Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale
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Ho conosciuto per caso in questi giorni, vagando inquieto wanderer per la Rete, un signore e studioso straordinario, di quelli che una volta in vita ti avviene, se sei fortunato, di incontrare. Si tratta di Luca Bistolfi, uno scrittore e un critico letterario e musicale non appigionato che scrive su varie testate e riviste, quelle che sono in grado di reggere la sua poliedrica cultura e le sue strepitose bordate. Io lo ho incontrato su Pangea, che si auto presenta come “Rivista avventuriera di cultura & idee”, fondata da Luca Alberto Lo Presti e diretta da Davide Brullo. Cercavo qualcosa di nuovo e diverso su Puccini nel suo centenario. E guardate un po’ che ti trovo? Leggete e stupite alla lettura di “Giacomo Puccini: sia lode al gigante della musica seria (ma la bibliografia è avvilente)”. La rivista è on line ed è gratuita.
Io che in gioventù mi godetti gli stroncatori Papini Soffici Prezzolini Giuliotti ed altri in campo estetico-filosofico-letterario, ho goduto compiaciuto alla lettura di un lungo articolo del critico musicale Luca Bistolfi pubblicato sulla rivista on line di libera consultazione “Pangea. Rivista avventuriera di cultura e idee”. Lucidità, informazione, verve di tale genere non ci è dato più che rarissimamente incontrare in questi tempi di massificazione rimbecillente. Che poi le stroncature del pangeatico riguardino i denigratori di Puccini a vantaggio del Bussetano mi fa doppiamente piacere. Il Lucchese non ha niente, proprio niente da invidiargli, e tanto meno da dovergli. Altre arie egli respirò, frequentò altri lidi, quelli che spalancavano a Frau Musika e ai suoi devoti ben altri orizzonti. Diceva il vecchio Verdi del giovane Puccini, credendo gliene tornasse a disdoro, che era più un sinfonista che un melodista, e aggiungendo che un’opera lirica dove predomini l’armonia a scapito della melodia è come un monumento dalla grande base e dalla picciola statua. Immagine certo efficace ma inadeguata; lo stesso Verdi dall’Otello in poi se ne sarebbe accorto e faticò non poco per arrivare ad autosuperarsi e in qualche modo autonegarsi, che dio sia lodato, nel Fallstaff. Io che circa Verdi ho sempre quasi in tutto condiviso il giudizio irridente di Richard Strauss, e dai suoi cieli il grande Marzio Pieri me ne perdoni, Verdi, chi? Il musicista dello zumpapa zumpapa?, leggo con soddisfazione le bordate di Bistolfi contro certa critica musicale. I non verdiani andranno in sollucchero. Ma anche i verdiani ne usciranno, se non convertiti e meno inca, un poco, lo spero, illuminati.
Nel suo lungo saggio Bistolfi parte da Virgilio Bernardoni e le sue riflessioni sul centenario puccininiano, e ne prende spunto per denunciare l’inadeguatezza, quando non la falsità e la malevolenza, della maggior parte della critica pucciniana, a partire da Massimo Mila, attraverso toscanini Alfano Berio e altri, per arrivare a Julian Budden e Dieter Schickling che salva dalla condanna videnziandone e lodandone i meriti e la sagacia. Ecco come presenta Schickling:
"Quando nel 2008 su un quotidiano romano salutai l’arrivo dello Schickling, uscito per i centocinquant’anni della nascita e ad oggi il miglior libro in circolazione, chiudevo il contributo augurandomi di veder presto o tardi sorgere la monografia che rendesse giustizia al più grande operista italiano moderno. Sperai adesso di trovarla in Bernardoni. Ma a distanza d’oltre tre lustri debbo constatare ancora la presenza di lavori bensì volenterosi ma inutile fatica di praticoni e orecchianti. Sicché, oltre di leggervi lo Schickling, il mio consiglio è di farvi da voi il vostro Puccini, senza alcunché sperare da critici e storici. Qualche traccia adesso l’avete”.
Buona lettura https://www.pangea.news/giacomo-puccini-centenario-morte/
*
Un sogno mai sognato
Uno stato totalitario politico-clericale non identificato bandisce un concorso senza tema per una carica non identificata. Partecipazione obbligatoria. Io cerco di esimermi fuggendo. Bloccato, son trascinato in manette alle segrete, come una volta si diceva. Obbligato a scrivere sotto lo sguardo minaccioso dei carcerieri scelgo il mio tema: All’inizio era il Non Senso, e il Senso era presso Dio, e il non Senso era Dio. Condannato al capestro per blasfemia e torturato, mi rifiuto di abiurare. Al momento dell’esecuzione un dardo infuocato, sceso come fulmine dal cielo, colpisce la corda e la spezza: son salvo per bontà di un …sensatissimo Iddio.
Questo il mio sogno di stanotte. Son sano e non vaneggio.
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Ho conosciuto per caso in questi giorni, vagando inquieto wanderer per la Rete, un signore e studioso straordinario, di quelli che una volta in vita ti avviene, se sei fortunato, di incontrare. Si tratta di Luca Bistolfi, uno scrittore e un critico letterario e musicale non appigionato che scrive su varie testate e riviste, quelle che sono in grado di reggere la sua poliedrica cultura e le sue strepitose bordate. Io lo ho incontrato su Pangea, che si auto presenta come “Rivista avventuriera di cultura & idee”, fondata da Luca Alberto Lo Presti e diretta da Davide Brullo. Cercavo qualcosa di nuovo e diverso su Puccini nel suo centenario. E guardate un po’ che ti trovo? Leggete e stupite alla lettura di “Giacomo Puccini: sia lode al gigante della musica seria (ma la bibliografia è avvilente)”. La rivista è on line ed è gratuita.
