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Trovate altre curiosità e notizie
su Alfredo Fiorani
nella sezione

del sito web
http://digilander.libero.it/
alfredofiorani/


 
Citazioni nei Blog Amici: 8
 

 

Il suo terzo romanzo

Post n°44 pubblicato il 01 Febbraio 2008 da alfredofiorani
 

La memoria impura è il suo terzo romanzo.
Il titolo, che lascia indovinare un ammiccamento all’impura aria pasoliniana, compendia efficacemente il senso dell’opera.
Un’opera cupa, intrisa di disperazione, che mira ad abbinare la componente drammatica alla tragica.
La storia è quella di Alvaro, un pedofilo ed assassino, che dopo venticinque anni di reclusione si accinge a tornare in libertà.
Ancora chiuso in cella, nei giorni immediatamente precedenti il rilascio, continua a svolgere quella ricognizione sui propri trascorsi avviata tempo prima, riconoscendosi definitivamente incapace di affrontare il rientro nella quotidianità.
Troppi i timori, troppo grande il senso di diversità.
Troppo pesante il suo angustiarsi per dimenticare, per abbandonare quella parte di sé che con paura sente viva, minacciosamente latente, fiaccata ma non estirpata dalla pur lunga pena.
Consapevole delle bestialità commesse, quelle atrocità lo ossessionano, costringendolo ad un fitto monologo interiore: la sua mente, con la memoria impura che l’attanaglia, diviene il luogo di uno stillicidio di riflessioni sempre più insostenibili, d’un travaglio intimo che contrappone due forse uguali e contrarie.
L’ininterrotto discorso con se stesso diventa un dialogo tra due parti di un sola identità confliggenti eppure complementari (“Dove leggere la verità su di me?”, p.44): l’una, del passato, brutale e spaventosa; l’altra, del presente, sconcertata, intimorita, inibita dalla prima, e affannosamente tesa a voler riconoscere come raggiunta una redenzione di fatto solo presunta e tutt’altro che ottenuta.
La dialettica derivante dalla coabitazione di bene e male, che ripropone – forse un po’ presuntuosamente – il contrasto jekylliano, viene progressivamente accresciuta attraverso l’esasperazione della condizione del protagonista, ottenuta con un’intensificazione emotiva della narrazione in prima persona e, inoltre, con una serie di recuperi analettici inseriti nel contesto narrativo, anche se non sempre in modo efficace.
Il conflitto che in lui si svolge è dunque una crisi che abbraccia sia il piano esistenziale che quello etico-morale, e a conclamarla, ad amplificarla, concorre un progressivo scemare di speranza.
L’insieme si traduce in una circolarità soffocante, frenata, quantunque blandamente, dall’affioramento di tre figure, ciascuna delle quali partecipe, seppure in modo differente, al passato del protagonista e simbolicamente rappresentativa d’una sua stagione di vita e d’un valore umano: il vecchio Bartolomeo (infanzia e amicizia), l’ispettore Krumm (pentimento e giustizia).
Padre Esilio (riscatto e fede).
I recuperi analettici connessi con i tre personaggi consentono al lettore di discostarsi dall’incalzante progressione di quanto raccontato dall’io narrante e di ricostruirne parte del percorso di vita, soprattutto per quanto attiene ai disagi e alle sofferenze dell’infanzia.
L’impossibilità di proseguire la propria esistenza (affermandola) sapendo d’aver interrotto quella altrui (negandola) causa una dicotomia insanabile, e l’intento che unilateralmente tende ad un rinnovamento della vita s’infrange contro la congenita bipolarità intrinseca al protagonista.
Fiorani ha dunque tentato di rappresentare quella che potrebbe dirsi la genesi d’una fine, facendo vertere la vicenda di Alvaro intorno a questa sorta di ossimoro.
E’ da dire che, per quanto l’intuizione sia di per sé piuttosto interessante, a conti fatti non pare poter giustificare da sola tutto il romanzo.
Romanzo che, peraltro, pur se complessivamente accettabile, non è immune da altri difetti: da sottolineare lo stile dell’Autore, caratterizzato da periodi interrotti bruscamente, iterazioni e costruzioni anaforiche che, a tratti, rendono la scrittura macchinosa, appesantita qua e là da pleonasmi e da pagine non indispensabili: in particolare, la scelta di spezzare questo o quel periodo, nel tentativo d’affidare al lettore il compito d’attribuire significato a frasi concepite con un intento designificante, non convince.
Altro problema risiede nella definizione dei personaggi, che se tecnicamente risultano più o meno funzionali (per numero, per collocazione), non riescono a trasmettere quanto in realtà dovrebbero.
Alvaro, in particolare, rimane freddo, distante, nonostante il fluviale discorso interiore che porta avanti e con cui investe il lettore; gli altri, pur nella loro sostanziale sensatezza narratologica, restano figure poco definite, poco espressive, più simili a tappe obbligate di un percorso che a entità autonome e letterariamente significative.

Simone Gambacorta
in: Sìlarus, Anno XLIII, n. 226, Mar/Apr. 2003

 
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L'incantatrice orientale

Post n°43 pubblicato il 31 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Ci sono, nelle ormai fatiscenti e carnascialesche scenografie del nostro screziatissimo e caleidoscopico Barnum letterario, come bene consumo, talvolta anche come ritorno costante del periodico prodotto d’autore, appuntamenti abitualmente attesi con le opere di scrittori affermati e rare sorprese di nuovi nati un po’ confusi nel gran bailamme quotidiano delle meteore e delle future stelle fisse.
Di Alfredo Fiorani mi piace parlare quasi si trattasse di un perenne esordiente, e forse – glielo auguro – di un postero sopravvissuto, capace nel decennio della sua attività di prosatore per vocazione elettiva e di poeta fra le righe (cioè quale autore di poesia in temporaneo surrogato alla messa a punto di più complesse architetture narrative) di progressivo affinamento espressivo in concomitanza della maggiore incisività sintattico-lessicale; quando beninteso non si lasci andare, per smania d’imporsi, ad una ricerca narcissica della parola o dell’effetto, sempre comunque ripescati con sensibilità da duttile sedimentazione culturale.
Esordiente perenne, dicevo, con quel che di freschezza questo comporta, pensando al fatto che alla qualità della sua scrittura, pur nella non sporadicità di buoni riconoscimenti e nell’avallo di rinomati predatori, è mancata finora (e fino a quando?) la risonanza a grancassa che, oggi, può essere orchestrata solo dalle cordate operative delle grandi case editrici.
La vecchia consorteria intrigante, ogni tanto malevola ma intelligente dei recensori d’antan, che se non assicurava vasta eco sapeva almeno garantire col suo special tam-tam privato una dignitosa quanto produttiva stima a che lavorava e creava con dignità fuori dei circuiti privilegiati, si è purtroppo estinta. I nuovi feudatari si sono trasferiti nei modernissimi Pirelloni a manovrare studiatissime catene di montaggio; ad una libera repubblica delle lettere si apre l’accesso ad una sorta di Colosseo asfissiato dal traffico circostante, ove ognuno, dopo aver sventato il più che probabile investimento, ha libero diritto d’accesso o  d’asilo ad evocare sulle macerie viventi fantasmi, sempreché abbia cuore ed esercitata fiducia che d’improvviso, per una banale coincidenza dei possibili, si facciano carne e sangue.
Io non so quando e come, e se mai, per Fiorani accadrà che l’attuale cerchia di estimatori ed amici sarà messa in disparte dal sopravvenire di un folto pubblico; e quando La 13ma ora, Il fiume e le stelle, I labirinti di Joyce potranno diventare le indispensabili tappe di avvicinamento critico al recentissimo L’incantatrice orientale. Non disponendo di un flauto magicamente suadente, so soltanto di poter suscitare l’attenzione di sparuti ed intelligenti lettori, i quali non meritano a questo punto l’offesa di vedersi sciorinato il compitino diligente dell’esile riassunto di una trama con i pochi condimenti del caso, secondo prassi sterile ovunque dilagante. Chi vorrà, non faticherà a trovare da solo il percorso ed il personale punto d’osservazione e giudizio, l’ottica particolare che di certo lo ricompenserà del breve dono del suo tempo.

