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Della mia iniziazione alla musica e d'altro

Post n°995 pubblicato il 24 Novembre 2018 da giuliosforza

 

Post 916

Scrivo queste note il giorno di Santa Cecilia, patrona della musica e dei musicisti. E ai miei primi ricordi musicali voglio oggi in buona parte dedicarle.

Non ho mai capito perché la nobile Cecilia sia stata proclamata protettrice della Musica e dei musicisti. E' scritto di Lei: Cantantibus organis, Cecilia soli Domino decantabat dicens: fiat cor meum immacolatum, ut non confundar, che quasi alla lettera traduco: "Mentre tutti gli strumenti suonavano, Cecilia inneggiava al solo Signore dicendo: diventi immacolato il mio cuore, perché io non venga confusa". Confusa da chi e da che? Da Frau Musika forse e dal suo potere d'incanto? Non protettrice dei musicisti ma dei musicofobi, la direi! Comunque auguri a tutti i musicisti, musicofili e musicomani (e tra questi ultimi a me) ma non ai musicologi, e non chiedetemi perché: forse perché la maggior parte di essi rappresenta quella critica che Elias Canetti dice felicemente "vendetta dell'intelligenza sterile nei confronti dell'arte creatrice"...

*

Mi sono spesso chiesto donde mi derivi, oltre che da una fortunosa innata passione, la musicofilia, anzi musicomania, che mi si riconosce. E scavando nella memoria più di un ricordo è emerso. Eccone qualcuno.

Ho più volte fatto cenno, in queste pagine, alla figura di zio A. il quarto dei sette fratelli P., mia madre compresa. Lo ho ricordato perché figura caratteristica tra i maschi (ma caratteristico ognuno fu a suo modo: basti pensare che, per limitarmi all’aspetto politico, uno, A. appunto, fu anarchico, uno, Al. socialista, uno, U. il più anziano, comunista, uno, R., il più giovane, fascista sansepolcrista, al cui programma -«Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente»- restò sempre fedele, pagando di persona, già all’epoca della fronda interna bottaiana, il suo coerente impegno). Appartenevano ad una famiglia di possidenti di un discreto patrimonio terriero e di numeroso bestiame messo insieme dal padre ex carabiniere, originario,  ma la quaestio è vexata, di Toscana o di Calabria.  U. e R. ben presto presero il volo, l’uno per le ferrovie  (fu macchinista  del primo treno della Libia conquistata), per l’Arma l’altro. A. e Al. restarono al borgo ad amministrare chi il bestiame, il negozio e la macelleria, chi i numerosi campi. Due cose in particolare debbo allo zio A., e per questo qui lo ricordo: avermi fatto, nel bene e nel male, da padre severo in assenza del mio, impegnato nelle varie guerre (Africa e seconda guerra mondiale, dopo essersi fatto sei anni nella prima come caporal maggiore del Genio pontieri nelle campagne d’Italia e di Francia); e avere, a sua insaputa, risvegliato e alimentato la mia innata passione musicale. Egli suonava discretamente ad orecchio, nelle poche ore libere, su di  un vecchio organetto, fratello povero delle fisarmoniche, arie popolari; e ascoltava brani d’opera da un  ancor più vecchio grammofono a tromba de La Voce del Padrone, certamente uno dei primi esemplari comparsi in Italia. Di questi ambedue preziosi cimeli s’è persa ogni traccia, ed è davvero un peccato. Io, partito per il collegio nell’ottobre 1944, non ne potei seguire le successive vicende ed invano ne ho chiesto notizie ai congiunti. Un anziano  buttero mi riferì, per quanto riguarda l’organetto, che  sarebbe stato donato (cosa assai improbabile) dallo zio ad uno dei figli di un guardiano dei suoi armenti. Della fine del grammofono nessuno ha saputo darmi notizie. Di nuovo peccato. Un mio giovane fratello, che per anni aiutò lo zio nella cura del numeroso bestiame, avrebbe saputo valorizzarlo, dotato come era musicalmente: al paese è ancor viva la memoria  delle lunghe serate trascorse, dopo una giornata di duro lavoro, da Cesare (questo il suo  nome) e dai suoi amici sotto il grande platano che guarda la Lacciara, un immenso platano ancora vivo  che narra e magicamente restituisce le note dell’armonica a bocca e i canti che echeggiavano nella notte fonda per i colli e le forre di quella nostra benedetta terra, e intonavano la serenata allo stuolo di passeri addormentati fra le folte chiome: il suono dell’armonica , che magistralmente accompagnava i canti, ancora io odo e fa danzare solo per me attorno al platano amico i fantasmi intenti alla loro non macabra danza.

A Cesare, troppo presto ridissoltosi nell’ Urklang, avrei dedicato in seguito brevi versi commossi contenuti nei Canti di Pan e ritmi del thiaso. Ora egli è profondato nella Musica mundi. Non è valso, ai medici, ucciderlo.

Gratitudine dunque debbo a zio A. (al quale fra l’altro ogni sera facevo da staffetta tra  piazza della Peschiera e la casa per riferirgli gli eventi verificatisi lungo il giorno), al suo organetto e al suo grammofono a tromba, ma anche alla sua radio Marelli (una delle poche al borgo, dalla quale ogni sera, abbandonate le rosarianti e le spettegolanti del vicinato radunate attorno al focolare della mia casa paterna, correvo ad ascoltare, beandomici, le canzoni di guerra, patriottiche, del lavoro e dell’amore che venivano trasmesse dopo i “commenti ai fatti del giorno” di Mario Appelius, e che ancora tutte ho nelle orecchie e nel cuore) se precocemente mi fidanzai e poco appresso mi coniugai, indissolubilmente, con Frau Musika.