Io che in gioventù mi godetti gli stroncatori Papini Soffici Prezzolini Giuliotti ed altri in campo estetico-filosofico-letterario, ho goduto compiaciuto alla lettura di un lungo articolo del critico musicale Luca Bistolfi pubblicato sulla rivista on line di libera consultazione “Pangea. Rivista avventuriera di cultura e idee”. Lucidità, informazione, verve di tale genere non ci è dato più che rarissimamente incontrare in questi tempi di massificazione rimbecillente. Che poi le stroncature del pangeatico riguardino i denigratori di Puccini a vantaggio del Bussetano mi fa doppiamente piacere. Il Lucchese non ha niente, proprio niente da invidiargli, e tanto meno da dovergli. Altre arie egli respirò, frequentò altri lidi, quelli che spalancavano a Frau Musika e ai suoi devoti ben altri orizzonti. Diceva il vecchio Verdi del giovane Puccini, credendo gliene tornasse a disdoro, che era più un sinfonista che un melodista, e aggiungendo che un’opera lirica dove predomini l’armonia a scapito della melodia è come un monumento dalla grande base e dalla picciola statua. Immagine certo efficace ma inadeguata; lo stesso Verdi dall’Otello in poi se ne sarebbe accorto e faticò non poco per arrivare ad autosuperarsi e in qualche modo autonegarsi, che dio sia lodato, nel Fallstaff. Io che circa Verdi ho sempre quasi in tutto condiviso il giudizio irridente di Richard Strauss, e dai suoi cieli il grande Marzio Pieri me ne perdoni, Verdi, chi? Il musicista dello zumpapa zumpapa?, leggo con soddisfazione le bordate di Bistolfi contro certa critica musicale. I non verdiani andranno in sollucchero. Ma anche i verdiani ne usciranno, se non convertiti e meno inca, un poco, lo spero, illuminati.
Nel suo lungo saggio Bistolfi parte da Virgilio Bernardoni e le sue riflessioni sul centenario puccininiano, e ne pre nde spunto per denunciare l’inadeguatezza, quando non la falsità e la malevolenza della maggior parte della critica pucciniana della critica pucciniana, con esclusione di a partire da Massimo Mila, attraverso toscanini Alfano Berio e altri per arriveare a Julian Budden e Dieter Schickling. Col quale egli schiude
Quando nel 2008 su un quotidiano romano salutai l’arrivo dello Schickling, uscito per i centocinquant’anni della nascita e ad oggi il miglior libro in circolazione, chiudevo il contributo augurandomi di veder presto o tardi sorgere la monografia che rendesse giustizia al più grande operista italiano moderno. Sperai adesso di trovarla in Bernardoni. Ma a distanza d’oltre tre lustri debbo constatare ancora la presenza di lavori bensì volenterosi ma inutile fatica di praticoni e orecchianti. Sicché, oltre di leggervi lo Schickling, il mio consiglio è di farvi da voi il vostro Puccini, senza alcunché sperare da critici e storici. Qualche traccia adesso l’avete”.
Buona lettura https://www.pangea.news/giacomo-puccini-centenario-morte/
Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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Ieri sera, stanco di intellettualismi, soprattutto se musicali, mi sono addormentato lasciandomi dolcissimamente cullare dalle quattro melodie che ho in vita più amato ed amo, secondo me le più belle e struggenti della storia della lirica italiana, tutte di Bellini: “Casta Diva” e “Mira o Norma” dalla Norma e “Prendi l’anel ti dono” e “Ah non credea mirarti sì presto estinto o fiore” dalla Sonnambula, il cui pathos romantico l’uso vocale e strumentale del controcanto esaspera ai limiti dello sfinimento. Di quest’ultima trascrissi le prime note, le stesse impresse sul marmo delle tomba catanese (su quella ormai cenotafio del ‘Père Lachaise’ a Parigi avevo pregato, quando ancora l’anima non s’era inaridita, tanti tanti anni fa), su un grosso fusto di bambù trafugato a un giardino una mattina che, rousseauiano promeneur solitaire, vagavo per le vie della città etnea addormentata sotto una spessa coltre di neve nera, la polvere lavica.
Tengo molto al grosso bastone di bambù catanese che mi accompagnò a lungo sui monti -a cominciare dalla montagna officina di Efesto- che ora con la sua punta d’acciaio acuminato deve limitarsi a risuonar cupo per gli asfalti e i cementi arroventati delle strade della mia borgata. Stamane me lo sono portato con me al Frainile dove intendo rimanere tutta l’estate, se il caldo tornerà (oggi fa un freddo quasi invernale, da indossare il cappotto) in compagnia di Saramago, del Goethe delle prime poesie e del Werther con testo originale a fronte (una recente edizione di Marsilio che ripropone per fortuna l’originale, quella non ancora in parte dallo stesso Goethe rimaneggiata per motivi di censura) per poi rituffarmi, con Alfred De Musset e le storiche del movimento Ricarda Huch e Andrea Wulf, nel pieno del Romanticismo che amo.
Quanto bene ho dormito stanotte!
Altro che Xanax, altro che Prozac, altro che il Platone di Lou Marinoff le melodie di Bellini!
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Su 5 stamane. “Rigoletto al Circo Massimo”. quel che resta di un’opera lirica classica. La chiamano contaminazione moderna tra teatro televisione cinema. Non credeteci. Si tratta di un intruglio che non giova a nessuna delle tre forme di comunicazione. E un tale intruglio dovrebbe significare volontà di avvicinamento della folla (spregiativamente detto), del “popolo”, soprattutto quello dei giovani, all’Opera. Alla folla basta e avanza un concerto di Vasco Rossi con i suoi milioni di tifosi, in presenza o virtuali. Verdi, poi… Ci pensa da solo ad auto-castrarsi in molta della sua produzione lirica ridotta ad una serie di canzonette, di motivetti, i più assai gradevoli, va riconosciuto, che, giustapposti, l’uno all’altro ricuciti, senza una solida base sinfonica unificatrice, dovrebbero rappresentare un serio discorso musicalmente compiuto.
Euterpe piange, altro che eu-terpein, rallegrare!
Un giorno dopo: La Forza del Destino
Rilassato, per intero e senza prevenzioni (di cui mi sforzo di attenuare almeno l’impatto condizionante sull’ascolto, cosa difficile per un che non ha in Verdi il suo prediletto) seguo e mi godo su rai5 La Forza del Destino, parecchio riprendendomi dal gusto stroncatorio e dissacratorio di ieri mattina. Si tratta di quella di un Maggio musicale fiorentino degli anni Dieci diretta da Zubin Metha. Un Verdi composito che in quello che è indubbiamente uno dei suoi capolavori sa ben fondere (stava per sfuggirmi un volgare mescolare, che sarebbe stato davvero offensivo) in pagine sublimi sacro e profano, serio e faceto, guerra e pace, amore e morte. Inutile dire de “La Vegine degli angeli” e dei cori gregoriani risuonanti in lontananza (ma in tutta l’opera si respira un’aria di religiosità che ne fa, fra tutta la produzione verdiana, se non un unicum una testimonianza definitiva della innegabile religiosità di Verdi - religiosità dico, non religione, che è tutt’altra cosa -) ai quali sono da sempre per formazione assai sensibile. Particolarmente m’è piacito Nicola Alaimo nella lunga divertentissima parte di fra Melitone, ma anche il frate portinaio nel suo ruolo di distributore di minestre ai poveri. Ferruccio Furlanetto in quella seriosa del padre guardiano e Saloa Fernandez in quella di Leonora, ritirata nel suo eremo diventato per la solita dissennata scenografia modernista una grossa gabbia da zoo per scimpanzè, hanno decorosamente adempiuto al loro ruolo.