Giuseppe Papponetti
in: Oggi e Domani, Anno XXII, n. 6, 6/94

 
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L'amore come sofferenza e rinascita

Post n°42 pubblicato il 30 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

L’amore come sofferenza, ma anche come rinascita, come limite oltre il quale la vita torna ad essere possibile.

È il succo del nuovo romanzo di Alfredo Fiorani, scrittore originario di La Spezia ma trapiantato in Abruzzo ormai da molteplici anni. All'amore il tempo questo il titolo scelto da Fiorani per la sua nuova fatica di narrativa, legata a una storia che vede nel dolore lo strumento di una redenzione, di un annientamento del protagonista che tuttavia gli consentirà di rinascere a nuova vita.

E in effetti tutto il romanzo ha l’aspetto e il tenore di una lunga discesa all’inferno. Già dall’inizio, serrato e lessicalmente denso, si avverte il senso di una disperazione senza uscita, che pure alla fine troverà il suo compimento.

Alfredo è un intellettuale alla ricerca di un amore vero, e forse di una vita vera.

Beatrice è la donna che ama, e il riferimento dantesco non può non lasciare adito a ipotesi e suggestioni simboliche. Tuttavia il parallelismo dà vita più che altro a una opposizione: la Beatrice di Fiorani non simboleggia una benedizione, non la salvezza, ma una dannazione e la perdizione.

Così l’amore si trasforma in sofferenza, specie quando viene vissuto con ansia, insicurezza, quando viene comunque vissuto come una perdita, tra le telefonate attese invano, o nel desiderio stesso inarrestabile e impossibile da soddisfare di lei, un desiderio che ricrea continuamente se stesso, si amplifica sempre più.

Il Centro

17 ottobre 2007

 
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La memoria impura

Post n°41 pubblicato il 29 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Con La memoria impura Alfredo Fiorani ritorna al romanzo dopo L’incantatrice orientale (1994) e L’orizzonte di Cheope (1998), mostrando una vocazione narrativa che va al di là dello stesso genere letterario, nel senso che si offre come un luogo di metaforizzazione dell’esistenza e delle sue implicazioni sociologiche, etiche, religiose.
La memoria impura è la storia di un uomo che ha ucciso, dopo averle violentate, una piccola folla di bambine.
Sul punto di essere scarcerato dopo una condanna a venticinque anni, ripercorre con la memoria tutte le tappe della sua storia personale nell’intento di fare chiarezza dentro di sé in vista del suo rientro nella società civile.
Ma questo esame retrospettivo, questa angosciosa e per certi versi spietata autoriflessione, non lo porta da nessuna parte: lo lascia con gli stessi dubbi, gli stessi timori, le stesse tentazioni, la stessa inerzia morale di cui è stata condita la sua esistenza, per cui, una volta fuori dal carcere, egli non soltanto non ha maturato nessun proposito di riscatto, ma è riassalito dalla stessa febbre di violenza che ne aveva fatto un criminale; convinto, pertanto, che per lui non c’è alcuna speranza di salvezza, decide di porre fine ai propri giorni.
E’ una forma di redenzione (ossia il sacrificio di sé con cancellazione del male perpetrato agli altri) oppure, più verosimilmente, egli non se l’è sentita di confrontarsi con una società ostile e quindi incapace di offrirgli una qualsiasi forma di redenzione?
In altre parole, il protagonista della storia è un eroe che sacrifica se stesso per il bene degli altri o un vigliacco che rinuncia ad affrontare le difficoltà dell’esistenza?
Ed ancora: è la vittima di un’educazione famigliare e sociale o un caso patologico irrimediabile?
Di primo acchito, La memoria impura sembrerebbe la registrazione clinica di uno dei tanti delitti a sfondo sessuale  di cui sono piene le cronache del nostro tempo; sennonché, ad una più profonda lettura, ci si accorge che la storia che Alfredo Fiorani ci racconta è solo una metafora per denunciare, da un lato, le carenze di una società incapace di offrire un’opportunità di recupero a che, per una ragione o per l’altra, si trova a dover fare i conti con la giustizia e, dall’altro, per suggerirci che il male non è soggettivamente una scelta sbagliata o un giudizio sbagliato: non ha, come dire, un’ontogenesi storica, ma un’ontogenesi metastorica con implicazioni fortemente religiose.
In altri termini, Alvaro, il protagonista del romanzo, non è tanto un criminale nel senso strettamente giuridico del termine, quanto un peccatore, un predestinato alla dannazione esistenziale, e, come tale, tende pertanto ad una impossibile redenzione.
Dal male nessuno è immune afferma l’autore (p.44) e le domande non sono la salvezza dell’uomo giacché non esistono risposte sulla verità vera dell’esistenza.
Da qualche parte tutto già esiste.
Non si inventa nulla (p.66).
La sola risposta è l’amore, la fede, la capacità di mettere in ascolto, in attesa della luce, perché solo la luce ha la certezza della sua venuta.
In tutto il libro infatti aleggia una sorta di concezione deterministica: la gioia dell’uno bilanciata dal dolore dell’altro, il bene dal male, la fortuna dalla sfortuna, come se la realtà delle cose fosse un ambito chiuso, dove tutto è già stato deciso e stabilito dal principio dei tempi. Sotto questo aspetto, il romanzo si offre come un viaggio attraverso il mistero dell’esistenza, attraverso le zone oscure dell’anima dell’uomo, attraverso quei territori insondabili dell’inconscio, in cui tutto si confonde, gli opposti si azzerano e identità si contraddicono.
Allora anche il dubbio, in mancanza dall’altro, diventa la sola certezza possibile e la sofferenza l’unica via che conduce alla conoscenza profonda delle cose, al centro segreto di esse (p.89).
Da qui l’invito a riflettere, a riflettere bene prima di condannare, a capire, a mettersi nei panni del colpevole, anche perché in ognuno di noi c’è una memoria impura di errori, di omissioni, di egoismi, di indifferenza, di complicità (insomma di mali commessi anche senza volerlo); una memoria che ci accusa, che ci dice che il peccato non è mai completamente individuale, ma chiama in causa la responsabilità di tutti.

Pietro Civitareale
in Rivista Abruzzese, Anno LVI, n.1, Gen/Mar 2003

 
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Alfredo Fiorani e il suo staff ringraziano

Post n°40 pubblicato il 28 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

A costo di essere banali,

GRAZIE 1.000!

 
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Ipse dixit

Post n°39 pubblicato il 27 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

La speranza
è una terra avara
ma non si può fare a meno
di coltivarla.

 
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27/01/2008 - Il Giorno della Memoria

Post n°38 pubblicato il 26 Gennaio 2008 da AdamLeve
 
Tag: Poesia

LA GUERRA DEI POVERI

Conservo serrati nella memoria
I giorni in cui dormivamo seduti sul divano davanti alla TV
Mentre i mostri della guerra
Sfilavano al di fuori della nostra finestra
Silenziosamente
Come fantasmi
Senza attraversare la strada
Perché
Dall’altra parte
Dicevano
Era terra di fuoco

Ne vidi passare
In una notte insonne
Più di mille
Che
Come condannati al patibolo
Senza speranza
Andavano incontro alla sorte

Gli eventi
Quella sera
Si svolsero forse troppo rapidamente
Tanto che non fu facile riconoscere tra quei visi
Segnati dal tempo e dalle intemperie
Come montagne antiche
Il droghiere
L’avvocato
Il falegname
Il poeta
Il musicista
L’astrologo
Il viandante

Tutti
Indistintamente
Stringevano la paura fra i denti
Solida e gelida come una lama di ghiaccio
Che sega la lingua ad ogni passo

Spararono qualche colpo di mitraglia
E poi corsero a nascondersi dietro le colonne dell’antico porticato medievale
Di cui restavano ormai
Soltanto macerie

Ivana
Mia moglie da un pezzo
Sembrò dare segni di vita
Mentre affannosamente sospirava rannicchiandosi sotto le coperte
Poi
Tutto tornò com’era prima
Com’era sempre stato

La strada tornò a luccicare sotto gli insistenti rovesci di pioggia sottile
Che inumidivano l’asfalto

Di quei vocii sommessi
Rimase soltanto il ricordo greve
Affannato
Un silenzio tangibile

Tornai ad osservare
Proiettate dal tubo catodico
Le figure ilari e danzanti di un cabaret italiano
Surreali
Sogni ricorrenti di uomini dimenticati
Come poveri accattoni alle metropolitane

Adam Leve, 1987

 
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Rimestando

Post n°37 pubblicato il 25 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Il pioppo

Io sono un pioppo spoglio,
attendo radicato nel dubbio,
la primavera.
Intriso di questa pioggia
senza sosta con brezza
che dilaga tutt’intorno
e risparmia oggi
solo
gli uomini
al sicuro
nelle logge della certezza.

