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Poe e La rivelazione mesmerica

Post n°1036 pubblicato il 02 Giugno 2020 da giuliosforza

 

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   Nella parte dell’opera di Poe che riunisce i Racconti del mistero, dell’incubo del terrore, ritengo che ‘La rivelazione mesmerica’ rappresenti concettualmente, se non spazialmente, il nucleo del discorso. Gli espliciti riferimenti alla teoria tomistica dell’individualità come materia signata quantitate (contestata, leggo, curiosamente, dalla fenomenologa husserliana cattolica Ales Bello, per molti anni titolare di ‘Storia della filosofia’ alla Lateranense, ed ora, dopo il pensionamento, di ‘Fenomenologia dell’esperienza religiosa’ - dove immagino la studiosa faccia il tentativo di esplicitare quanto in Husserl è, se c’è, solo implicito, essendo l’époché, la riduzione trascendentale l’atteggiamento fondamentale del pensatore di Friburgo) da cui la narrazione prende avvio per concludere ad una concezione della morte che ha tutta l’aria di una visione steineriana antroposofica ante litteram, comunque esoterica se non alchemica (la pretesa poi di Steiner di dimostrare le sue tesi “scientificamente” è per lo meno strana).

   Comune denominatore dei Racconti del terrore è la morte in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue implicazioni di ricaduta à rebours sulla vita. Chi di noi non si è interrogato sulla morte? Coloro che dicono di averne cancellato l’idea sono quelli che probabilmente con quell’idea convivono perché attimo per attimo sono impegnati nell’esorcizzarla. Per quanto mi riguarda essa è cresciuta con me, sono riuscito a razionalizzarla a livello di concetto, ma non a livello di sensibilità: ne ho terrore, e insieme ne subisco il mistero e il fascino; il dopo morte (falso problema, come se mi ponessi domande sul prima della nascita: è certo che per nessuno il prima - a livello di coscienza dico -  ha rappresentato un problema, semplicemente perché de nihilo nulla quaestio, nessuna domanda). Il potenziale nascituro non si interroga sull’evento di cui sta per esser protagonista, a meno che fideisticamente, platonicamente, non si ritenga per vera l’ipotesi dell’eternità (non dell’immortalità, ciò che ha inizio non potendo non aver fine) dell’anima, la sua dimora in un qualsivoglia iperuranio prima che  una non ben individuata colpa  la condanni all’incarnazione ed alla scelta di un destino fra i tanti - impossibile poi da cambiare; mentre della morte la possibilità della scelta, se non del modo, è indiscutibile: io sono comunque in grado dei togliermi la vita, unico atto di vera libertà concessomi. Con le domande metafisiche sul post mortem, cominciai a tormentarmi prestissimo, già da bambino, (e non dico dopo, caduto nelle maglie delle teologie e delle filosofie loro ancillae, dalle quali solo con grandissima fatica riuscii a districarmi) contemporaneamente alle domande sulla esistenza e sulla natura di Dio, come ho narrato in molte parti di questo diario.

   In Allan Poe, dunque, soprattutto nei Racconti del mistero, dell’incubo e del terrore, ma anche in quelli fantastici e grotteschi, la morte come evento e come problema è onnipresente, in ogni suo aspetto e in ogni sua forma, e si porta appresso questioni filosofiche, persino metafisiche e psicologiche non indifferenti. In La rivelazione mesmerica (così dal nome del medico tedesco del Settecento studioso del magnetismo animale che, applicato all’uomo, avrebbe consentito l’ipnosi e il suo uso terapeutico, in campo fisiologico, neurologico, fisico e psichico, corporeo e mentale o spirituale, se non ripugna la parola spirito) il narratore, per verificare l’efficacia del mesmerismo, sottopone il suo paziente Vankirk, sofferente di un dolore acuto nella regione del cuore e presentante tutti i sintomi caratteristici d’un’asma bronchiale - ad un esperimento di ipnosi. Caduto nel sonno mesmerico il paziente risponde a domande di varia natura, che vanno dall’influsso delle stelle alla loro composizione, dalla natura della materia e della materia-dio al loro rapporto di coalescenza, dalla natura dell’etere al suo rapporto attrattivo con la stella (o viceversa?), finché la conversazione affronta la questione fondamentale, quella vera e propria di Dio e dei problemi fisico-metafisici ad essa connessi. Ed io questa seconda parte di conversazione fra l’ipnotizzatore e il suo paziente voglio riportare quasi integralmente perché con me il lettore si renda conto di quali percorsi esoterici si intraprendano e in quali dedali ci si cacci una volta oltrepassata tale soglia. Per me assolutamente inesperto di tali tragitti la lettura è stata interessante e mi ha introdotto in problematiche alle quali la mia formazione m’aveva indotto ad accedere con gli strumenti della ragione ‘partecipativa’, tale in quanto aliena dal razionalismo puro, ma nemmeno immemore delle sue radicazioni intellettualistiche. Nella conversazione P. è l’ipnotizzatore, V. l’ipnotizzato.