Ma a un altro personaggio vanno, per quanto attiene alla mia iniziazione latamente musica e musicale, il mio ricordo e la mia riconoscenza: a G. C., colui che m’accolse, adolescente triste ed inquieto, in un remoto collegio piemontese nel 1945, quando il sangue della guerra civile macchiava ancora i muri e intrideva tutt’intorno le zolle, e le prime nevi delle Alpi Marittime, che m’avrebbero avuto, per ogni loro valle villaggio e vetta, negli anni a venire indefesso appassionato Wanderer, brillavano al pallido sole autunnale. Giovane era e bello, d’una bellezza quasi femminea, e gentile  e dotto e affabile (anche troppo affabile) il direttore C. Laureato in lettere summa cum laude, era confidente  delle Muse, anzi delle Muse beniamino  (di lui avrebbe fatto menzione superficiale e maligna Edoardo Albinati nel suo troppo fortunato La scuola cattolica). Dopo la ricreazione serale, prima che suonasse il silenzio, era solito ricevere nel suo studio,  per la ‘direzione spirituale’, chi ne facesse richiesta, ma più riceveva i  ‘cocchi’ (cosi detti, malignamente, dai compagni). E tra i cocchi, forse il primo, ero io. Le sue affettuosità imbarazzanti mi piacevano, e placavano un poco la mia nostalgia struggente  della casa e degli affetti lontani. Egli spesso per me, e solo per me, metteva dischi di musica sinfonica, nella quale non avrei potuto imbattermi in occasioni più opportune. Beethoven e Respighi erano i suoi preferiti, furono ben presto anche  i miei, e la Sesta sinfonia ‘ pastorale’ e il trittico respighiano di Feste romane, Le fontane di Roma e I pini di Roma risuonarono così per la prima volta al mio orecchio intonatissimo (la mia voce non era ancora cambiata, ero ancora un bel soprano, ero il sostegno del coro e a me erano sempre affidate le parti solistiche. Come premio m’era concesso, finiti i compiti in brevissimo tempo, di esercitarmi sul bell’harmonium provenzale col metodo Bungart, il caro Bungart di cui ho ritrovato presso un bouquiniste una rara copia). G. C. ora ascolta la musica dei mondi: se ne è andato a 96, forse 98, anni. Gli è stato sicuramente risparmiato l’inferno, ma, ne son certo,  anche il purgatorio: Frau Musika  sicuramente ha interceduto per lui che me di Lei  fece amante e amanti fece, attraverso me, mille altre giovani vite. Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika! E lodato sia sempre tu, G. C.!

*

Ho sempre pensato che, nonostante tutte le ipotesi neoilluministiche sulle strategie cognitive, comprensione e comunicazione restino un mistero.

A te è mai successo  di andar solo e pensoso i più deserti campi (nel mio caso il parchetto delle tartarughe)  misurando  a passi tardi e lenti , essere immerso nei più diversi fantasticari e all’ improvviso risorgere dagli abissi della memoria un volto e un  nome, da 34 anni obliati, e contemporaneamente  giungere  a te da una imprecisata direzione (il tuo unico orecchio  ancor funzionante  non consentendoti  di collocare i suoni nello spazio) una voce femminile che invoca professore, professore, ma è proprio lei professore, e voltarti e individuare in quel volto e in quel nome il nome e il volto poc’anzi emersi dal tuo inconscio, quelli dell’ex allieva Alba Lattanzi , e ipso facto  come vènti dall’otre di Eolo una folata turbinosa di ricordi tutt’insieme su te precipitare, e il giorno della laurea, e la casa a pianterreno di via Gaspara Stampa, e il giardino e il cane irrequieto, e la casa paterna  a Marcellina tuffata nel verde di un frutteto ricchissimo  di ogni edenica varietà, e lo stupore  e il segreto innamoramento per cotanta dovizie di bellezze naturali e umane? Ebbene sì, tutto questo a me è successo, per un fenomeno non di telepatia ma di plesipatia (m’è consentito il neologismo ardito) in un tepido mattino di luce pacata al parchetto delle tartarughe.

*

Sto pensando a Guido Ceronetti, di cui è il brano, preso dalla rete, che condivido, e (meglio tardi che mai?) al vegetarianesimo come possibile estrema scelta.

«Solo un vero vegetariano è capace di vedere le sardine come cadaveri e la loro scatola come una «bara di latta»; un mangiatore di carne (non mi sento di scrivere «un carnivoro» perché l'uomo non è un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di carne o di pesce.»

(da "Il silenzio del corpo")

Io non mangio più da tempo sardine per via del sale, ma tra i miei cimeli uno ve n’è assai carino, dono di Isabel ex allieva carissima portoghese:  una scatola da sardine del 1933, mio anno di nascita, tutta dipinta di motivi surrealistici. La busta che l’accompagna, affrancata come posta aerea del 1942, riporta la seguente scritta: O valor do Tempo. Mundo fantastico da Sardinha Portuguesa. A quelle sardine in fondo non è andata troppo male. Hanno attinto per l’arte l’immortalità!...

 

________________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 
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