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« 'La belle Hélène' e altro.Nihil est in intellectu.... »

Mille. Altri racconti di Voltaire.

Post n°1095 pubblicato il 14 Settembre 2021 da giuliosforza

1002  

   Faccio solo ora caso d’aver superato di questo diario il messaggio (leggi post) fatidico numero Mille. Non temo cataclismi e apocalissi. Tutto sarà come prima, giornate di sole e giornate di tempesta si alterneranno come sempre secondo un moto circolare e non rettilineo, eterni Ritorni vichiani, nicciano Ewiger Wiederkehr des Gleichen, dall’atteggiamento nei confronti del quale, epimeteica rassegnazione o prometeico attivo Amor Fati (che sottintende Volontà di Potenza) si riconosceranno uomo o Superuomo.

E io rinascerò

cervo a primavera
oppure diverrò
gabbiano da scogliera
…, come canta il Menestrello.
*

   Tornando al teista, non deista (merito o limite, o contraddizione?) Voltaire.

   Dopo Il Candide (che ho saltato per averne a fondo trattato molti anni or sono nella curatela di una edizione scolastica), mi son ridedicato a L’ingenuo, a La Principessa di Babilonia, a L’uomo dai quaranta scudi, a Le lettere di Amabed etc., i più lunghi e significativi tra i racconti, i più ricchi di spirito ‘voltairiano’. In tutte le piacevoli narrazioni, colme di dottrina, di sagacia e di ironia, il filosofo ha modo di far visitare ai suoi protagonisti, fra mille peripezie, i paesi dell’occidente, ove possono costatare il ritardo civile e culturale in confronto ai loro paesi d’origine, un Oriente la cui plurimillenaria Civiltà il barbaro imperialista minaccia coi suoi oscurantismi e i suoi dogmatismi, esportando “monaci, mercanti birboni e assassini”. “Possa l’eterno Birmah trarvi fuor dalle mani del monaco ‘Fa tutto’.

   Il monaco Fa tutto è il domenicano inquisitore che con un gesuita e un francescano completa il trio dei prevaricatori. L’ex allievo dei gesuiti Voltaire non è con essi tenero.

   Nel corso delle sue peregrinazioni Amazano, il semplice pastore scita innamorato folle, follemente ricambiato, della principessa Formosanta di Babilonia, dalla quale fugge, rincorso, per un suo presunto bacio al pretendente re d’Egitto, approda anche nella terra di Saturno. Ed ecco quel che succede (pp. 332-335)

   Finalmente le onde gialle del Tevere, impestate paludi, abitatori macilenti, scarni e radi, coperti da vecchi mantelli bucati attraverso i quali appariva la pelle arida e gialloscura, si offrirono ai suoi occhi, annunciandogli ch’eli era alle porte della città delle sette montagne, città di eroi e di legislatori che avevano conquistata e civilizzata grande parte del globo.

   S’era immaginato di vedere sulla porta trionfale cinquecento battaglioni comandati da eroi, e in senato un’assemblea di semidei intenti a dar leggi alla terra: come forze armate trovò una trentina di barbaccioni, che montavan di guardia coll’ombrello per paura del sole. Inoltratosi fino a un tempio, che gli parve bellissimo ma non quanto quello di Babilonia, si stupì alquanto a udire una musica eseguita da uomini dalla voce femminile.

   «Buffo paese» disse «questa antica terra di Saturno. Ho visto una città dove nessuno aveva il suo viso proprio; eccone un’altra, dove gli uomini non hanno né la voce né la barba loro». Gli fu detto che quei cantori non erano più uomini, essendo stati spogliati della loro virilità, perché cantassero più gradevolmente le lodi di una prodigiosa quantità di persone meritevoli. Amazano non capì nulle di questo discorso. Quei signori lo pregarono che cantasse, ed egli cantò con la sua grazia consueta un’aria gangaride, con bellissima voce di contralto. «Ha monsignor», gli dissero, «che incantevole soprano sareste! Ah, se…» «Come, se? Che cosa pretendete di dire?» «Ah monsignor» «Dunque?» «Se non avesse la barba!» Allora gli spiegarono molto piacevolmente e con gesti, secondo il costume loro, comicissimi, di che si trattasse. Amazon ci rimase molto confuso, e disse: «Ho viaggiato, e mai intesi discorrere in tal fantasia».

   Quando ebbero ben cantato, il Vecchio delle sette montagne andò in gran corteo sulla porta del tempio, tagliò l’aria in quattro col pollice alto e due dita stese, e le altre due piegate, dicendo, in una lkingua che non si parlava più, le seguenti parole: Alla città e all’universo. Il gangaride non riusciva a comprendere che due dita potessero arrivare così lontano.

   Vide poco dopo sfilare tutta la corte del padrone del mondo composta di gravi personaggi, quali in vesti rosse, quali in vesti viola. Quasi tutti facevano gli occhi dolci al bell’Amazano, e gli s’inchinavano dicendosi l’un l’altro: San Martino, che bel ragazzo! San Pancratio, che bel fanciullo!

