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Trasferte lavorative. Ovvero la vertigine della solitudine.

Post n°383 pubblicato il 19 Maggio 2014 da viburnorosso

Gli eucalipti, gli ulivi e la macchia mediterranea.
I villini gialli con il tetto rosso e quelli rossi con il tetto rosa.
Ancora giallo negli arbusti di ginestra.
Si viaggia col mare alle spalle, verso il centro della terra.
La strada affetta in due la roccia, che sotto il verde dell’erba rivela un’insospettabile anima ocra.
Piccoli cespugli viola vi si aggrappano sopra sfidando le leggi della logica solo per soddisfare un principio di contrasto cromatico.
Sotto al sole languido del tardo pomeriggio, la striscia compatta dell’asfalto sembra un nastro di velluto nero.
Ma forse è solo un miraggio di indolenza.

Un cartello azzurro avvisa: Sassari 9 chilometri.
In lontananza appare una cupola, poi un grattacielo, un campanile, la ciminiera di una fabbrica:
una sequenza che riflette un criterio di progressiva e disordinata urbanizzazione che nulla ha a che fare con la precisione estetica della campagna appena attraversata.
La bellezza però risiede anche nei contrasti.

Ancora un paio di chilometri ed è città.
Una città in salita, con le piazze in pendenza, che i bambini, a giocarci a pallone, sfidano due volte la forza di gravità, perché la palla prima cade a terra e poi va giù.
Il taxi continua a salire, gira attorno ad una rotonda, sale ancora. Poi si ferma lungo il marciapiede destro. Un’insegna a neon davanti al cancello di un piccolo cortile, segnala l’esistenza dell’albergo. Il solito tre stelle di tutte le mie trasferte lavorative.
L’ingresso è nascosto dietro a dei vasi di ficus.
Alla reception mi consegnano un pesante portachiavi con su scritto 209.
Secondo piano, ovviamente!

Trascino il trolley su una moquette a fiori, alle pareti boiserie di finto legno e abat jour d’ottone.
Il cattivo gusto anni Ottanta – con il suo sfarzo che allude ad un benessere rimasto solo promessa – oggi che è stato definitivamente spazzato via dalla linearità del nuovo stile minimale, smette di essere cattivo e diventa solo evocativo:
potrei essere ovunque, in un giorno qualunque della mia adolescenza.  Forse è per questo che mi sento a casa.
E in fondo, chi viaggia per lavoro, non chiede altro, di sentirsi come a casa, senza esserlo.

Infilo la chiave nella toppa della serratura, e come sempre, nell’istante esatto in cui sto per aprire la porta, vengo colta da un fremito di eccitazione.
Mi aspettano due notti sola in una stanza tutta per me, in cui poter leggere fino a notte fonda, vedere programmi ignobili alla tv, farsi la doccia senza curarsi di bagnare il pavimento o lasciare i vestiti sparsi in giro.

Ovviamente non ho fatto nulla di questo, sono rientrata sempre stanca in stanza la sera tardi  e mi sono addormentata di colpo; e in bagno ho cercato di non lasciare un lago quando mi sono fatta la doccia.
Però 
ad alimentare la vertigine della solitudine mi è bastato il pensiero che se avessi voluto, avrei potuto farlo.

È stato tutto perfetto.
Mentre ripartivo ho anche sostituito al pensiero iniziale quello di una città con le strade tutte in discesa.

 
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