   P. “Ma in tutto ciò, nella identificazione di pura materia con Dio, non c’è un che di irriverente?” (Fui costretto a ripetere questa domanda prima che il paziente mesmerizzato ne comprendesse pienamente il significato).

   V. “Può dirmi perché la materia dovrebbe essere meno rispettata della mente? Lei dimentica che la materia di cui parlo è proprio la ‘mente’ o lo ‘spirito’ delle scuole, per quanto attiene le sue capacità superiori, e contemporaneamente è la ‘materia’ di queste stesse scuole. Dio, con tutti i poteri attribuiti allo spirito, è in sostanza la sublimazione della materia”.

   P. “Lei asserisce, dunque, che la materia imparticolata, in moto, è il pensiero?”

   V. “In generale questo moto è il pensiero universale della mente universale. Questo pensiero crea. Tutte le cose create sono dunque pensieri di Dio”.

   P. “Lei dice ‘in generale’?

   V. “Sì, la mente universale è Dio. Per nuove individualità è necessaria la materia”.

   P. “Ma ora lei parla di ‘mente’ e di ‘materia’ come fanno i metafisici”.

   V. “Sì… per evitare confusione. Quando dico ‘mente’ intendo materia imparticolata, materia ultima; per ‘materia’ intendo tutte le altre forme”.

   P. “stava dicendo ‘per nuove individualità è necessaria la materia’.

   V. “Sì’, perché la mente incorporea è semplicemente Dio. Per creare individualità, esseri pensanti, è stato necessario incarnare parte della mente divina. Così l’uomo è individualizzato. Spogliato della veste corporea era Dio. Ora il moto particolare delle particelle incarnate della materia imparticolata è il pensiero dell’uomo, così come il moto del tutto è quello di Dio”.

   P. “Dice che, spogliato del corpo, l’uomo sarà Dio?”

  V. (Dopo molta esitazione). Non posso aver detto questo: è un’assurdità”.

   P.  (Leggendo il contenuto dei miei appunti). Lei ha detto che spogliato della veste corporea l’uomo era Dio”.

   V. “E questo è vero. L’uomo così spogliato sarebbe Dio… Sarebbe non individualizzato. Ma non può mai essere così spogliato… per lo meno non lo sarà mai…altrimenti dobbiamo immaginare un’azione di Dio che ritorna su se stessa…Un’azione senza scopo, futile. L’uomo è una creatura. Le creature sono pensieri di Dio.     Ẻ la natura del pensiero che è irrevocabile”.

   P. “Non capisco. Dice che l’uomo non sarà mai posto fuori del suo corpo?”.

   V, “Dico che non sarà mai senza corpo”.

   P. “Mi spieghi”.

   V. “Vi sono due corpi… il rudimentale ed il completo, che corrispondono alle due condizioni del bruco e della farfalla. Quella che noi chiamiamo ‘morte’ è soltanto la dolorosa metamorfosi. La nostra presente incarnazione è progressiva, preparatoria, temporanea. Quella futura è perfetta, definitiva, immortale. La vita ultima è il fine supremo”.

   P. “Ma della metamorfosi del bruco abbiamo una conoscenza tangibile”.

   V.Noi certamente, ma non il bruco. La materia di cui è composto il nostro corpo rudimentale è alla portata degli organi del corpo; o, più precisamente, i nostri rudimentali organi sono adeguati alla materia di cui è formato il corpo rudimentale, ma non a quello di cui è composto il corpo finale. Il corpo definitivo, quindi, sfugge ai nostri sensi rudimentali e noi percepiamo solo il guscio che cade, decomponendosi, dalla sua forma interna; per contro questa forma interna, così come il guscio, è percepibile da coloro che hanno già raggiunto la vita finale”.