P. S.
Una piccola consolazione per i verdiani anti-pucciniani. Pur non dovendo, questo è chiaro, il Lucchese nulla al Bussetano, se non quel tanto che fatalmente un dopo deve a un prima, un involontario richiamo tra la figura del sagrestano di Tosca, di Fra Melitone e del frate distributore della minestra de La Forza del Destino indubbiamente c’è: quel tanto di scanzonato che fa dei rispettivi episodi di cui sono i protagonisti qualcosa di molto di più che semplici divertenti cammei.
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Questa mi mancava.
Stanotte alle 02:30 stato svegliato, e non si trattava di un sogno, da una telefonata del Soccorso stradale (così almeno la voce si dichiarava, ma chissà quale delinquente si celava dietro tal nome). Avrei voluto vedere voi. Le immediate scuse non furono sufficienti a impedire al mio antico muscolo cardiaco di riprendere la sua solita corsa, più del solito affannata e disordinata. Ora, placato il muscolo, mi sento stordito nella mente e stremato in ogni fibra del corpo, e senza fiato, come un Laocoonte stretto fra le spire dei due serpenti, che nel mio caso non Porcete e Caribea hanno nome ma Spazio e Tempo, i due mostri che s’apprestano a soffocarmi.
Chi mi libererà dalla morsa di Spazio e Tempo?
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Dalle nostre parti si dice di Tivoli (come a Firenze di Prato): “Tivoli del mal conforto. O piove, o tira vento, o suona a morto”. Orribile. Ma non fu la località (per la verità la nobile Tibur, non la volgaruccia Tivoli, stipatissima ma non certo vivibilissima) il luogo preferito da Poeti, Imperatori, Papi, principi, mecenati, artisti di ogni genere, che ne lasciarono imperiture memorie? Sarà solo questione di mutamento di clima meteorologico o soprattutto di mutamento di clima culturale? Che ne pensano i vari amici che con le parole e coi fatti si adoperano per la rinascita?
Saluti e auguri da un umile ma verace tiburtino del contado.
Due commenti che meritano:
Tibur, lustrissimo maestro, è qui a parlarci di storia e di storie, continuamente ad ammonirci, da secoli in verità, per spronarci in uno sforzo comune a concretizzare un nuovo possibile Rinascimento sociale ed etico. Ognuno per la sua parte.
Per noi di Montecelio Tivoli è sempre stata un punto di riferimento vuoi perché avevamo lì il Vescovo, il Pretore, le Scuole superiori, negozi attraenti, il mercato dei nostri ortolani ma non sono mancati gli sfottò. Ma anche grande rispetto in un nostro detto: "ROMA , CAPUT MUNDI, TIVULI PE' SECUNDI".
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Mi rigusto dopo un sessantennio il film restaurato El Cid del regista Mann con Sophia Loren, Charlton Heston e Raf Vallone, che narra le imprese di Rodrigo Diaz de Vivar soprannominato El Cid Campeador, il Signore Campione (+1099) perché eroico protagonista della lotta di liberazione della Spagna dai Mori. Non mi dispiacerebbe inserire, fra le ipotesi etimologiche più o meno fantasiose del nome del mio natio borgo selvaggio, quella che lo fa derivare dal nome di nascita del mitico Eroe valenciano.
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1092
Ho conosciuto in rete una giovane seria e informata, studiosa poliglotta e …polimatica (risuscito il termine in senso positivo etimologico e non limitativo come oggi lo si intenderebbe) dal bel nome di Linda Guerrini, un nome che mi evoca uno dei poeti ai quali son dedicate le strade del nuovo quartiere Talenti di Roma: Olindo Guerrini. Che sia un suo avo? Guerrini, che fra i tanti suoi vari eteronimi usava firmarsi anche Lorenzo Stecchetti, nome col quale fu più conosciuto, fu un poeta non degli ultimi tra quelli della generazione seconda metà Ottocento - primo Novecento (1848-1949), ed io prima che la febbre dannunziana mi divorasse, lo ebbi fra i più frequentati. In questo anno pucciniano (è il Lucchese il musicista che con Wagner prediligo) sto approfondendo l’argomento dei rapporti tra Puccini e D’Annunzio mai conclusisi, nonostante i reciproci desideri, con un’opera che avrebbe potuto dare origine a un Gesamtkunstwerk a due unico al mondo. Non che i Mascagni, i Pizzetti, gli Zandanoi e i Debussy che misero in musica opere del Pesecarese, fossero da gettare. Ma Puccini è un’altra cosa!
Di Linda Guerrini mi permetto di riprodurre qui, sperando non le dispiaccia, un bell’articolo riguardante i rapporti epistolari D’Annunzio-Puccini, prezioso per gli amanti della Poesia dell’Uno e della Musica dell’Altro: due nomi che bastano da soli, pur ignorati dalle Accademie, a glorificare nel mondo Calliope ed Euterpe, come nessun altro mai; troppo grandi per le Accademie, come il Nolano achademici di nulla achademia.
“Linda Guerrini, Il poeta e il maestro (Linda Guerrini, Il poeta e il maestro, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 8, gennaio/aprile2014)”.
