferta?".
“Nulla!” è stata la sua laconica risposta. Quella che ha decretato l’improrogabile ingresso nel mio guardaroba di un nuovo paio di scarpe con il cinturino.

E a questo punto, visto che oramai mi ero fatta incastrare come la più ingenua delle falene davanti ad una lampadina accesa, ho accettato anche di tenere una lezione, chiaramente gratis, con cui quantomeno guadagnare un cospicuo vantaggio morale di fronte i miei sensi di colpa: vantaggio che mi permetterà di convertire in “gesto autogratificante” il mio prossimo “acquisto compulsivo”.
Perché le cose, ve ne sarete accorti, a volte basta chiamarle con un altro nome per farle diventare quello che vorremmo.

E così oggi si parte.
E siccome ieri sera mi è giunta la notizia del tutto inattesa che la lezione sarà retribuita, insieme al bonus morale, ne avrò anche uno monetario.
Oltre, ovviamente, ad una nuova consapevolezza:
che le mail che iniziano con “Caro collega …” è meglio far finta di non averle ricevute.




 

 
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