   P. “Ha spesso detto che lo stato mesmerico somiglia molto alla morte. Come?”.

   V. “Quando dico che somiglia alla morte, intendo che assomiglia alla vita finale, perché quando sono in trance i sensi della mia vita rudimentale sono assenti e percepisco le cose esterne, direttamente, senza organi, attraverso un mezzo che utilizzerò nella vita finale, priva di organi…”.

   P. “Priva di organi?”

   V. “Sì, gli organi sono strumenti per mezzo dei quali l’uomo può avere relazioni sensoriali con particolari classi e forme della materia, con l’esclusione di altre classi e forme. Gli organi dell’uomo sono adeguati alla sua condizione rudimentale ed a quella soltanto. Nella sua condizione finale, essendo egli privo di organi, ha la capacità di comprendere tutto tranne la natura della volontà di Dio… cioè il moto della materia imparticolata. Avrà un’idea chiara del corpo definitivo pensandolo come fosse interamente cervello. Non è così; ma un concetto simile lo porterà assai vicino a comprendere cosa esso sia. Un corpo luminoso trasmette vibrazioni all’etere. Tali vibrazioni ne generano altre simili entro la retina, questa comunica vibrazioni simili al nervo ottico. Il nervo ottico convoglia nel cervello simili vibrazioni e il cervello stesso le ritrasmette alla materia imparticolata di cui è permeato. Il moto di quest’ultima è il pensiero la cui prima percezione è la prima vibrazione. Questa è la modalità secondo cui la mente della vita rudimentale comunica col mondo esterno e questo mondo esterno è, per la vita rudimentale, limitato per la idiosincrasia dei suoi organi. Al contrario nella vita definitiva, quella organica, il mondo esterno giunge all’intero corpo (che è di una sostanza affine a quella del cervello, come ho detto) senza alcun altro intervento oltre a quello dell’etere infinitamente più rarefatto persino dell’etere luminoso. Con questo etere… all’unisono con esso… tutto il corpo vibra, mettendo in moto la materia imparticolata che lo permea. Ed è proprio all’assenza di organi idiosincratici che dobbiamo attribuire la pressoché illimitata percezione della vita definitiva. Per gli esseri rudimentali gli organi sono le gabbie necessarie per imprigionarli, finché non avranno messo le ali”.

   P. “lei parla di ‘esseri rudimentali’. Esistono forse altri esseri rudimentali pensanti oltre l’uomo?”

   V. “Gli innumerevoli ammassi di materia rarefatta delle nebulose, dei pianeti, dei soli e di altri diversi corpi celesti, che non sono né nebulose, né soli, né pianeti, hanno l’unico scopo di fornire pabulum all’idiosincrasia degli organi incompleti di una infinità di esseri rudimentali. Se non fosse per le esigenze di esseri rudimentali, prima della vita finale, tali corpi non avrebbero giustificazione. In ognuno di essi, dimorano forme diverse di creature organiche rudimentali, pensanti. Alla loro morte o metamorfosi questi esseri godono della vita definitiva - l’immortalità -arrivando alla conoscenza di tutti i segreti, ad eccezione dell’unico e Agiscono e vanno ovunque solo per atti di volontà. E popolano non le stelle - che a noi sembrano essere le uniche presenze complete dello spazio, che anzi ci sembra creato solo per contenere le stelle - popolano lo SPAZIO stesso… questa infinità di reale sostanza che inghiotte le ombre stellari - e le cancella, come non entità, dalla percezione degli angeli”

   P. “Lei dice che ‘se non vi fosse questa esigenza della vita rudimentale’ non vi sarebbero stelle. Ma perché questa esigenza?’

   V. “Nella vita inorganica così come nella materia inorganica in generale, non c’è alcun ostacolo all’azione di una semplice unica legge - la volizione divina. La vita e le materie organiche (complesse, sostanziali, gravate di leggi) sono state create proprio per costituire questo ostacolo).

   P. “Ma perché mai si è reso necessario questo ostacolo?”.

   V. “Il risultato di una legge inviolata è la perfezione, il diritto, la felicità negativa. Se una legge viene violata si genera l’imperfezione, il torto, il dolore positivo. L’ostacolo dovuto al numero, alla complessità e alla sostanzialità delle leggi che regolano la vita degli esseri organici, rende, fino a un certo punto, praticabile la violazione della legge. Quindi il dolore, impossibile nella vita inorganica, esiste in quella organica”.