Con questi versi, posti come a suggello di un messaggio incompiuto, Alfredo Fiorani chiude la sua raccolta di poesie dal titolo Rimestando, un opera prima che si può senza dubbio definire più che una bella promessa per la sua ricchezza tematica non meno che per una sua forza espressiva. Walter Mauro, che ha tenuto a battesimo il nuovo poeta con l’avallo di una prefazione di pieno consenso, individua nel polo tematico del “viaggio” il motivo che “sembra governare e guidare la parola poetica… un punto d’incontro e di riferimento verso il quale Fiorani guarda con l’attenzione di un novello Ulisse che non realizza il suo vagabondaggio soltanto nei luoghi di un’ipotetica – e poetica – migrazione, ma più ampiamente nei recessi dell’uomo”.
Certo, sul piano stilistico, si notano qua e là lievi incongruenze e arditezze un po’ improvvisate, ma nell’insieme si può sostenere, d’accordo con lo stesso Mauro, che Fiorani fruisce di “un linguaggio molto singolare, all’apparenza semplice e naturale… ma in realtà penetrante ed esplicito, deprivato di ogni liricità eccessiva”. Più convincente, a tal riguardo, ci sembra la sezione intermedia, che s’intitola Di sera in sera, dove la materia ispiratrice si fa più omogenea e trasparente attorno al vecchio motivo della sera, colto attraverso dieci momenti di emozioni diverse, collocabili tra il sogno e la realtà. Leggiamo

Sera III

Non c’è sera
senza luci artificiali
mitigate dal vento
senza malinconia
del frinire
delle cicale a fine agosto
senza stanchezza della
luce naturale
occupata
da ombre imprecise
da sospiri agitati
che ancora s’appisolano
su di una trama di
sogno suadente.

Più variamente articolate sono la prima e la terza sezione, l’una rivolta a disegnare “diverse memorie”, l’altra “paesaggi d’acqua e stagioni di ritorno”, con un discorso solitamente disteso, spesso quasi a tutta pagina, fitto d’immagini che si snodano secondo una cadenza ritmica vicina alla prosa lirica.

Vittoriano Esposito

in Poesia Non-Poesia Anti-Poesia del ‘900 italiano, Bastogi Editore, Foggia 1992 

 
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La vita solitaria

Post n°36 pubblicato il 24 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

"Il libro deve essere come un sasso che si scaglia per colpire", così afferma Laudòmia Bonanni, scrittrice appartata e austera, che esordì in piena maturità (aveva poco meno di quarant’anni) nel 1948 con una raccolta di racconti dal titolo Il fosso.
E’ nata all’Aquila, ma ora vive a Roma, in uno spazioso appartamento dove sta sola.
Colpisce nelle case di alcuni scrittori, come qui, l’anonimo arredo borghese, il divano né antico né moderno da una parte, il tavolo da  pranzo lucido e rotondo accanto.
Soprattutto, come qui, quando è in contrasto con una scrittura ricercata, uguale a nessun’altra.
Laudòmia Bonanni non è conosciuta dal grande pubblico, le ragioni le spiegherà lei stessa tra poco; ma meriterebbe sicuramente più attenzione, non fosse altro perché non ha mai tradito i suoi esordi, salutati da Eugenio Montale con un celebre paragone: Gente di Dublino.
Conoscerla però è una vera impresa; i suoi libri sono quasi introvabili, nemmeno lei possiede ormai copie da regalare o da prestare a chi gliele chiede.
Hanno titoli semplici: Palma e sorelle, L’imputata, L’adultera, Vietato ai minori, Città del tabacco, Il bambino di pietra.
L’ultimo, Le droghe, edito come gli altri da Bompiani, è recente, dell’82, eppure non si trova.
Insomma succede alla Bonanni quello che capita alla maggior parte degli scrittori italiani viventi, esclusi quei pochi il cui nome si è imposto e che regolarmente appaiono come jolly sui vari mass-media, punta di un iceberg sommerso: la sparizione in un mucchio selvaggio in cui il sublime si confonde col mediocre, nella notte in cui tutte le vacche sono nere.
Ad aggravare la situazione, nel suo caso, c’è una personalità schiva e di poche parole che riempie l’espressione di sorrisi e di gesti lasciando spesso a bocca asciutta il registratore.
Dice sinceramente di essere rimasta molto delusa dopo l’uscita del suo ultimo romanzo: "Ho sofferto della completa indifferenza con cui è stato accolto, della noncuranza del mondo letterario verso il prodotto di una scrittrice il cui valore è stato riconosciuto. Lei vede quali libri e libercoli ottengono recensioni, vanno ai premi; e dunque se esce un romanzo, sia detto senza nessuna pretesa, di un’autrice impegnata già da anni, mi sembra doveroso il pensiero di recensirlo da parte di critici e intellettuali. Invece è stato il silenzio totale. Avrei preferito una stroncatura piuttosto..."
Parla con tranquillità e fermezza, senza curarsi di mitigare i giudizi più duri, seduta compostamente accanto al tavolo, le mani delicate intente ogni tanto ad accarezzare la superficie di un libro o del registratore.
Ha una voce forte e chiara, priva di inflessioni dialettali.

Signora Bonanni, cominciamo dal suo nome, Laudomia, così poco comune. Da dove viene?
       
Da mia madre. Durante la gravidanza lesse un libro, Niccolò de’Lapi, di D’Azeglio mi sembra; uno di quei romanzacci che vennero fuori a imitazione del Manzoni. La protagonista si chiama Laudomia, figura di donna angelica, come usava allora. A mia madre piacque tanto...

E lei è una donna angelica?

Non direi, non direi.

Un ritratto della scrittrice da piccola...

Della mia infanzia ricordo soltanto che volevo leggere continuamente. Ancora non andavo a scuola e già avevo imparato a leggere. Forse me l’aveva insegnato mia madre, non ricordo. Era maestra, dunque è probabile. Però ho l’impressione di aver fatto tutto da sola. Anche a tavola mi portavo un libro e lo leggevo di nascosto, mangiando, tenendolo sulle gambe. Quando mio padre se ne accorgeva mi sgridava molto. Era una pacifica famiglia borghese la mia. In casa sì, circolava qualche libro, ma niente di particolare. Leggere a tavola veniva considerato maleducato. Chissà da dove mi veniva tutta quella passione!

Poi la bambina cresce e diventa una giovane artista...

E’ stato un processo lento e per lungo tempo inconsapevole. Intanto continuavo a leggere. Compravo i libri di D’Annunzio appena uscivano. Ero solo una ragazzina, non capivo un gran che, ma andavo avanti. A diciassette anni già lavoravo, insegnavo in paesini sperduti, anch’io maestra. Ho avuto una vita semplice, persino opaca. Evidentemente avveniva tutto dentro di me. Riconosco che c’è qualcosa di misterioso anche per me stessa nel mio passato, qualcosa di dimenticato. Tutto quello che sono capace di ricordare è questa fame di libri. A diciotto anni avevo già un quadro completo della letteratura di tutto il mondo e non m’importava di nient’altro.

Nemmeno di avere un fidanzato le importava?

Questo meno del resto.

