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Messaggi del 02/09/2020
Post n°3255 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
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Post n°3254 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet. Pomici e conchiglie: i Neanderthal sfruttavano le risorse marine Nel sito Neanderthal di Grotta dei Moscerini sono stati trovati utensili ricavati da bivalvi e pietre vulcaniche, pescati o raccolti sulla spiaggia. La gamma di strumenti utilizzata dall'Uomo di Neanderthal non si riduceva alla selce: comprendeva anche conchiglie e materiali trasportati dal mare. | SHUTTERSTOCK I Neanderthal si avventuravano anche sotto l'acqua, pur di ottenere strumenti appuntiti, taglienti e abrasivi. Uno studio archeologico compiuto presso uno dei più ricchi siti archeologici italiani frequentati da Neanderthal rivela un aspetto poco conosciuto degli antichi "cugini": la capacità di pescare non solo le risorse primarie per mangiare, ma anche il materiale più adatto per fabbricare gli utensili di uso quotidiano. La ricerca è stata pubblicata su PLOS ONE. I frammenti di conchiglia usati come utensili dai Neanderthal. | VILLA ET AL., 2020 PESCATORI PROVETTI. La capacità dei Neanderthal di sfruttare le risorse costiere è stata finora analizzata da un numero limitato di studi. Dati archeologici raccolti in Spagna, Francia e Italia suggeriscono che sapessero pescare molluschi marini e pesci d'acqua dolce, ma la nuova ricerca condotta nella Grotta dei Moscerini, una caverna aperta sulla spiaggia nei pressi di Gaeta (Latina) ed esplorata a partire dal 1949, indica che dal mare traevano anche materie prime per la fabbricazione di utensili, come conchiglie di fasolari (molluschi bivalvi che vivono nei fondali sabbiosi) e pietra pomice. La grotta è particolarmente ricca di conchiglie tagliate e levigate a mano risalenti al Medio Paleolitico (circa 100 mila anni fa), per la maggior parte provenienti da fasolari (Callista chione). Paola Villa, archeologa del Museo di Storia Naturale dell'Università del Colorado e dell'Istituto Italiano di Paleontologia Umana di Roma, ne ha analizzate 171: a giudicare dallo stato di conservazione del guscio e delle incrostazioni presenti su di esso, un quarto di esse sembra essere stato recuperato dirattamente dal fondo del mare, quando gli animali erano ancora vivi. Le conchiglie rimanenti sarebbero state, invece, raccolte sulla spiaggia, insieme alle pietre pomici trovate nella grotta in abbondanti depositi. Queste rocce di origine vulcanica, utilizzate come oggi per la loro capacità abrasiva, sarebbero arrivate via mare dopo eruzioni sull'Isola di Ischia o nei Campi Flegrei (la vasta area vulcanica nel Golfo di Pozzuoli). I bordi arrotondati delle pietre indicano che furono trasportate dalle correnti per circa 70 km, fino alla spiaggia alla base della Grotta dei Moscerini. IMMERSIONI MIRATE. Secondo gli archeologi, la scoperta prova che i Neanderthal nell'Europa occidentale erano in grado di guadare tratti di mare o immergersi nelle acque costiere con scopi ben precisi, per rac- cogliere risorse specifiche, anche prima che l'Homo sapiens portasse queste abitudini nella regione. La pratica è risultata più diffusa negli strati archeologici che presentano meno utensili in pietra: può darsi che i Neanderthal ricorressero alla pesca di bivalvi nei periodi in cui le rocce silicee scarseggiavano, oppure che cercassero appositamente le conchiglie per i loro bordi taglienti e affilati. |