   Gli ardenti, che facevano il mestiere di mostrare ai forestieri le curiosità della città, si dieder premura di fargli vedere delle rovine, nelle quali non vorrebbe passar la notte un mulattiere, degni monumenti, in altri tempi della grandezza di un popolo re. Inoltre vide dei quadri di duecento anni e delle statue di più che venti secoli, che gli parvero capolavori. «Ne fate ancora di tali opere?» «No, Eccellenza» gli rispose uno degli ardenti «ma abbiamo in dispregio la terra rimanente, perché conserviamo questa rarità. Siamo, come a dire, rigattieri, che cavano la loro gloria dagli abiti rimasti nei magazzini».

   Amazano volle vedere il palazzo del principe. Condotto là, vide uomini vestiti di viola contare il denaro dell’entrate pubbliche: tanto da una terra posta sul Danubio, tanto da un’altra sulla Loira, o sul Guadalquivir, o sulla Vistola. «Oh, oh!» disse Amazano dopo aver consultato la carta geografica «dunque il vostro padrone possiede tutta Europa, come gli antichi eroi delle sette montagne?» Ha da possedere l’Universo intiero per diritto divino» gli rispose uno di quei vestiti di viola «e anzi ci fu tempo che i suoi predecessori s’accostarono alla monarchia universale; ma i loro successori hanno la bontà di accontentarsi oggi di qualche somma, che i re sottoposti fan loro riscuotere sotto forma di tributo».

   «Dunque il vostro padrone è effettivamente re dei re, e questo è il suo titolo?» «No, Eccellenza, il suo titolo è servo dei servi. Nella sua origine egli è pescivendolo e portinaio, onde gli emblemi della sua dignità sono le chiavi e le reti; ma dà ordini a tutti i re, sempre. Mandò, non è gran tempo, cento e un comandi a un re del paese dei celti, e il re obbedì».

   «Il vostro pescivendolo» disse Amazano «mandò dunque cinque o seicentomila uomini per far eseguire le sue cent’una volontà?»

   «Per niente, Eccellenza. Il nostro santo signore non ha ricchezze da stipendiare diecimila soldati, ma da quattro a cinquecentomila profeti divini, distribuiti negli altri paesi. Questi profeti d’ogni colore sono ragionevolmente nutriti a spese dei popoli. Annunciano da parte del cielo che il mio padrone colle sue chiavi può aprire e chiudere ogni serratura, e specialmente quelle delle casseforti. Un prete normanno che aveva presso il re di cui vi parlo carica di confidente dei suoi pensieri, lo persuase di dover obbedire senza replica ai cent’un pensieri del mio signore. Dovete saper infatti che una prerogativa del Vecchio delle sette montagne è quella di aver sempre ragione, sia che si degni di parlare, sia che si degni di scrivere».

   «Cospetto!» disse Amazano. «Ecco un uomo strano! Sarei curioso di pranzar con lui». «Eccellenza, foste anche re, non potreste mangiare alla sua tavola. Tutt’al più potrebbe farvene apparecchiare una più piccola e più bassa della sua accanto a lui. Ma se volete avere l’onore di parlargli, chiederò udienza per voi, mediante la buona mancia, che avrete la bontà di darmi». «Ben volentieri» disse il gangaride. Quello vestito di viola s’inchinò. «Vi introdurrò domani» disse. «Fate tre genuflessioni e baciate il piede del Vecchio delle montagne». Udendo questo, Amazano scoppiò così prodigiosamente a ridere, che poco non soffocò. Uscì tenendosi la pancia, e rise da lacrimare per tutta la strada, fino all’osteria, dove rise ancora per un pezzo.

   Durante il pranzo vennero dodici uomini sbarbati e venti violinisti a dargli un concerto. Per tutto il resto della giornata fu corteggiato dai più importanti signori della città, che gli fecero proposte anche più strane di quella di baciare i piedi al Vecchio delle sette montagne. Siccome era quanto mai garbato, credette sulle prime che quei signori lo scambiassero per una signora. Li fece avvisati del loro sbaglio con la più onesta circospezione. Ma trovandosi stretto un po’ vivacemente da due o tre di questi vestiti di viola, più decisi che gli altri, li buttò dalla finestra, senza che gli paresse di fare un gran sacrificio alla bella Formosanta. Abbandonò più presto che poté quella città dei padroni del mondo, dove bisognava baciare l’alluce di un vecchio, quasi avesse le guance nei piedi, e dove si accostavano i giovanotti soltanto con cerimonie ancor più bizzarre”.

   Mi sono molto divertito nel trascrivere questo lungo brano che dà un’ottima idea del tono della satira voltairiana. Purtroppo la traduzione è meno brillante e precisa di quello che da un come Bacchelli ci si sarebbe potuto attendere. Ma basta a darci un’idea delle ‘bizzarrie’, delle stranezze, delle goffaggini cerimoniali che ancora accompagnano lo stile ed i riti vaticaneschi, dai quali nemmeno un Bergoglio riesce a liberarsi (ma come può se non si libera dei dogmi per molti di noi esilaranti che ancora definiscono la sua natura e il suo ruolo nel mondo?).

 _________________

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 
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