Ma scriveva? Aveva la consapevolezza di essere una scrittrice, si preparava alla sua arte futura con una serie di esercizi, come Virginia Woolf?

Scrivevo, sì, e tenevo nel cassetto. Mi sembrava naturale fare così. Non ero sotto questo punto di vista molto consapevole di me. Mia madre lo era, invece, credeva in ciò che scrivevo più di me stessa... Fu di botto, poi, che mi trovai in mezzo ai miti della letteratura italiana degli anni ’40 e ’50: la Manzini, la Banti, Moravia, Cecchi, la Morante. Festeggiavano me, me li trovai tutti intorno. Ma non mio stupì più di tanto; anche questo mi sembrò naturale.

Come avvenne questo capovolgimento di vita: l’oscura maestra di provincia che viene accolta da pari fra i più grossi intellettuali del momento?

Erano altri tempi, cose del genere succedevano ancora agli scrittori. Era il periodo successivo alla guerra, c’era nell’ambiente letterario una fraternità straordinaria; forse dopo una guerra è inevitabile che succeda così, si ha bisogno di un mondo pulito, fresco, onesto. Insomma io ero sprofondata in provincia, ignota a tutti ed anche a me stessa. Seppi che casa Bellonci  aveva indetto un premio per inediti (che è stato l’unico fra l’altro) e così mandai il manoscritto de Il fosso; ma non ci contavo molto. Concorrevano in tanti e io non avevo amicizie letterarie... Invece ho vinto ed ebbi come primo recensore Eugenio Montale. Fu un grosso lancio, che però non ho saputo sfruttare per niente.

Era molto diverso da oggi il salotto Bellonci?

Completamente. Una volta casa Bellonci era sul serio un salotto letterario. Io ricordo quei tempi addirittura con emozione. Oggi, quando vado per partecipare alle votazioni dello Strega, non mi trovo più a mio agio. C’è una gran confusione, non si fa letteratura, ma un servizio editoriale, un gioco di squadre. Vede, io a quell’imprevista consacrazione ero arrivata completamente matura, voglio dire non è stata casuale, eppure sono certa che oggi sarei passata inosservata.

Per quale motivo?

Perché oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere da solo, darsi d’attorno. Non vede? Autori e critici che una volta erano considerati seri, oggi non si vergognano di avallare sottoprodotti, ignorando le opere migliori. Perché lo facciano io non glielo so dire. Ma guardi il caso D’Arrigo. Uno scrittore eccezionale qual è Stefano D’Arrigo è stato distrutto dalla critica. E oggi chi ne parla? E’ troppo appartato e privo di potere per suscitare interesse. E’ stato divorato come la sua povera balena. Eppure è uno dei pochissimi veri, grandi narratori italiani. Ma del resto un mondo incrudelito come  quello di oggi non c’è mai stato, e di conseguenza una società letteraria così degradata non c’è mai stata. Fa impressione, è spaventosa la disonestà del mondo letterario attuale. Ma probabilmente è un processo naturale: gli intellettuali portano le cose all’estremo, proprio perché sono intelligentissimi. Se per esempio la maldicenza di una persona qualunque è solo cattiva, quella di una persona intelligente e che ha larga influenza sugli altri è corruttiva. Per questa situazione io non mi presento da tempo a nessun premio, tanto si sa da prima chi deve vincere. Ho preso i premi quando aveva ancora senso riceverli.

Il suo romanzo più famoso è L’adultera del 1964: Premio Selezione Campiello, varie traduzioni all’estero. Pensa che sia anche il suo miglior libro?

No, come accade sempre, i libri che hanno più successo non sono i migliori. E’ un romanzo più facile degli altri. Penso invece che il più importante, il più costruito sia L’imputata, che vinse il Viareggio nel ’60. Però quello a cui mi sento più vicina è l’ultimo, Le droghe, in cui ho raggiunto una prosa di una leggerezza e di una trasparenza che mi hanno reso molto soddisfatta. Purtroppo è stato un libro sfortunato. E’ uscito in un momento in cui alla Bompiani cambiava tutto il personale, la casa editrice era in crisi. Non ci fu lancio pubblicitario, l’ufficio stampa se n’è disinteressato. Non ha avuto nemmeno una recensione. Io non sono  il tipo che  va a seccare i critici perché si parli di me, né ho amici che  lo fanno spontaneamente.

Dal ’64 al ’74 ha taciuto completamente, non ha pubblicato nulla. Cosa è successo?

Ho avuto una nevrosi acutissima. Sopravvivevo con gli psicofarmaci. E’ stato un periodo orrendo, dovuto a superlavoro dopo un’esperienza ventennale come consulente del Tribunale Minorile. Me ne sono tirata fuori da me e con il sostegno di un amico, un noto psicoanalista, quel Perrotti che fu analista anche di Giuseppe Berto. Ma io non ho voluto fare nessuna analisi.

E l’amore? Che posto ha avuto nella sua vita?

Modesto. Mi sono salvata dalle spire della famiglia, del matrimonio, nonostante la mia educazione borghese. Gli uomini che conoscevo in provincia non mi piacevano mai del tutto, mi sembravano inferiori a me. Forse, fossi vissuta a Roma, fra gli intellettuali, sarei rimasta affascinata da qualcuno. Ma a Roma mi sono trasferita solo quindici anni fa. Troppo tardi. La letteratura si è presa tutto, è rimasto poco per il resto. Però non mi dispiace, anche se in cambio non ho avuto molto. Forse ho un solo rimpianto: quello di non aver voluto un figlio.

L’età l’ha resa diversa da quella che era?

No, per niente. Ero una tranquilla persona di provincia. Mi piaceva scrivere e basta. Oggi scrivo e basta. Sono rimasta una solitaria. Troppo solitaria.

Sandra Petrignani
da Le signore della scrittura, ed. La tartaruga, 1984

 
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Derive

Post n°35 pubblicato il 23 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 
Tag: Poesia

da: Incredulo canto solitario

7

Stavo con te solo per te e me

non per gli occhi dei tuoi

gli smeraldi tuoi sì

nella casina di Marilyn sul poggio

prima della stretta

nel lucifero cerchio

di parole amare sull'oggi

e sul passato langue l'amore

colore odore di consunte essenze.

Nel bosco delle sbandate domande

spirano venti quasi silenziosi

ma non sbendano le ferite.

In mezzo il presepio abbandonato

alla veemenza delle delusioni

in fuga le presenze, i presentimenti

per tutto sfinito dalla erosione

di parole prive di cuore fra i denti.