Post n°3253 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Nuovi, bizzarri oggetti dell'UniversoNell'Universo, forse fuori dalla Via Lattea, a una distanza che non conosciamo, ci sono quattro oggetti mai classificati prima, chiamati Odd Radio Circles. Si pensava che tutti gli oggetti che si osservano nell'Universo con telescopi e radiotelescopi potessero rientrare in una delle classificazioni già note, ma recentemente è stato visto qualcosa che esula da ogni definizione a noi nota. Si tratta di quattro strani oggetti di forma circolare: tre di essi hanno bordi estremamente luminosi, e circondano il quarto, piuttosto opaco. La scoperta - al momento pubblicata solo su arXiv - è di un gruppo internazionale di astronomi guidato dall'astrofisico Ray Norris, della West Sydney University (Australia): i ricercatori hanno dato un nome a ciò che hanno visto, Odd Radio Circles (ORC), e bizzarri (odd) lo sono per davvero. «Le grandi strutture circolari», spiega Norris, «sono note ai radioastronomi: di solito si tratta di oggetti sferici prodotti da residui di supernove o nebulose planetarie - che è ciò che resta di un'esplosione stellare - o anche dischi protoplanetari, cioè sistemi solari in formazione.» I radioastronomi sono anche consapevoli del fatto che a volte tali strutture possono essere solamente "artefatti" che si formano attorno a fonti luminose, causati da errori di calibra- zione degli strumenti. In questo caso, però, i ricercatori hanno escluso ogni tipo di oggetto noto e qualunque possibile artefatto, e quindi avanzano l'ipotesi che possa trattarsi proprio di una nuova classe di oggetti astronomici. Gli ORC sono stati individuati per la prima volta verso la fine del 2019 nel corso del programma Pilot Survey dell'iniziativa di osservazioni radio EMU, Evolutionary Map of the Universe condotta dall'Australian Square Kilometer Array (SKA) Pathfinder, la rete di radiotelescopi forse più sensibile al mondo. I nuovi oggetti identificati dalla rete di radiotelescopi australiana: per gli scienziati si tratta di una classe di oggetti nuova, mai rilevata e classificata prima, e forse al di fuori della Via Lattea - a una distanza ignota. | RAY NORRIS ET ALL Inizialmente, come spiegazione più logica, si era pensato proprio a un artefatto nella ricezione, che poteva essere prodotto anche da interferenze di un semplice forno a microonde. Ma tutte le possibilità sono state messe a tacere quando si è scoperto che nei dati d'archivio raccolti nel 2013 con il radio- telescopio Giant MetreWave vi era un oggetto del tutto simile a quello trovato dai ricercatori dello SKA nel 2019. I quattro ORC identificati sono oggetti relativamente grandi (occupano uno spazio nel cielo che corrisponde a circa il 3% della Luna piena), ma non si è ancora potuto stabilire quanto lontani siano da noi, e questo è un fattore importante per definirne le caratteristiche; inoltre, ciò che li rende ancora più misteriosi è il fatto che sono completamente invisibili ai raggi X, alle radiazioni infrarosse e alle radiazioni nel visibile. Il gruppo di ricerca ipotizza che gli ORC si trovino al di fuori della Via Lattea e che possano essere il risultato di onde d'urto sferiche gigantesche causate da qualche evento catastrofico, ma nessuna ipotesi è al momento supportata da dati certi. |
Post n°3252 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Cambiamenti climatici: il global warming senza precedenti negli ultimi 2000 anni L'attuale evento di riscaldamento globale è il primo a interessare il mondo intero: in passato, l'aumento o la diminuzione naturali delle temperature furono di portata regionale, e mai così violenti. Scenari post apocalittici: benvenuti nell'Antropocene. | SHUTTERSTOCK La rapidità e l'estensione del global warming che conosciamo - cioè quello causato dalle attività antropiche dall'indomani della Rivoluzione Industriale ad oggi - non hanno precedenti negli ultimi due millenni di storia della Terra. Lo affermano tre diversi studi pubblicati su Nature e Nature Geoscience [qui e qui], che si sono lanciati in un'impresa monumentale: confrontare