“Agli studiosi dannunziani è cosa abbastanza nota che Gabriele D’Annunzio e Giacomo Puccini cercarono più volte di collaborare per la creazione di un’opera che unisse, come afferma Aldo Simeone, “il melodramma al dramma moderno”1). Tale collaborazione peraltro non avvenne mai, o, per meglio dire, non produsse mai risultati. Ci si è chiesti spesso il perché. Critici e studiosi di vario orientamento hanno tentato di fornire risposte, ma – a mio parere – il problema reale va individuato nella diversità di carattere dei due artisti: D’Annunzio mirava sempre a essere eccezionale tout court, mentre Puccini era più modesto, accontentandosi di “essere qualcuno”. Ma analizziamo per un attimo le due individualità. Pur avendo idee alquanto diverse sia sulla struttura di un’opera teatrale, sia in politica (D’Annunzio era filofrancese e interventista, Puccini filotedesco e neutralista), coltivavano interessi comuni: il dandismo, i motori, la concezione arte = merce e un’indubbia tendenza alle intense passioni amorose – un magnanimo eufemismo? Chissà. Le motivazioni che li spingevano a una collaborazione erano comunque differenti: il ‘Vate’, sempre in cerca di popolarità (e anche di danaro, vista la sua incontenibile propensione a sprecarlo), ambiva al vasto pubblico pucciniano, mentre il compositore ammirava lo spirito innovatore di D’Annunzio. A ogni modo, i due s’incontrarono grazie alle sollecitazioni di ‘operatori culturali’ come Tito e Giulio Ricordi, il procuratore Carlo Clausetti e altri, che fecero molto spesso, soprattutto all’inizio, anche da intermediari: proprio per questo, nella ricostruzione del carteggio, sono state indispensabili le lettere che i due artisti spedivano e ricevevano da tali personaggi. Queste, purtroppo, sono molto più numerose rispetto a quelle del carteggio diretto fra D’Annunzio e Puccini, poiché, soprattutto quelle scritte dal Poeta, sono in gran parte andate perdute – o eccessivamente deteriorate. Ciò ha determinato l’opinione secondo cui il poeta, spesse volte, evitasse di rispondere alle pressanti richieste pucciniane, negandosi con piccole scuse. Ora, pur conoscendo i comportamenti di D’Annunzio verso alcuni ospiti che definiva “sgraditi” all’epoca del soggiorno a Gardone, giova nondimeno ricordare che il il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 2) poeta nutriva per Puccini una grande stima: è improbabile dunque che gli si negasse. Inoltre, la collaborazione col maestro lucchese poteva essere occasione rara per dar vita ad una sorta di opera totale di respiro wagneriano, che unisse la totalità delle arti. In futuro, fallite le trattative con Puccini, D’Annunzio non abbandonerà questo progetto, mettendo in scena prima la ‘Pisanella’ (1913), musicata da Ildebrando Pizzetti, poi la ‘Parisina’ (1913), per la quale D’Annunzio collaborò con Mascagni e, infine, la ‘Francesca da Rimini’ (1914), tratta da una sua tragedia, scritta in forma di libretto da Tito Ricordi e musicata da Riccardo Zandonai. Entrambi i soggetti, come oggi è ben noto, erano stati pensati inizialmente per Puccini. I due furono in trattativa dal 1894 al 1913. Tutto iniziò quando D’Annunzio, che da qualche tempo si era affacciato sul panorama teatrale, decise d’intraprendere la carriera di librettista e quindi scrisse a Ricordi per trovare un musicista adatto alle sue esigenze. Il procuratore Carlo Clausetti lo mise in contatto con Giacomo Puccini, allora compositore emergente dotato di talento e capacità innovative non comuni, reduce dal successo della ‘Manon Lescaut’. All’inizio, le trattative sembravano impossibili, perché i costi dannunziani erano davvero eccessivi (chiedeva 40000 lire, cifra enorme per l’epoca). Nel 1889 D’Annunzio si trovava in pessime acque, a causa dei debiti contratti comprando la “Capponcina”, nonché per gli innumerevoli insuccessi delle sue tragedie. Già prima della loro conoscenza diretta, Puccini si era mostrato gentile con il poeta: ad esempio, in occasione della prima della ‘Città morta’ dannunziana – un vero fiasco –, il musicista toscano stese un encomio per l’opera, definendo fra l’altro l’autore “caro mio fratello d’arte”. Il primo tentativo di collaborazione risale, almeno dai documenti in nostro possesso, al 1900. Si tratta del ‘Cecco D’Ascoli’, opera della quale però non ci è pervenuta alcuna traccia, se non le righe che Puccini scrisse a Giulio Ricordi, ove si diceva impaziente di ottenere da D’Annunzio la traccia del primo atto. Questo non fu mai scritto e il soggetto fu abbandonato. Registriamo le successive trattative solo dopo sei anni, nel 1906. Questa volta i due sembrano molto più motivati, s’impegnano davvero reciprocamente. D’Annunzio scrive a Tito Ricordi: “Spero di poter offrire al Maestro Puccini un poema ove il più ardente soffio umano attraversi le visioni della più insolita poesia”2) . Sono decisi a trovare un compromesso, ossia a creare un’opera adatta all’indole di Puccini ma, nel contempo, conforme alla più schietta maniera dannunziana. L’homme de lettres abruzzese questa volta non gonfierà i costi: come egli stesso sostenne, la “Santa Poesia” cedeva volentieri il passo a “Madonna Equità”. È importante sottolineare, probabilmente, che il poeta offrì sempre al compositore progetti completamente nuovi, dichiarandosi inoltre disponibile a modifiche, cosa che non fece mai neppure con Debussy . Risale al 23 febbraio 1906 il primo contatto diretto fra i due artisti: qui inizia la collaborazione vera e propria. Frutto di questa sarà Parisina (che doveva far parte del “ciclo dei Malatesti” assieme alla Francesca da Rimini), un soggetto tratto dal celebre poemetto di Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 3 Lord Byron. Ma anche questa volta, a causa del poeta, le trattative furono abbandonate: ritardava sempre la data di consegna del libretto; inoltre, trovandosi coperto di debiti e perseguitato da creditori, chiedeva di continuo prestiti a Ricordi. Per di più, D’Annunzio si negava talora al maestro, accusando una misteriosa “malattia”, di cui però non resta alcuna traccia negli epistolari. Non fu la sola causa delle fallite trattative: quando Puccini, già spazientito per il comportamento del ‘Vate’, vide finalmente il libretto di Parisina, non lo gradì affatto, considerandolo una mera “riscrittura della Francesca da Rimini”. Il 5 agosto dello stesso anno si registra un nuovo incontro fra i due, dal quale Puccini sembra congedarsi soddisfatto: il giorno dopo scrive a Giulio Ricordi che D‘Annunzio è “sempre un po’ nelle nuvole”, ma che comunque lo ritiene “sceso verso terra abbastanza”3 . Avevano così pianificato un nuovo progetto: La Rosa di Cipro. Questa volta il soggetto è del tutto inedito e D’Annunzio sembra avere idee molto chiare circa la stesura del libretto. Il ‘Vate’ crede in quest’opera: lo dimostra una lettera piena di “fiammeggianti ideazioni poetiche” che spedisce a Puccini, e un’altra, diretta a Giulio Ricordi, ove elogia il lavoro che sta per compiere. I due artisti s’incontrano e il poeta legge al maestro il primo atto della Rosa. Sembra la volta buona. Qualcosa però va storto: qualche giorno dopo, D’Annunzio riceve una lettera di Puccini (andata