 
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All'amore il tempo

Post n°34 pubblicato il 22 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Dov'è quell'altrove di Rimbaud, secondo il quale "la vera vita è altrove"?
È forse in quel presentimento che scompiglia il fragile velo tra pensare e agire?
0 nell'ansia che ci coglie allorché ci accorgiamo di fuggire da un passato tappezzato di illusioni morte?
Nel suo ultimo romanzo (All'amore il tempo, Manni editore, Lecce 2007), Alfredo  Fiorani invita il lettore a un'operazione di straniamento lunga quanto il suo libro.
Semplice la trama.
Alfredo Rovermann finisce in un paese della Liguria di levante "dopo che il destino l'aveva morso nel cuore".
Qui si arrabatta a chiudere una ricerca su Sebastian Perez da Silva, pirata gentiluomo dei Settecento, in mare già a diciassette anni, nella cui biografia egli avverte qualche consonanza con la propria vicenda; ma soprattutto tenta di liberarsi dall'ossessione di Beatrice Bez, la giovane amante che l'ha "ragnato" in un'oscura, remota prigione con la sua ambigua condotta consumata nell'intrecciarsi continuo di slanci amorosi e disperanti tradimenti.
Intorno ad Alfredo ruota l'esiguo drappello di amici, ognuno dei quali, stipato da angusti orizzonti e trafitto, dal destino, cerca cocciutamente di rompere gli argini di quel percorso biografico che siamo condannati ad attraversare: un capitano in pensione che incontra una giovane amica, una locandiera da poco distaccatasi dal marito, qualche figurina minore sbozzata velocemente per arricchire il formicolio umano del piccolo centro ligure.
Tra sogni covati con voluttà, incubi mai tollerati e ironie subite senza rancore, questa umanità dolente è animata dal bisogno, prima ancora che dal desiderio, di rimarginare le lacerazioni inesorabilmente inflitte dalla vita a chi semplicemente esiste e, di conseguenza, il rosario di avventure e di pensieri che si snoda nel fatale fluire quotidiano di ogni personaggio mette a nudo, insieme, la condizione umana, con i suoi segreti oracoli, e l'ostinato affaccendarsi di chi vuole sfuggire alla condanna cui la nascita sembra destinarci o, detto con altra metafora, cerca la propria salute nel fondo della propria anima.
Lo scrittore racconta la faticosa sopravvivenza di Alfredo Rovermann e del corteo di personaggi che l'accompagnano; personaggi simili a sagome ritagliate su uno sfondo soltanto accennato ma sempre presente, il mare.
Il mare, regno del pirata Sebastian, non ha confini e la sua mappa è per cosi dire disegnata dal tempo. Di conseguenza, i personaggi di Fiorani occupano più uno spazio di durata che uno spazio geografico e, come appare del resto fin dal titolo, si presentano come una variegata e prolungata riflessione sulla memoria, spazio nel quale ogni vicenda si dipana proustianamente con il progressivo districarsi dei ricordi. Il lento affiorare alla consapevolezza, che scioglie o ammorbidisce i tormenti, è il luogo deputato dei romanzo che pertanto ha in sé, fin dalle prime pagine, il suo scioglimento, cioè la rivincita su una sconfitta amorosa grazie a un amore consapevole.
Aver subito i tormenti della passione che l'avventurosa relazione con Beatrice Bez gli ha imposto libera Alfredo dai lacci e dai limiti che il perenne conflitto dell'amante insicuro cova come un inavvertito cancro dell'anima e lo predispone alla nuova reazione con la locandiera Arianna con un'intensificazione affettuosa, anzi sentimentale, maturata grazie all'ordito dei malanni curati con la medicina dei tempo.
Alfredo Fiorani racconta con una tessitura di prosa che sovrappone e alterna senza alcuna soluzione due livelli di esperienza, fatti reali e non meno reali pensieri.
I pensieri rivelano una loro natura non dissimile da quella del sogno (o dell'incubo); i fatti acquistano le volubili iridescenze e la rapidità febbrile dei pensieri; e l'intero romanzo, quindi, costantemente pendolare tra sogno e ironia, è la metafora di un'emersione, non si sa se reale o fantastica ma in ogni caso vera, dall'oscurità alle ragioni del cuore, il passaggio dal buio della notte al crepuscolo dell'alba e alla luce del mattino. Storia, in fondo, di cose viventi che diventano, da simulacro della realtà, realtà accettata. E la prosa dei romanzo, con il suo corredo di immagini liriche o acri, con il suo ritmo che coinvolge l'orecchio e altri strati della sensibilità, con il suo progressivo rivelarsi sintomo dell'intreccio fra natura e storia, traveste i segni del tempo interiore dei protagonisti in un profondo, avvertito bisogno di sconfiggere l'irrazionale che è in noi.
Alla fine del racconto è lecito domandarsi dove o che cosa sia la vera vita.

Walter Tortoreto
in: La Voce dell'emigrante del 01/01/2008

http://www.concapeligna.it/rassegnastampa/vocemigr/home/
conca_rassegnastampa_vocemigrante_home.htm

 
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LA STORIA DELLE "TRE MARIE"

Post n°33 pubblicato il 22 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Cari lettori,

è curioso notare come la storia della letteratura italiana, molto spesso, si intreccia con la storia della buona tavola (del resto, la nostra fama, su entrambi i fronti, è mondiale).

E' così possibile rinvenire stralci di vita e costume, interessanti anche per il loro risvolto letterario, all'interno di pubblicazioni dedicate a tutt'altro genere di argomenti.

Mi è sembrato perciò degno di attenzione l'articolo a firma di Amedeo Esposito, pubblicato su Il Messaggero Abruzzo il 18 ottobre 2005, dedicato ala storia delle TRE MARIE (risotrante storico aquilano che, tra profumi e sapori, ha appeso alle pareti Picasso, Mirò e Fontana perché è anche centro culturale dove fanno tappa nobiltà, politici e artisti alla luce della vetrata policroma delle Tre Marie) che vi ripropongo senza manomissione alcuna (fatto salvo l'inserimento di fotografie prelevate dalla rete, per renderne più gradevole e fruibile la lettura).

In questo articolo, infatti, incontriamo Laudomia Bonanni nel suo tempo e fra la sua gente.

Da: Il Messaggero Abruzzo 18 e 19 ottobre 2005
LA STORIA DELLE "TRE MARIE"
di: Amedeo Esposito

La città umbertina, creata dopo l’Unità d’Italia, coinvolse anche i ristoratori Cancellieri, ai quali si chiese di aprire un ristorante nella rinnovata via delle Tre Marie.
Aprì così centodue anni fa (1903) la ”Trattoria Cancellieri”; che nel 1912 divenne ”Ristorante Tre Marie”.

Purtroppo, come è stato riportato su queste colonne, difficoltà insormontabili stanno determinando la chiusura dello storico locale.

Per Il Messaggero, Amedeo Esposito ripercorre, in sintesi, la storia di questo tempio della cultura culinaria, ma ancor più di quella artistica e letteraria che ivi richiamò re, scrittori, attori, musicisti, giornalisti fra i più grandi.

Maestro Silone nel suo ”La terra e le genti d’Abruzzo" lei annota che sua Nonna domandò: «Chi ti farà il pane?».
Come ha risolto la sgomentata richiesta della sua antenata?
«Questa sera, per esempio, come per quelle prossime, il pane me lo faranno le Tre Marie».

E’ la risposta data alla nostra domanda da Ignazio Silone   all’inizio di una contenuta intervista rilasciataci, seduti in uno dei tavoli delle Tre Marie, la sera del 2 novembre del lontano 1965.

Entro cui quella allora cominciò a discutere con Giacomo Colli sulla realizzazione della prima italiana di ”Ed egli si nascose”.

Quell’accogliente circolo culturale ha oggi centodue anni.
Principiò nel 1903, infatti, il cammino della ”Trattoria Cancellieri”, trasferitasi da via dell’Acconcio (ora via Patini), in via Tre Marie, nei locali ancora oggi occupati, realizzati, al fine del completamento della sistemazione architettonica del corso Vittorio Emanuele, alla conclusione dei lavori di costruzione della Cassa di Risparmio.
Per trasformarsi in ”Ristorante Tre Marie” 93 anni fa, nel 1912 ad iniziativa di Elena Cancellieri ed il marito Giuseppe Scipioni.
S’ebbe da allora la fusione dell’alta cucina, tutta abruzzese, con la cultura a qualunque livello, partendo dalla realizzazione, da parte di don Peppe Scipioni, pittore autodidatta, di una vetrata policroma, in mosaico di vetro soffiato e piombo, raffigurante le tre Marie: Cleofe, Maria Maddalena e Maria Vergine madre del Cristo.
Fu ed è questo l’emblema, il sigillo di un luogo che creò sempre (com’era intendimento di don Peppe) la carica emotiva perché la città vantasse uno scrigno prezioso sì, della culinaria, ma anche della cultura del Novecento.
Ebbe ragione in pieno.
Il suo cenacolo nel 1986, con decreto dei Ministero dei Beni Ambientali, fu denominato ”locale storico d’Italia” e «sottoposto a vincolo monumentale».
Insomma, entrò fra i locali da salvaguardare come patrimonio culturale ed artistico, alla stregua del ”Savini” di Milano, del ”Tommaseo” di Trieste, dell’”Harry’s Bar” di Venezia, del ”Quirinale” di Roma e del ”Gambrinus” di Napoli.
E comunque unico in Abruzzo.