le caratteristiche dei più importanti eventi di riscaldamento o raffreddamento che, nel corso dei secoli, hanno interessato il nostro pianeta. A differenza dell'attuale periodo di riscaldamento globale, che ha una portata mondiale, i passati episodi di prolungato aumento o calo delle temperature avvennero soltanto in alcune regioni di Terra, e mai in modo tanto repentino come negli ultimi decenni. Sotto queste asserzioni crolla uno degli argomenti preferiti dai negazionisti del clima: quello che vuole che il global warming attuale non sia che una delle tante e naturali oscillazioni climatiche del nostro pianeta. 13 giugno 2019: i ricercatori del Danish Meteorological Institute cercano di recuperare la strumentazione scientifica sul ghiaccio marino della Groenlandia, ormai ridotto a pozzanghera. | STEFFEN M OLSEN/TWITTER PRECEDENTI DIVERSI. Nella storia climatica della Terra emergono alcune fasi di anomalie di temperatura, come il "Periodo caldo romano", tra il 250 e il 400 d.C., o la Piccola Era Glaciale, che comportò in più parti del pianeta un ribasso delle temperature a partire dal 1300. A lungo si è pensato che questi eventi avessero avuto una portata globale, e che analizzando gli anelli di un albero o una carota di ghiaccio di qualunque parte del mondo se ne sarebbe trovato riscontro. Non è proprio così. PROVE A CONFRONTO. Gli scienziati hanno studiato circa 700 reperti che conservano una memoria climatica raccolti in ogni continente ed oceano, dagli anelli degli alberi ai coralli, ai sedimenti dei laghi, e si sono accorti che nessuno dei passati eventi di rialzo o calo delle temperatura ebbe una portata globale. Per esempio, la Piccola Era Glaciale colpì più duramente il Pacifico nel 15esimo secolo, e l'Europa nel 17esimo. Al contrario, per il 98% della Terra (fatta eccezione per l'Antartide), le più alte temperature degli ultimi due millenni si sono registrate negli ultimi anni. DAL MAGMA ALL'UOMO. Prima dell'Era industriale, le più importanti fonti di variabilità climatica erano le eruzioni vulcaniche, e non l'attività solare come spesso ipotizzato. Tuttavia, la rapidità di innalzamento delle temperature registrata negli ultimi due decenni o poco più sorpassa ogni possibile variabilità naturale delle temperature: è un evento straordinario, nell'accezione più negativa del termine. Lo studio non si concentra sulle cause dell'attuale global warming che però sappiamo essere da ricercare nelle attività antropiche: un fatto ormai accettato dal 97% o più della comunità scientifica |
Post n°3251 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Il calore del mantello gonfiò e fratturò la crosta primordiale, creando le placche che con la tettonica avrebbero dato vita a terremoti e vulcani, e plasmato la superficie della Terra. Illustrazione: le fratture della crosta primordiale della Terra hanno avviato la tettonica delle zolle? | La tettonica delle zolle (o delle placche) è una teoria ormai consolidata, sulla quale da oltre 50 anni concorda la maggior parte degli scienziati: è il modello di dinamica della Terra che vuole che da miliardi di anni (da 3,3 a 4,4, a seconda delle ipotesi che ruotano atorno alla teoria) la litosfera - ossia la parte più esterna della Terra, composta dalla crosta e dal mantello superiore solido - sia suddivisa in una ventina circa di placche, tra grandi e piccole, che si muovono le une rispetto alle altre dando origine a vulcani e terremoti, e plasmano il pianeta creando continenti, catene montuose, oceani. Al di là delle molte questioni da risolvere su ciò che tiene in movimento le placche, c'è una domanda a monte di tutte le altre: com'è nata la tettonica? Che cosa l'ha innescata? Tante sono le ipotesi fin qui avanzate, ma nessuna che sia riuscita a resistere a tutte le obiezioni, almeno finora, perché