purtroppo perduta), in cui quest’ultimo annuncia un ripensamento. Il problema, questa volta, erano le loro differenti concezioni di poesia: il toscano propendeva per una poesia carnale, sorprendente, con un “razzo finale”, tutte caratteristiche che il primo atto della Rosa non possedeva, dal momento che l’abruzzese aveva posto al centro del suo lavoro la “pura rappresentazione estetica della bellezza”4 . In altri termini, al musicista era stata proposta una pura e semplice descrizione paesaggistica senza alcun’ombra d’azione! In futuro, questo scritto sarà utilizzato unicamente per lo scenario incluso nell’Allegoria d’Autunno, mentre il soggetto sarà ripreso per la Pisanella. Dopo questo ulteriore fallimento, Puccini e D’Annunzio continueranno a sentirsi sporadicamente, con missive che comunque rivelano grande stima reciproca, anche se in una lettera ad un amico il poeta scriverà: “I miei contatti col maestro lucchese sono stati sterili. Egli si sbigottisce di fronte alla forza della poesia!”5 . Ciò denota che il ‘Vate’, persona orgogliosissima e mai disposta – come ricordato prima – a modificare i propri testi, si era stancato dei continui ripensamenti di Puccini e delle sue critiche. Dal canto suo, il compositore non si rassegnava all’idea che non si potesse trovare un accordo fra loro, e continuava a scrivere lettere supplichevoli a D’Annunzio. A ogni modo, le trattative sfumarono di nuovo nell’autunno 1906. Il poeta non era, di fatto, più interessato a tale collaborazione, anche perché aveva, al momento, parecchi progetti da cui si aspettava successi. Non fu così: nell’ottobre dello stesso anno, ci fu la prima di Più che Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 4 l’amore, una tragedia moderna che, di là dal ‘fiasco’, scatenò un vero e proprio pandemonio. All’uscita dalla sala, il pubblico, scorgendo un gruppo di forze dell’ordine, gridò a squarciagola: “Arrestate l’autore!”. D’Annunzio fu costretto a scappare dall’uscita di sicurezza. Non sappiamo se i due, nei cinque anni che seguirono, si incontrarono, dal momento che non ci è giunta alcuna corrispondenza. Questo, peraltro, è plausibile. Certo è che, nel 1911, i contatti fra i due ritornano assidui: ripartono le trattative per il quarto progetto, La Crociata degli Innocenti. Puccini, questa volta, mette le mani avanti, spiegando in più occasioni al poeta quanto desidera, ossia “amore, dolore, grande dolore in piccole anime”. E così sarà. La trama è molto più ‘tradizionale’, del tutto consona alle richieste pucciniane. Si narra di un pastore, Odimondo, che tradisce la fidanzata, Novella , con una prostituta lebbrosa, Vanna la Vampa. Quest’ultima, per guarire dalla malattia che l’affligge, deve bere il sangue di un innocente, e perciò il pastore sacrifica la sorellina Gaietta. Ma un mistico Pellegrino non solo risuscita l’uccisa, ma converte anche a vita spirituale la donna di malaffare; dopodiché tutti si mettono in viaggio con un gruppo di bambini (gli innocenti) verso la Terra Santa. La nave cade però in mano a briganti, che vogliono vender tutti come schiavi. Ad un certo punto c’è una colluttazione e, per disgrazia, Novella e Gaietta cadono in mare e muoiono. Questa è la punizione di Odimondo per il delitto commesso. La trama è talmente vicina al gusto del maestro lucchese che, più tardi, i critici insinueranno che l’opera possa avere suggerito l’atmosfera e alcuni caratteri della Turandot. A novembre Puccini viene ospitato per due giorni dal poeta ad Arcachon (D’Annunzio si era trasferito in Francia dal 1910 per cure odontoiatriche). Anche dopo questo periodo, in alcune lettere ad amici, il ‘Vate’ sembra piuttosto spazientito dall’incontentabilità del maestro circa i suoi scritti. Puccini però era già al lavoro per musicare il primo atto, benché questo tardasse ad arrivare. D’Annunzio lo terminerà solo nel 1913 e Puccini, leggendolo, ne sarà entusiasta, anche se con qualche riserva: “Caro Gabriele – ho nelle mani lo scritto tuo – l’ho letto e lo rileggo: mi penetra poco a poco – e voglio che mi trapassi! […] non mi stancherò mai di raccomandarti = laconismo = cioè l’economia delle tue belle parole – per la mia brutta musica!”6 . Ma, a prescindere da tali osservazioni, il primo atto gli era piaciuto davvero molto. Qualche giorno dopo, il poeta spedisce al maestro pure gli altri atti, mostrandosi entusiasta del proprio lavoro. Scrive: “Vedrai come io abbia conciliato l’elemento mistico con l’elemento drammatico (ed era difficilissima cosa!)”7. Ma quando Puccini riceve gli scritti non è affatto della stessa idea: quelle scene gli appaiono inaccettabili, alcuni elementi su cui si erano accordati sono stati cambiati radicalmente, tutto è diverso, in una parola, da quanto pattuito. In una lettera a un’amica, il maestro toscano definirà la Crociata una “piccola, informe mostruosità”. La colpa, questa volta, non Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 5 può non essere attribuita a D’Annunzio: persino Tito Ricordi, dopo aver letto gli atti, lo accuserà di non averci creduto abbastanza e di non aver speso al massimo le sue potenzialità, a differenza di quanto fatto dal Maestro. Il progetto viene, per l’ennesima volta, abbandonato. Nello stesso anno, forse consapevole di aver sbagliato e desideroso di riparare, è il poeta a proporre a Puccini la creazione di un atto unico: rimase solo una proposta, anche perché il toscano era alle prese con altre opere (di futuro successo), e l’abruzzese aveva trovato, nel frattempo, due compositori che lo accontentavano in tutto e per tutto: Pietro Mascagni e Ildebrando Pizzetti. Nel 1914 cessano definitivamente le trattative fra due dei più grandi artisti del primo Novecento. Durante l’impresa fiumana, Giacomo Puccini, in una lettera a un amico, lascia trapelare il disappunto per l’estremismo dannunziano e commenta: “D’Annunzio non è contento e occupa”. Tuttavia, nel 1921, il maestro sentì il bisogno di scrivere al “recluso di Gardone” il proprio entusiasmo per la svolta del Notturno: “Auguri fervidi! Il tuo nuovo libro ha pagine di vibrazione e di sentimento che conquistano e affascinano”8 . Ma un episodio singolare, quasi inspiegabile, è quello della commemorazione del maestro alla sua morte (29 novembre del 1924). Il comitato per le onoranze funebri aveva scritto a D’Annunzio affinché componesse un discorso per il defunto, che avrebbe dovuto essere pronunciato all’inaugurazione di un monumento in suo onore. D’Annunzio non rispose. Prima di condannare il gesto, è opportuno tuttavia ricordare che il periodo del Vittoriale fu molto buio e che il poeta non fece mai uscire alcuna lettera dai cancelli di Gardone. D’altro canto, egli non era nuovo a questi episodi: un fatto simile era successo alla morte di Wagner. L’ultima parola sul loro rapporto toccò proprio al Vate, che nel Libro Segreto scrisse: “Ecco il lago di Massaciuccoli (a Lucca, terra natia di Puccini) tanto ricco di cacciagione quanto povero d’ispirazione”. Quell’ispirazione carente, sembra dire il poeta, avrebbe dovuto essere soccorsa dalla sua di “poeta immaginifico”: andava invece a inserirsi nel novero degli atti mancati, delle delusioni, dei rimpianti".