Il secolo scorso, ”il secolo breve”, riservò all’Italia intera momenti di profonda crisi.
Sicché, ad esempio, quella che ci investì subito dopo la seconda guerra mondiale, impose a Giuseppe Scipioni sforzi sovrumani, sempre coadiuvato dalla consorte Elena Cancellieri (una dolcissima donna nel nostro ideale personaggio solare), mai però abbandonati dalle personalità culturali più in vista nel succedersi degli anni.
Il dopoguerra fu duro per tutti gli italiani, non meno che per le ”Tre Marie”.
Elena Cancellieri e Giuseppe Scipioni affrontarono quelle difficoltà giungendo alla ripresa con determinazione e con fantasia.

Nel ricordo dei precedenti personaggi che ”amarono” le Tre Marie, come    Emma Grammatica , Ettore Petrolini Alida Valli  etc. la ripresa ebbe una data ben precisa: 10 marzo 1962.

Quando Laudomia Bonanni  e Gian Gaspare Napoletano, due aquilani doc, riaprirono il ”cenacolo aquilano” alla cultura romana, attraverso - pensate!- una Panarda o cena dell’amicizia, composta di 36 portate.
Un trionfo culinario, senza dirlo, di Elena e Giuseppe Scipioni.
Che fece il giro della sale cinematografiche d’Italia perché ”la settimana Incom”, sempre su richiesta di Bonanni e Napolitano, ne fece riprese di grande effetto.
Non si ha un riferimento di quanti dei commensali giungessero alla fine della cena.
Moltissimi invece gli ”eroi” che si alzarono alle sei del mattino del 22 dicembre 1968 dai tavoli delle Tre Marie occupati alle 21 della sera precedente dai delegati (circa 50, riuniti per la Panarda da Errico Centofanti) delle 22 città (Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise) associate in seno all’Assemblea dell’Ente Autonomo Teatro Stabile dell’Aquila.

Fu dunque negli anni Cinquanta e Sessanta che le Tre Marie ripresero il loro cammino sull’onda dei grandi avvenimenti.

Giuseppe Ungaretti  ne fece proprio ”studio” nel 1962.

Don Peppe Scipioni volle sempre gelosamente altissimo il tono del suo circolo.
Aprì porte e finestre quando, nei primi del ’70, il violista Ivan Kuzmic 
suonò per i suoi ospiti un brano di Ivo Petric.

Non meno entusiasmo pose nel ricevere il cittadino onorario Arthur Rubinstein , già di casa per i numerosi precedenti suoi soggiorni aquilani.

E che dire di re, come Faruk , e regine?

La sera del 20 ottobre del 1966 don Peppe ricevette il re di Svezia Gustavo II , reduce dalla campagna di scavi ad Alba Fucens.
Il Sovrano, seduto sotto il ”pesco della sapienza” esaminava, durante la cena, i risultati delle sue scoperte archeologiche.

Ma quante le personalità che le ”Tre Marie” scelsero per deliziare il gusto e lo spirito?
Il loro elenco non avrebbe sufficiente spazio, pur comprendendo personaggi come De Sica
, Stockausen , Fellini , Proietti , e giornalisti italiani a stranieri fra i più noti, e chi più ne ha più ne metta.


Ai quali vanno aggiunti i poeti e letterati recenti, quali Sanguineti  e Adonis .
Il percorso del ”cenacolo aquilano” sembra che non possa continuare per le difficoltà denunciate da Paolo Scipioni il quale alla città, in nome dei genitori, può ben dire con D’annunzio: «Io ho quel che ho donato».

 
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Adam Leve

Post n°32 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 
Foto di alfredofiorani

INNANZITUTTO, il mio nome non è Adam Leve.
Questo per essere chiari ed onesti sin da subito. E sono italianissimo.
Si tratta dunque di uno pseudonimo di pura fantasia, sebbene, siccome mi piace giocare con le parole anche quando non appartengono alla mia lingua madre, ma allora lo faccio con molta minore padronanza, anche nel mio nome di battaglia c’è un piccolo tranello. Infatti, pensando e ripensando, m’era venuto in mente Adam Neave che, pronunciato all’inglese e tradotto in italiano, sarebbe diventato Adamo e Eva. Poi, però, ho controllato su Internet e ho scoperto che Adam Neave esiste già. Così, pensandoci ancora un po’, m’era venuto in mente Abel Kane che, anch’esso, pronunciato all’inglese e tradotto in italiano, sarebbe diventato Abele Caino. È evidente che, in tutto il mondo, non sono l’unico a farsi venire idee bizzarre in mente. Infatti, controllando ancora una volta su Internet, ho scoperto che anche Abel Kane esiste già. Così, ho ripiegato sulla mia idea originale che tanto m’era piaciuta e mi sono detto: Lasciamo da parte Eva. Adamo vive! Adam Leve, pronunciato all’inglese e tradotto in italiano, sta a significare proprio questo: Adamo vive.
Questa dovrebbe essere la prefazione dell’autore, che dovrebbe scriversi Autore sebbene a me piaccia molto di più Autore ma che, siccome chi si loda s’imbroda, insisto nello scrivere autore.
Ci si aspetta dunque che, in questa sede, io tenti di convincere l’improbabile lettore, Lettore o Lettore che dir si voglia, che vale la pena di tralasciare le altre e ben più importanti faccende in cui è affaccendato per starsene a leggere le cose di cui vado scrivendo. Invece no. Non ho nessuna intenzione di arrovellarmi in sermoni e lanciare anatemi, cosicché il lettore, ancorché improbabile, è lasciato in pace a far quel che più gli conviene.
Quel che voglio limitarmi a fare con lo spazio di queste poche pagine è dunque proporre alcune considerazioni preliminari alla lettura dei racconti di questa raccolta, che potrebbero tornare utili magari come chiave di lettura, sebbene anche in questo caso potrebbe trattarsi di un tranello: io metto a disposizione le chiavi, non le serrature. Bene, dopo quest’affermazione metafisica che lascio veleggiare, enigmatica e terribile, nell’atmosfera che fra il serio e il faceto vado creando, voglio chiarire perché ho dedicato un certo periodo di tempo della mia vita alla ricerca di uno pseudonimo, premesso che sul perché io abbia trascorso diverse ore imbrattando d’inchiostro dei fogli di carta come questo non saprei rispondere affatto.
Alfredo Fiorani, lui sì Autore, con il quale mi sto impegnando per fargli vincere l’impari lotta con l’uso del computer e delle nuove tecnologie ma che, nonostante tutto, mi degna ancora della sua amicizia, è una delle pochissime persone a cui ho fatto leggere le cose che avevo scritto, fra le quali, alcuni dei racconti di questa raccolta.
Sembrano scritti di un autore americano tradotti in italiano, mi disse a suo tempo.
Riflettendoci bene, aveva ragione.
Però, riflettendoci meglio, io non la metterei esattamente su questo piano o, più che altro, aggiungerei delle osservazioni.
Disponendo di una vasta possibilità di scelta fra i diversi livelli di linguaggio, avrei potuto optare per un taglio bizantino, ad esempio. Avrei potuto iniziare ogni periodo con espressioni come ordunque, farcire le frasi con degli acciocché, condirle con una spruzzatina di nondimeno. Oppure avrei potuto preferire un taglio giornalistico, coniugando insistentemente il solo passato prossimo. In entrambi i casi, avrei potuto autocensurarmi le parolacce. Insomma, per farla breve, avrei potuto scrivere in tanti modi, ma ho scelto di utilizzare il linguaggio del mio tempo. E il mio tempo si esprime grosso modo nazionalizzando la lingua inglese, questo è fuori di dubbio. Esiste una vasta letteratura in proposito ma, a prescindere, non accorgersene vuol dire avere i paraocchi o, meglio, il cerume nelle orecchie.
Il linguaggio è il segno dei tempi che cambiano. È una continua scoperta e riscoperta.
La vecchia cantina è diventata enoteca e quest’ultima, oggi, è un wine-bar. Ma con la parola sono cambiate anche le cose, le persone, la cultura, il vino.
Ai tempi di Guglielmo Marconi si pensava di costruire antenne altissime che fossero in grado di trasmettere e ricevere un segnale a lunga gittata, superando così la curvatura dell’orizzonte terrestre. L’evoluzione tecnologica ha dimostrato invece che basta potenziare i generatori del segnale in modo tale che sia l’atmosfera a fare il grosso del lavoro. Parimenti, ai tempi di San Francesco d’Assisi, un anonimo signore di Verona, gettò alle ortiche il latino, che era la lingua ufficiale, ancorché morente, e propose un indovinello che è sopravvissuto ai secoli soprattutto per il fatto di essere uno dei primi scritti in volgare.
L’evoluzione del linguaggio è sotto la freccetta del mouse di tutti, e non c’è bisogno di avere nozioni di fisica per rendersene conto.
Resta il fatto che Alfredo Fiorani ha perfettamente ragione. Allora mi sono detto: Perché no? Perché non andare fino in fondo?, e così mi sono deciso a mentire sul mio nome.
Se avessi dedicato il tempo trascorso nella scrittura ad altre attività quali, ad esempio, fare all’amore, lavorare, andare al cinema, fare sport o altre molte cose ancora, ora non mi troverei a discutere di come, quando e perché ho selezionato i racconti di questa raccolta. Se non avessi mai scritto dei racconti, avrei fatto qualcosa d’altro, questo è certo. Ma così è andata, e non è il caso di recriminare. Ciò non toglie che, quando e come ho potuto, ho fatto anche le altre cose, ovviamente. Ma si vede che non mi bastava.
Dunque, fatta la frittata, si tratta soltanto di decidersi a mangiarla o gettarla via. Che gusto c’è a starsene lì a veder marcire una frittata?
Anche in questo, c’è lo zampino di Alfredo Fiorani. E sì, perché chiacchierando a proposito di scrittura e scrittori davanti ad una pietanza iraniana a base di riso e spezie, della quale non so pronunciare il nome, figuriamoci scriverlo, e con il palato offeso dal sapore di sughero di un vino imbottigliato male e conservato peggio, retaggio dell’era della globalizzazione che induce a frequentare ristoranti esotici che preparano ricette esoteriche col solo scopo di farci rimpiangere il caro, amato e compianto piatto di bucatini all’amatriciana, ci imbarcammo una sera nella tortuosa strada che conduce ad interrogarsi sul perché della scrittura.
Considerando me stesso uno scrivente e non uno scrittore, e convinto, come ancora lo sono, che nulla è eterno, faccio fatica a pensare alla mia scrittura come all’elisir dell’eterna giovinezza. Vero è, tuttavia, che già il solo pensare di aver qualcosa da lasciare in eredità ai posteri è rasserenante, terapeutico. Dovendo scegliere, ho ritenuto che, tutto sommato, di questi scritti, piuttosto che farne carta straccia, sarebbe stato meglio farne il mio testamento spirituale, anche se non mi do per spacciato, facciamo ad intenderci. Dopotutto, in questi racconti, c’è riversata forse la parte più consistente di me: il mio pensiero. Si poteva fare di meglio, certo. Ma non è escluso che si possa ancora fare.
Un’ultima considerazione voglio farla in ordine ai criteri che ho adottato per la scelta dei racconti da includere in questa raccolta. E sì, perché una selezione l’ho dovuta fare. Ho dovuto dolorosamente escludere molte delle cose che in effetti ho scritto nel corso degli anni, posto che questi racconti provengono da un lavoro che si è andato sviluppando dal 1988 al 2001. Ho dunque conservato le sole cose che, secondo i miei personalissimi canoni, ancora oggi condivido, trovandole attuali, anzi, futuribili.
Per il resto, non ho altro da aggiungere, e temo persino di aver detto troppo. Non c’è nulla di peggio che spiegare una barzelletta alla quale non ha riso nessuno. Si finisce sempre con il peggiorare la situazione. Ugualmente, non si può raccontare un racconto che, autobiografico o meno, profondo o leggero, è sempre frutto dell’immaginazione e che, come tale, deve maturare sui rami della fantasia prima di marcire sulla terra dell’oblio.
Non me ne voglia Alfredo Fiorani per averlo tirato in ballo in un modo molto poco appropriato fra le righe di queste pagine, anche se sono convinto che egli sa perfettamente quanto gli sono riconoscente per queste e molte altre faccende che sono tutte il segno inconfondibile della rara sincerità della nostra amicizia.