un gruppo internazionale di ricercatori ha avanzato un'ipotesi (ora pubblicata su Nature Communications) che, sulla carta, risponde a molte domande. TUTTO IN 5 MILIONI DI ANNI. Il gruppo di lavoro coordinato da Chun'an Tang (China University of Geosciences) ha presentato un modello che vuole che la litosfera primordiale venne surriscaldata dal mantello caldo sottostante, e ciò causò un'espansione del guscio che portò poi a numerose fratture che in seguito si unirono tra loro suddividendo la litosfera nelle placche che conosciamo oggi. È un'ipotesi che ricorda l'idea della Terra in espansione, proposta a fine '800 dallo scienziato italiano Roberto Mantovani: egli sosteneva che il Pianeta era in continua espansione, grazie all'attività vulcanica. Un'ipotesi minata pochi anni dopo dalla teoria della deriva dei continenti Alfred Wegener, 1912) e definitivamente messa da parte dall'evoluzione di quest'ultima nella tettonica delle placche, che spiegava anche perché la Terra non si espandeva all'infinito. La nuova ipotesi in effetti sostiene che un'espansione ci fu, ma per non più di un chilometro (il raggio della Terra è di 6.371 chilometri) dopo di che iniziò a frantumarsi: i modelli utilizzati per lo studio mostrano che le fratture impiegarono 5 milioni di anni per ricongiungersi e formare le prime placche della Terra. Un'ipotesi affascinante, che ha purtroppo l'unico, piccolo difetto di non essere verificabile: la tettonica delle placche stessa ha cancellato quasi totalmente quel che avvenne sulla Terra dei primordi. |
Post n°3250 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Né asteroidi né comete portatrici d'acqua: l'acqua del nostro pianeta potrebbe essersi formata dalla materia organica presente in abbondanza nella nube interstellare che diede origine al Sistema Solare. La storia e le caratteristiche del nostro Pianeta nascondono diversi misteri: tra questi, la domanda sull'origine dell'acqua, ancora senza una risposta definitiva. Da dove è arrivata l'acqua sulla Terra? Per anni si è pensato che fosse stata portata per lo più da comete, ricche di ghiaccio d'acqua, arrivate dalle regioni più remote del Sistema Solare nel corso di eventi come il cosiddetto bombardamento tardivo. Un'ipotesi non del tutto accantonata, oggi, ma che ha perso posizioni da quando è stato possibile effettuare l'analisi del rapporto tra isotopi dell'idrogeno sulle comete, che abbiamo scoperto essere molto diverso da quello dell'idrogeno delle molecole d'acqua terrestre. Neppure gli asteroidi sono rimasti in cima alla lista dei portatori d'acqua: non avrebbero potuto portarne in quantità sufficiente a giustificare tutta l'acqua del Pianeta. Altre ipotesi? Sì, ma nessuna esauriente. «Finora abbiamo rivolto scarsa attenzione alla materia organica, nonostante la sua abbondanza nello Spazio attorno alla Terra ai primordi della formazione del Sistema Solare», afferma Akira Kouchi (Università di Hokkaido, Giappone), giunta ad un'interessante conclusione studiando la materia organica interplanetaria. Uno studio condotto da esperti di diverse università giapponesi (pubblicato su Scientific Reports) dimostra che riscaldando la materia organica a elevate temperature si ottengono qrandi quantità di acqua e oli. Questo suggerisce che comete e asteroidi potrebbero avere avuto un ruolo marginale nel riempire il Pianeta di acqua, che potrebbe invece essersi formata dall'interazione tra il materiale organico in caduta e il nostro rovente pianeta primordiale. In laboratorio funziona: in speciali celle, partendo da una miscela di composti organici simile a quella che doveva esserci in abbondanza attorno al nostro neonato pianeta nel Sistema Solare primitivo e agendo su radiazioni UV, pressione e temperatura si ottiene pioggia d'acqua e, a circa 400 °C, anche un olio nero e denso che ha le stesse caratteristiche del petrolio (che sulla Terra potrebbe perciò essere più abbondante di ciò che si crede). L'acqua sul nostro pianeta potrebbe dunque essersi originata da condizioni del genere, del tutto verosimili, accreditando un'ipotesi di alcuni anni fa che dipingeva la Terra primordiale come 14 LUGLIO 2020 | LUIGI BIGNAMI |