Note 1. A. Simeone (a c. di), Gabriele D’Annunzio, Giacomo Puccini, Il carteggio recuperato (1894 – 1922), Carabba, Lanciano, 2009. 2. Lettera di D’Annunzio a T. Ricordi del 16 febbraio 1906. 3. Lettera di Puccini a G. Ricordi del 6 Agosto 1906; Lettera di D’Annunzio
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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1091
Ritrovo e pubblico con piacere: è il ricordo di uno dei mille eventi musicali che hanno costellato la mia vita, raccontato sulla sua rivista dal prof Luigi Scialanca, uno che fa cultura, che è cultura. E per questo la scuola sa redimre a skolé.
“ScuolAnticoli Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
“La Musica e il Canto popolare nella Valle dell’Aniene Professor Giulio Sforza - associazione culturale Vivarium Civico Museo d’Arte Moderna di Anticoli Corrado, sabato 13 ottobre 200 |
“Sabato 13 ottobre 2007, in una sala dello splendido Museo di Anticoli Corrado, abbiamo partecipato a un evento che è stato anch’esso un’opera d’arte. E che, in quanto tale, ha suscitato in noi la fantasticheria di un futuro in cui sarà forse possibile “incorniciare” e conservare, nella loro sensuale pienezza, non solo il “testo”, ma le emozioni, quello che potremmo chiamare il “clima” personale e interpersonale, i colori, le scoperte, i silenziosi soprassalti dei momenti perfetti che di quando in quando ci sono offerti da persone eccezionali, o da persone comuni in un eccezionale istante di assoluta “grazia”, o da entrambi quando i primi, com’è accaduto in questo caso, riescono quasi per magia a dar vita nei secondi a una così rara condizione. Parliamo delle Riflessioni sul canto e la musica popolare che il professor Giulio Sforza ha generosamente condiviso con noi nel corso di uno dei più suggestivi appuntamenti di questo bel Festival degli Antichi Suoni che da settembre anima i finesettimana della Valle dell’Aniene. Riflessioni che non sono state oggetto solo di una “conferenza”, ma al tempo stesso anche di uno spettacolo e di un concerto; e nelle quali Giulio Sforza ha saputo così meravigliosamente coinvolgerci da trasformare anche noi in una sorta di “coro” interpretante e commentante: certo, non così esperto e versatile come il vero coro dell’associazione Vivarium che frattanto le illustrava con i suoi canti, alla ‘mbriachegna e non, ma in qualche modo altrettanto presente, altrettanto consapevole dell’importanza della propria funzione nell’assicurare la godibilità e il successo dell’evento. “Insegnanti” di questa fatta sono così rari che incontrandone uno viene spontaneo chiamarlo, piuttosto, Maestro. Poiché, presentando il volume I Vivaresi e il Canto Popolare, antologia di musiche e testi scelti e annotati da Beatrice Sforza e Francesco Petrucci, il professor Sforza ci ha letteralmente sollevato e portato con sé (con la parola, col gesto, col terribile sguardo animato non soltanto da implacabile intelligenza, ma anche, per fortuna nostra, da affabile levità ― non a caso è L’evità il titolo della sua ultima raccolta di liriche dell’immanenza) dalla Grecia dei culti dionisiaci alle osterie di Vivaro, dalla Bayreuth di Richard Wagner alla Pescara di Gabriele D’Annunzio, dai monti ove con lui dimorò Zarathustra (Giulio Sforza, Canti di Pan e Ritmi del Thiaso, Subiaco, 2005, p. 74) alle meno rischiose valli ove gli apprendisti come noi si accontentano e son già deliziati dal sentirne parlare così profondamente e voluttuosamente: pendevamo dalle sue labbra, né più né meno come il coro dell’associazione Vivarium pendeva dalla sua mano e dal suo diapason, e a poco a poco la parola e il canto si son fusi nelle nostre menti in quell’armonia così rara, così difficile da ottenere, che è dei sensi e dell’immaginazione insieme”. Il prof Scialanca riproduce anche la quarta di copertina dei mei volumi poetici, aggiornata in Dis-Incanti. Fa piacere riprodurla amche a me a vantaggio di chi vorrebbe saperne di più sull’autore di queste …dianoie metanoie paranoie…Più paranoie, per la verità!