Adam Leve
tratto dalla prefazione dell'autore
alla raccolta di racconti intitolata
Dell'amore della musica

 
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RINGRAZIAMENTI

Post n°31 pubblicato il 20 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Un sincero e doveroso ringraziamento a quanti ieri, sabato 20 gennaio 2008, sono intervenuti alla rappresentazione de "Il sonno di Amleto".

Magistrale l'interpretazione del personaggio di Amleto, resa dall'attore Bartolomeo Giusti con il pregevole fraseggio musicale del sax di Sandro Sereno.

Si ricorda che il testo del monologo può essere prelevato gratuitamente da questo blog, cliccando sull'apposito link della sezione a destra di questa pagina, intitolata

E-BOOKS GRATIS

e. comunque, dal sito web:

http://digilander.libero.it/alfredofiorani/

Per quanti non abbiano fatto in tempo a ricevere una copia con dedica dell'ultima fatica di Alfredo Fiorani All'amore il tempo (ieri, andate praticamente esaurite), si ricorda che è possibile acquistare il romanzo in qualsiasi libreria oppure, per i cybernaviganti, ordinandolo direttamente all'editore dal sito Internet:

http://www.mannieditori.it/

oppure, ancora, digitando su qualsiasi motore di ricerca "All'amore il tempo" ed utilizzando i circuiti di eBay, Internetbookshop, Unilibro, ecc.

In ogni caso, per qualsiasi ulteriore informazione, potrete contattare direttamente l'Autore su questo blog oppure scrivendo alla sua casella di posta elettronica:

alfiorani@virgilio.it

 
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COMUNICATO STAMPA

Post n°30 pubblicato il 19 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

OGGI, sabato 19/01/2008
Alle ore 18:00

Presso lo spazio teatrale IL LAVATOIO

Via dei Giardini n. 20/A, L’Aquila

BARTOLOMEO GIUSTI (VOCE RECITANTE)

SANDRO SERENO (ACCOMPAGNAMENTO MUSICALE)

Interpreteranno il monologo

Il sonno di Amleto

di Alfredo Fiorani

Nel vano tentativo di scrivere la propria biografia, si svelano i tormenti, i dubbi, le afflizioni di Amleto, il protagonista. Il senso di precarietà dell’uno è, in fondo, specchio della società contemporanea divisa tra le sirene del passato, le inconsistenze del presente e le oscurità del futuro.

Info e prenotazioni:

Tel. 0862-22183/3391373486

 
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27/01/2008 - Il Giorno della Memoria

Post n°29 pubblicato il 18 Gennaio 2008 da AdamLeve
 
Tag: Poesia

 

SE QUESTO E' UN UOMO

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case;
Voi che trovate tornando la sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce la pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì e per un no

Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno:

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole:
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli:
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri cari torcano il viso da voi.

Primo Levi

 
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Riflessioni di un canzoniere

Post n°28 pubblicato il 17 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 
Tag: Poesia

L’ULTIMO DESIDERIO DI ANNA FRANK
(Adam Leve)

Dolce Kitty

Un giorno ancora è passato

Ed io sono ancora sola qui

Chiusa in questa stanza

Vorrei sapere

Per quanto ancora

Dovrò aspettare

Prima di uscire

E ancora

Vorrei poter vedere

Negli occhi delle persone

Che mi inseguono

E che mi fanno fuggire

Dolce Kitty

Questo temporale fa paura

Ed io non ho più sogni qui

Ma sorda speranza

Vorrei che gli uomini

Potessero capire

Che anche se non ho più lacrime

Io non sono diversa

E ancora

Vorrei sorridere

E insomma vivere

In quel mondo che amo

E che muore al di là della mia finestra

Dolce Kitty

Questo diario tienilo per te

(c) Adam Leve (1986)

 
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DEDICARE UNA VIA A LAUDOMIA BONANNI

Post n°27 pubblicato il 16 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 
Foto di alfredofiorani

Lettera al sindaco Tempesta

Intitolare una via della città alla memoria di Laudomia Bonanni.