Post n°3249 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall' Internet In Israele è stata fatta una scoperta sensazionale Una chiesa di 1.300 anni fa è stata scoperta nel villaggio di Kfar Kama, vicino al Monte Tabor Per 1300, chissà quante persone ci sono passate accanto e, quando poi hanno costruito la strada, chissà quante auto... Eppure, proprio a due passi dal ciglio di quella strada si nascondeva un vero e proprio tesoro. Una chiesa di 1.300 anni fa è stata scoperta nel villaggio di Kfar Kama, in Galilea, vicino al Monte Tabor, quell'"alto monte" sul quale, secondo i Vangeli, avvenne la trasfigurazione di Gesù. Questo eccezionale ritrovamento è avvenuto in modo del tutto casuale, durante gli scavi effettuati dalla Israel Antiquity Authority, sotto la guida della dottoressa Nurit Feig, in collaborazione con il Kinneret Academic College, diretto da Moti Aviram per i lavori ri realizzazione di un parco giochi. Secondo la dottoressa Feig, "La chiesa, che misura 12 × 36 metri, comprende un ampio cortile, un foyer in nartece e una sala centrale. Particolare di questa chiesa è l'esistenza di tre absidi (nicchie di preghiera), mentre la maggior parte delle chiese della medesima epoca erano caratterizzate da un'unica abside. La navata centrale e le navate laterali erano pavimentate con mosaici parzialmente ritrovati. La loro decorazione colorata si distingue dall'incorporare motivi geometrici e motivi floreali blu, neri e rossi. Una scoperta speciale è stata quella relativa al piccolo reliquiario, una scatola di pietra usata per conservare le reliquie sacre". Un'ulteriore serie di ambienti adiacenti alla chiesa è stata parzialmente portata alla luce. Secondo un'ispezione radar a penetrazione effettuata nel terreno, ci sarebbero delle stanze aggiuntive nel sito ancora da scavare. All'inizio degli Anni '60, una chiesa più piccola con due cappelle fu scavata all'interno del villaggio di Kfar Kama e fu datata, dai ritrovamenti, alla prima metà del VI secolo d.C. Secondo il Prof. Moti Aviam, "questa era probabilmente la chiesa del villaggio", mentre la chiesa ora scoperta era probabilmente parte di un monastero contemporaneo alla periferia del villaggio. La nuova scoperta allude all'apparente importanza del villaggio cristiano insediato in epoca bizantina a ridosso del monte Tabor, un sito di grande importanza religiosa per la cristianità. Nel 1876, quando la tribù Circassa Shapsug si stabilì per la prima volta a Kfar Kama, usò le pietre dell'antico villaggio per costruire le case. La scoperta della chiesa a Kfar Kama contribuirà al vasto progetto di ricerca sull'insediamento cristiano in Galilea che viene condotto dal Prof. Moti Aviam e dal Dr. Jacob Ashkenazi del Kinneret Institute of Galilean Archaeology nel Kinneret Academic College. Già negli Anni '60 erano state ritrovate alcune tombe risalenti al IV secolo. Secondo gli archeologi, il piccolo villaggio di Kfar Kama è molto più importante di quanto non appaia oggi: si tratterebbe, infatti, dell'antica città di Helenopolis, fondata niente meno che da Costantino durante l'Impero bizantino e intitolata alla madre Elena. L'antichissima regione della Galilea, nel Nord di Israele, si snoda intorno al lago che della regione stessa porta il nome. È caratterizza da un paesaggio verde e ricco di vegetazione, perfetta per ogni tipologia di turismo, da quello spirituale alle attività outdoor fino alla scoperta di inediti siti archeologici, e quindi ricchissima di storia e di tradizione |