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1090
Giornata uggiosa. Minaccia pioggia. Al mio borgo su 134 iscritti finora hanno votato in undici, me compreso anarchico conclamato. Ho ceduto alle richieste di una donna. Merito per questo condanna? Amici anarchici andate a votare, perché non debba troppo vergognarmi. Frattanto io mi rilasso con qualche strofetta metastasiana, che fab proprio al caso, come
“Se a ciascun l’interno affanno
Si leggesse in fronte scritto
Quanti mai che invidia fanno
Ci farebbero pietà”.
e con la lettura delle serissime facetissime genialissime comico-tragico-surreali “Intermittenze della Morte” di Saramago, che nel suo simpatico e comodo stile di scrittura, che elimina quasi tutti i punti di interpunzione, al quale sarei tentato di adeguarmi, ci dnarra delle conseguenze che in uno Stato imprecisato causa un mattino di capodanno l’improvviso sciopero generale della morte.
e per associazione di idee mi sovviene della Sibilla cumana che, impetrata dagli dei l’immortalità e ottenutala, avendo dimenticato di chiedere contemporaneamente la giovinezza eterna invecchiava a tal punto da diventare sempre più una sorta di larva e finire entro un’ampolla e ai devoti che le chiedevano Sybilla ti teleis Sibilla che desideri ripondeva con voce impercettibile come proveniente da lontananze siderali apothanein telo apothanein telo voglio morire voglio morire.
Ed ora ‘Chairete’ se potete.
*
Vagando per la rete mi sono per caso imbattuto nel seguente intervento di Lorenzo Fortunati che si pone il problema della libertà della rete, sempre ma in quel periodo particolarmente sentito e discusso: argomento che egli trovò trattato da me nel post 241 (26 gennaio 2010) di questo blog, e che volle, con parole assai elogiative nei miei riguardi di cui lo ringrazio, riproporre all’attenzione ei suoi lettori. È il caso che anche io qui lo riproduca, ritenendo il problema della libertà della rete dal recente episodio dello spegnimento del mio blog per alcuni giorni riposto, poiché mi sembra che in esso il tema sia trattato da me con una chiarezza che non mio è solita e in uno stile piano che non mi fu e non mi è troppo familiare.
Scrive dunque Lorenzo:
“Settantasettenne e inattuale, da due anni blogger, uomo di rara cultura e sapienza, Giulio Sforza è capace di donare a noi internauti ‘consumati’ una interpretazione della libertà del Web che millenni luce avanti a quella dei tanti meschini Riottelli che abbiamo per l’aere digital televisivo, invocando filtri, cani e guardiani per le rete di domani.
Stavolta le sue parole sono semplici, almeno in gran parte, per cui segue un invito alla lettura che rivolgo a voi amici. Riporto qui un post del suo blog Dis-Incanti, ma non commentate qui sotto, non solo almeno: vi chiedo di lasciare un piccolo commento, direttamente a lui, QUI. Anche un seplice ‘grazie’ avrà del valore”.
Post 241 di Giulio Sforza
“Verità, verità, verità, che è la Verità? Chi più esplicitamente, che implicitamente, tutti alla fatidica parola fanno riferimento. Ma quale la verità che si vorrebbe dalla rete? La verità di chi? Io credo che richiedere ad essa qualcosa di più che una pura e semplice precisione di dati, dico dati, e di opinioni, dico discutibili opinioni, sia prevaricante e prepari la strada alle censure indiscriminate o mirate (cosa che del resto già si sa avvenire o minacciarsi da più parti) dei regimi preoccupati solo della loro verità, cioè del loro potere. Chi di grazia dovrebbe controllare i contenuti del Web, le idee dei suoi utenti, magari i loro aborti di idee, le loro idee insanite od in sanie? E con quale diritto? Che una nostalgia strisciante per le sacre investiture e i diritti divini si stia impadronendo degli spiriti deboli? Che sia già pronto, da qualche parte l’Indice dei siti e dei blog proibiti, in procinto di essere pubblicato e con violenza difeso dagli sgherri delle nuove Inquisizioni (laiche o religiose che siano), appena la vigilanza degli spiriti liberi e forti s’allenti? E che stia risorgendo un Istituto per la preservazione della fede? E che si preparino i roghi per i dissidenti e gli eretici, per i naviganti che amino vagare e ‘bacchabondare’, posseduti da ulisside smania di conoscenza, alla ricerca di mondi diversi, fuori dalle prescritte rotte? Simile ad una tavola imbandita sia il Web, ricolma di ogni ben di Dio e di ogni più diabolica, magari attossicante, pietanza, premessa ineliminabile, per altro sì per ogni pericolosa abbuffata ma anche per la più squisita delle autoeducazioni alimentari. Cornucopia ricolmo la rete cui ad ognuno sia consentito di accedere che fame e sete di conoscenza tormentino. Come si può pretendere che l’autoeducazione ( e tale è solo e sempre una verace educazione) alla continenza del sé (cum-teneo, tengo insieme unito) possa veramente avvenire? Non è l’abbondanza delle opportunità e delle disponibilità fondamentale perché una libera scelta sia pensabile? È forse possibilità di locupletazione ove non sia variegatissima offerta? Ed è possibilità di libertà ove non sia possibilità di totale libertà? Non è forse la libertà il più alto dei rischi? Ma non è forse il rischio della libertà pur sempre minima cosa al confronto dei danni certi che la mancanza di libertà assicura? So bene la libertà essere, in ogni campo, figlia di estremo rigore; e so di tutti i bla bla moralistici che i propugnatori delle scelte obbligate (ivi compreso il grande dandy dell’esistenzialismo engagé Jean-Paul Sartre) oppongono alle argomentazioni, per essi sofismi, di chi nega l’esito obbligatorio della libertà dover essere la scelta, in realtà della libertà sostanziale negazione. Atto supremo di libertà è anche, e non è più di tanto paradossale, morire, come l’asino di Buridano, di fame e di sete, non certo per incapacità di scelta, ma per non volontà di scelta, per ludica, orgiastica, débauchée fedeltà alla libertà di scelta, che è anche scelta della non scelta.
Temo proprio, anzi non temo affatto, me ne compiaccio, doverci tener quell’universale Nous poietikòs ed insieme pathetikòs (che volgare dirlo contenitore!) che la Rete rappresenta tale quale è, e lottare perché tale e quale, salvi fatto gli auspicabili perfezionamenti tecnici che dilatino gli orizzonti e le opportunità, rimanga”.
Chàirete Dàimones
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1088
Dieci giorni fa davo il mio bonsai Ginseng, dono di Lilli, per definitivamente morto, Gli erano rimaste solo tre foglioline semisecche. Poi il miracolo. Bastò che lo spostassi all’ombra perché, senza altro intervento da parte mia, risuscitasse. E così, giorno dopo giorno, assisto al rispuntare di nuove foglioline con la stessa tenera emozione con cui riassisterei ai primi vagiti di neonate nella loro rustica culla.
*
Riflessione mattinale stamane sotto la vasta ombra del pioppo gigante.