E’ la proposta che Anna Maria Giancarli e Alfredo Fiorani hanno spedito al sindaco dell’Aquila, Biagio Tempesta.

«In concomitanza con le imminenti celebrazioni del centenario della nascita della scrittrice aquilana (dicembre 1907 - dicembre 2007)» si legge nella lettera «si fanno promotori presso codesto comune dell'Aquila dell'intitolazione di una strada o piazza sul territorio comunale».
«Lo scopo» continua la nota «è che si possa decretare il tangibile ed imperituro riconoscimento ad una illustre concittadina, tentando di recuperare, seppure tardivamente, un'indifferenza che nessun altro Comune avrebbe così lungamente perpetrato nel tempo. Fidiamo nella sensibilità culturale e civica dell'organo deliberante per cancellare in via definitiva una pagina "grigia" dalle precedenti amministrazioni colpevolmente ignorata».

Succeduto il sindaco Cialente al sindaco Tempesta, la missiva è rimasta, nella sostanza, ugualmente inascoltata.

Infatti, la targa apposta al civico 75 di via Garibaldi il 9 dicembre 2007, pur ricordando alla cittadinanza la grande ed illustre scrittrice aquilana del Novecento che vi ha vissuto per decenni, resta un atto riparatorio piuttosto timido ed insufficiente, del quale non ci si può ritenere soddisfatti.

Rinnovo dunque l'invito all'Amministrazione insediatasi, affinché si interessi ed agisca concretamente per rendere alla Bonanni il giusto e doveroso riconoscimento, soprattutto alla luce dell'enorme rinnovato interesse che va manifestandosi intorno alla sua vicenda personale ed alle sue preziosissime ed irrinunciabili opere.

Invito i lettori di questo blog ad esprimersi, con opinioni, messaggi o commenti, sulla colpevole incapacità delle Amministrazioni pubbliche a preservare il patrimonio culturale e a diffonderne degnamente il vitale messaggio.

 
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COMUNICATO STAMPA

Post n°26 pubblicato il 15 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 

Presso lo spazio teatrale de IL LAVATOIO
Via dei Giardini n. 20/A, L’Aquila

Sabato 19 gennaio alle ore 18.00

BARTOLOMEO GIUSTI

(VOCE RECITANTE)

SANDRO SERENO

(ACCOMPAGNAMENTO MUSICALE)

Interpreteranno il monologo

Il sonno di Amleto

di Alfredo Fiorani.

Nel vano tentativo di scrivere la propria biografia, si svelano i tormenti, i dubbi, le afflizioni di Amleto, il protagonista. Il senso di precarietà dell’uno è, in fondo, specchio della società contemporanea divisa tra le sirene del passato, le inconsistenze del presente e le oscurità del futuro.

Info e prenotazioni:

Tel. 0862-22183/3391373486

 
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Italiana

Post n°25 pubblicato il 15 Gennaio 2008 da alfredofiorani
 
Foto di alfredofiorani

Laudomia Bonanni

Prima o poi qualche editore dovrà prendersi la briga di riscoprirla.
O forse si dovrebbe dire: di scoprirla.
Il destino di Laudomia Bonanni, infatti, è ingiustamente oscuro, vittima come fu di un cambiamento sociale a cui non ha saputo e voluto tener dietro.
Nata da una tranquilla famiglia borghese di provincia, ha un’infanzia serena e solitaria di cui ricorda soprattutto la fame di libri: legge sempre, anche a tavola, facendo arrabbiare suo padre.
A diciassette anni è già maestra, come la madre, e insegna in sperduti paesini abruzzesi.
È un’ammiratrice di Gabriele D’Annunzio, anche se «non ne capivo granché», come raccontò lei stessa.
D’Annunzio è più una passione di moda che un vero interesse.
E infatti la sua scrittura si sviluppa in tutt’altra direzione, molto distante dall’ornata retorica del ventennio fascista, alla ricerca inedita di personaggi marginali, visti dal basso: contadini, pastori, «faticanti».
La sua è una cultura onnivora e cosmopolita e l’esercizio della scrittura procede lento e segreto.
Per molti anni Laudomia scrive e nasconde in un cassetto, avendo come unico sostegno sua madre, che crede in lei e la spinge a spedire quattro racconti, raccolti sotto il titolo Il fosso, a un premio per inediti indetto a Roma dal gruppo di intellettuali romani che si riunivano in “casa Bellonci”: gli “Amici della Domenica” che dettero vita al Premio Strega.
Gente come Alberto Moravia, Gianna Manzini, Maria Bellonci, Elsa Morante, Anna Banti, Emilio Cecchi…
«Era il periodo successivo alla guerra» rievocò la stessa Bonanni «c’era nell’ambiente letterario una fraternità straordinaria; forse dopo una guerra è inevitabile che succeda così, si ha bisogno di un mondo pulito, fresco, onesto».
Sta di fatto che totalmente sconosciuta e senza amicizie letterarie, vince il premio.
Roma l’accoglie con calore e interesse.
Il libro esce nel 1948 salutato con entusiasmo, fra gli altri, da Eugenio Montale che in una recensione paragona la prosa della Bonanni a quella del Joyce di Gente di Dublino.
Anche se comincia a frequentare con emozione il salotto letterario di casa Bellonci, il suo carattere ombroso le impedisce di stringere amicizie profonde con gli altri intellettuali e di sfruttare socialmente il grande lancio che l’aveva vista protagonista.
Passano sei anni prima che un suo secondo libro, Palma e sorelle (ancora racconti, di straordinario radicale “femminismo”) veda la luce, edito da Bompiani.
Seguiranno L’imputata (premio Viareggio ’60), e L’adultera (premio Campiello ’64).
Da questo momento, per dieci anni, la vita di Laudomia Bonanni è devastata da una pesante crisi depressiva, in cui deve aver avuto un ruolo la morte della madre, ma su cui la scrittrice non ha voluto far chiarezza rifiutando qualsiasi cura psicoanalitica e affidandosi esclusivamente agli psicofarmaci.
Nel ’68, comunque, si trasferisce a Roma dove continua il lavoro di consulente del Tribunale Minorile, un’attività che mettendola a duro confronto con la violenza e la devianza giovanile ha influito sul suo già precario stato psichico.
Ma è proprio riflettendo sulla sofferenza personale e dei ragazzi che aveva avvicinato che ne viene fuori, nel ’74, con un libro-saggio, serio e intelligente, Vietato ai minori, e con i bei racconti di Città del tabacco (’77).
Il romanzo Il bambino di pietra, del ’79, è una coraggiosa critica della famiglia borghese, la scrittura è intanto diventata sempre più precisa e sintetica, ironica, aspra eppure leggera e cristallina fino alla trasparenza del suo ultimo lavoro, Le droghe, caduto, nell’82, nell’indifferenza di una società letteraria ormai radicalmente diversa da quella dei suoi esordi, una società nella quale la Bonanni non era fatta per navigare, né per accettarne neanche lontanamente le regole.
«Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere» ebbe a dire con amarezza.
E lei, austera e moralista fino all’intransigenza, rafforzata da una vita forse troppo isolata, non avrebbe saputo da che parte incominciare.
Morì dimenticata e solissima, anche se fino alla fine solida e serena, a Roma, nel 2002.
Ha lasciato tre romanzi inediti, scritti uno nel ’39, uno nel ’45 e uno nel 1984.

Sandra Petrignani

http://www.pariopportunita.gov.it/

 
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In libreria

All'amore il tempo
Romanzo

Manni Editore, San Cesario, 2007

Laudomia Bonanni.
Il solipsismo di genere femminile

Saggio
Edizioni Noubs, Chieti, 2007

 

Omaggio Video

Omaggio Video
a Laudomia Bonanni
da un'idea di
P. Tocci
direzione e montaggio di
C. Nannicola

http://www.archive.org./details/
ComeSeIlFioreNascesseDallaPietra

 

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