Post n°3248 pubblicato il 02 Settembre 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Archeologia > News > Dettaglio News23 GIUGNO 2019ARCHEOLOGIAdi Amanda Ronzoni http://www.nationalgeographic.it La battaglia navale tra Greci, Etruschi e Cartaginesi che cambiò la storia. Al Museo Civico Archeologico Falchi di Vetulonia, fino al 3 novembre 2019, una mostra sullo scontro navale di Alalìa, il primo storicamente documentato, che decise le sorti del Mediterraneo nel 540 a.C. Al Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi di Vetulonia, un allestimento suggestivo e più di 150 reperti di rilievo scientifico e artistico raccontano uno degli eventi antichi più importanti nella storia del Mare Nostrum, che decise le sorti delle due isole tirreniche di Kyrnos (Corsica) e Sardò (Sardegna). Anno 545 a.C.: nel Mediterraneo arrivano i greci Focei in fuga dall'avanzata persiana. Abbandonata la loro città, Focea (oggi la turca Foça), dalla costa occidentale dell'Anatolia si trasferirono in massa ad Alalìa, in Corsica (l'odierna Aleria), dove esisteva un insediamento foceo già dal 565 a.C.. Il loro arrivo in massa turbò l'assetto geopolitico dell'intera regione mediterranea, interferendo con lo status quo di scambi commerciali ed aree di influenza riconosciute, tra Fenici, Greci ed Etruschi, dove Corsi e Sardi giocarono la loro parte. Per preservare la propria egemonia sul Tirreno, gli Etruschi si allearono ai Fenici e, nel 540 a.C., ingaggiarono contro i Focei una delle più grandi battaglie navali dell'antichità. 180 navi (pentecontère) si affrontarono nel tratto di mare antistante la città di Alalìa. Fu uno scontro durissimo. Così lo racconta Erodoto parlando della "battaglia del Mar Sardo": "I Focei allora, equipaggiate anch'essi le loro navi che erano in numero di 60, andarono loro incontro nel mare detto di Sardegna. Scontratisi in battaglia navale, i Focei ottennero una vittoria cadmea, poiché quaranta loro navi furono distrutte, e le rimanenti venti erano inservibili, con i rostri spezzati". L'esito fu incerto (di qui la definizione di vittoria cadmea), le perdite ingenti da entrambe le parti: si sa che i prigionieri greci finirono lapidati e che nel 535 a.C. i Focei abbandonarono Alalìa, diretti verso Reggio, risalirono le coste campane e fondarono Velia, a sud di Paestum. Per una cinquantina di anni, il Tirreno tornò ad essere un "lago etrusco", gli scambi con i Corsi sempre più attivi, i legami culturali sempre più saldi, come testimoniano i numerosi reperti in mostra a Vetulonia. Gli oggetti esposti ci parlano di queste vicende storiche e del dialogo interculturale tra questi popoli e di un progetto scientifico che ha unito per l'occasione nei prestiti il Museo di Aleria, l'Antiquarium Arborense di Oristano e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Sassari e Nuoro, il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, per quanto concerne la Toscana, il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma, e il Nucleo Tutela del Patrimonio Archeologico della GdF di Roma, con una selezione di reperti sequestrati. Simbolo della mostra e reperto di altissimo valore artistico, oltre che scientifico, è il prezioso dinos (vaso utilizzato in Grecia prevalentemente per mescolare l'acqua al vino) attico frammentato (foto sopra), in prestito dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, La mostra è stata curata da Simona Rafanelli, nel quadro del primo grande progetto internazionale di valorizzazione della Corsica (Programma Collettivo di Ricerca su Aleria e i suoi territori ) curato dal prof. Vincent Jolivet e dal prof. Jean Castela. Dopo Vetulonia, la mostra sarà nel 2020 ad Aleria e nel 2021 a Cartagine. |
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