   P. “Ma perché rendere possibile il dolore?”.

   V. “Tutte le cose sono buone o cattive solo in base ad un confronto. Un’analisi basterà a mostrare che il piacere, in ogni caso, è il contrario della pena. Il piacere positivo è un’astrazione, per essere felici in qualche misura bisogna aver sofferto prima in eguale misura. Non soffrire significherebbe non essere stato felice. Poiché nella vita inorganica non è possibile il dolore, si è reso necessario creare la vita organica. Il dolore della vita primitiva sulla Terra è l’unica base per arrivare alla felicità della vita finale del Cielo”.

   P. “C’è ancora una espressione che non comprendo…la vera sostanziale vastità dell’infinito”.

   V. Forse lei non ha un concetto abbastanza generale della parola ‘sostanza’.  Non dobbiamo considerarla una qualità ma un sentimento: è la percezione da parte degli esseri pensanti dell’adattarsi della materia alla propria organicità. Ci sono molte cose della terra che sarebbero inesistenti per gli abitanti di Venere e, viceversa, cose visibili e tangibili su Venere non verrebbero considerate esistenti da noi. Per gli esseri inorganici - per gli angeli - tutta la materia imparticolata è sostanza, cioè tutto quello che noi chiamiamo ‘spazio’ ha per loro il massimo della sostanzialità; le stelle, invece, attraverso ciò che noi consideriamo la loro materialità, sfuggono alla sensibilità angelica, proprio come la materia indivisa, attraverso quella che è da noi considerata la sua immaterialità, sfugge a quella organica”.

   “Mentre il mio paziente pronunciava queste ultime parole con voce flebile, osservai che il suo volto aveva una particolare espressione che mi allarmò. E mi indusse a destarlo subito. Appena lo ebbi fatto, con un sorriso smagliante che gli illuminava tutto il volto, ricadde sul guanciale e spirò. Mi accorsi che meno di un minuto dopo il suo cadavere aveva la rigidità della pietra e la sua fronte era di ghiaccio. Questo di solito avviene soltanto dopo una prolungata pressione della mano di Asraele. Il malato mi aveva forse indirizzato l’ultima parte del suo discorso dal regno delle ombre?”.

   Di tutte le fantasie partorite dalle menti feconde ed esaltate di sciamani e sedicenti ministri del divino di ogni tempo e di ogni luogo, questa mi sembra una delle più sensate (se ha senso chieder senso a una elaborazione fantastica, ove si dice di spazi di eteri di stelle di sostanze di materie ‘imparticolate' eccetera eccetera in un discorso alquanto ingarbugliato e contorto - fatta salva naturalmente la mia dichiarata ignoranza degli esoterismi delle varie scuole e dei loro linguaggi) in fondo auspicabilmente condivisibile ed ironicamente credibile, perché elaborata dalla mente di un Poeta visionario che risponde al nome di Edgar Allan Poe. Al quale chiederei: ma perché farsi rivelare da una persona sotto ipnosi (somigliante nello specifico tanto a una morte, se lo stesso Asraele arcangelo della morte alla fine della seduta si scomoda per accompagnare l’anima – e il secondo corpo, quello vero etereo – nel regno dei cieli)? Starà scherzando Poe o facendo sul serio? Io non l’ho capito. Ma mi pare chiara la verità che egli vuole affermare, esposta questa sì in maniera assai esplicita al centro di tutto l’elaborato discorso: “Vi sono due corpi… il rudimentale ed il completo, che corrispondono alle due condizioni del bruco e della farfalla. Quella che noi chiamiamo ‘morte’ è soltanto la dolorosa metamorfosi. La nostra presente incarnazione è progressiva, preparatoria, temporanea. Quella futura è perfetta, definitiva, immortale. La vita ultima è il fine supremo”.

Nulla di nuovo. Non ci aveva già l’Iniziato alla confraternita esoterica, vera e propria setta (come un numero sempre maggiore di dantisti italiani e stranieri oggi ritiene) dei ‘Fedeli d’Amore’, non ci aveva già così apostrofato: “non v’accorgete voi che noi siam vermi” … siam “come verme in cui formazion falla  siam “quasi entomata in difetto…nati a formar l’angelica farfalla”? (Purg. Canto X, versi 124…129):

Poe sicuramente non lo ignorava.

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Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 
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