Il terzo trentennio della mia vita nel tempo, ancora soltanto simbolo, eikòn, dell’Eterno, sta per concludersi, e il quarto annunciarsi nel corso del quale, presumibilmente, il mio tempo da solamente immagine dell’eterno, conclusosi il percorso epistrofeico, tornerà aionio nel seno dell’Uno.
Platone e Plotino mi attendono.
(Ma ho fatto anche riflessioni meno impegnative e più leggiadre, osservando il via vai di bellissime donne coi loro cagnolini e i loro sorrisi al Vegliardo, fantasma ormai arcinoto vagante da un decennio per sentieri e prati di Casal Nei e dintorni).
*
Goethe oggi, sul suo almanacco durch das Jahr 2024, mi regala questa delicatissima poesia, dedicata a colei che è Rosa delle rose, Giglio dei gigli.
Gegenwart
Alles kündet dich an! Erscheinet die herrliche Sonne,
Nota. Sonne, sole, in tedesco è significativamente femminile. Donde Schoepferin, Creatice. Mentre Mond, luna, è maschile. Questa la capisco di meno. Aboliti prima del Manifesto futurista il …chiaro di luna ed ogni altra lunare romanticheria?
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Tornato a Il Sole 24 Ore domenicale dopo anni. Non me ne son pentito. Il suo supplemento culturale domenicale è tra i migliori, se non il migliore, di tutti i supplementi dei quotidiani nostrani. Peccato (celio, naturalmente) vi scriva ancora il Cardinale Ravasi. In realtà ho sempre trovato e trovo il contributo dello studioso Ravasi preziosissimo, e Il Sole 24 Ore ne esce notevolmente arricchito.
*
La nuova Euridice secondo Rilke, di Salvatore Sciarrino all’Auditorium Santa Cecilia.
A parte i singulti e i sospiri e i soffi dei flauti e di altri strumenti che una volta eran votati a emettere suoni, e la strepitosa voce del mezzosoprano Halligan, il resto …boh! Non riesco a districarmi nel generale groviglio di voci e rumori.
Segue Il Magnificat di Bach. Pappano tenta, per lo più sforzandosi di leggere la (non) partitura, un arzigogolato forzato e sgrammaticato collegamento tra il genio di Eisenach e l’ingegnoso Palermitano. Fatica sprecata, caro Sir!
*
Al Liceo, non so perché, amavo e ammiravo Vico. Lo ritenevo un Kant mediterraneo. Quanto mi sbagliavo! Col teorico dei Trascendentali non aveva nulla a che fare; in sostanza a fare e a governatre la Storia ideale eterna era, nella mente del Napoletano, un Trascendente in forma di Provvidenza, all’Uomo era riservato solo il compito di capire quale fosse la volontà di Dio e starsene 'contento al quia! Bella novità davvero! C’era bisogno di scomodare tutto lo scibile umano, cosa ch e Vico straordinariamente fa? A farmi ricredere sul Vico filosofo fu anche la scoperta del Vico uomo :bigotto, oscurantista, nemico dei Lumi, dei loro teorici, del loro Secolo, negato, per meschina scelta, alla Conoscenza; un vile, in sostanza, un personaggio senza dignità, tetro e invidioso (jettatore, lo dicevano!) che passa la vita a fare inchini e ‘genuflessioncelle’ d’uso, a elemosinare senza dignità riconoscimenti e favori per sé e per i figli (al primo dei quali, mediocre, Gennaro, riesce addirittura a lasciare in eredità la sua cattedra – prassi per la verità, se si eccettuano pochi lodevolissimi casi, mai sconfessata degli Atenei soprattutto italiani ove regnarono e regnano, come in ogni campo della pubblica e privata amministrazione, il nepotismo e il favoritismo il clientelismo il portaborsismo più sfacciati che portano alla moltiplicazione degli insegnamenti i quali, se un giorno riguardarono la totalità complessa di una disciplina con i suoi agganci interdisciplinari, via via sono arrivati a riguardare un paragrafo di quella disciplina se non una parola di quel paragrafo, quel solo paragrafo, quella sola parola che gli aspiranti, per lo più pecorescamente affiliati a sette politiche e religiose di ogni colore, conoscono); che spende il suo tempo di titolare di una cattedra universitaria di retorica, per quanto ritenuta a Napoli, dico a Napoli (dio, che paradosso!) ultima nella graduatoria degli insegnamenti, a scrivere dediche epitaffi epitalami e bolse celebrazioni di ogni genere per politici, dignitari, soprattutto ecclesiastici, i loro servi figli e famigli.
Per quanto riguarda la dottrina, tutto quello che Vico dice era stato variamente e meglio detto, con più verità ed ironia (di cui Vico è totalmente sprovvisto) da Lucrezio a Montaigne e senza i piagnistei e senza i ricorsi al 'deus ex machina' di una trascendente Provvidenza chiamata all’ingrato compito di giustificare i mille non sensi, le assurdità, le malvagità, le iniquità, le atrocità, nessuno osi negarlo, di un mondo evidentemente mal riuscitole.
A salvare il salvabile di Vico e a nobilitarlo penseranno gli Hegel gli Hoelderlin gli Schelling e, da noi, i Gentile e i Croce . E ciò un pochino me lo riavvicinerà. Astuzia della …Provvidenza!
*
Due pensieri consolatori ad hoc per me. L’erba cattiva non muore mai. Per uno, per una che t’odia, cento ti vogliono bene.
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1087
Una collega dell’Università di Łodz), Miroslawa Zalewska Pawlak, con la quale negli anni ho più volte felicemente collaborato, in Polonia e in Italia, mi ha chiesto l’autorizzazione di pubblicare come introduzione a un testo di Autori vari da lei curato, e dedicato ai destini e ai ruoli dell’Educazione estetica in Europa e fuori, una riflessione che avevo scritto per introdurre il volume Musica mundi della compianta mia collaboratrice Maria Teresa Luciani, poi ripubblicata nel volume Vitam impendere Pulchro dell’Editrice Anicia. Naturalmente gliela accordai volentieri, ignaro delle complicazioni che la legge dei diritti porta con sé. Le difficoltà nacquero dal rettore e dall’editore che volevano giustamente i riferimenti alle fonti delle poche citazioni presenti nel mio testo, principalmente di quella conclusiva di Elias Canetti riguardante il tema stesso del volume in corso di stampa, sul ruolo della musica nell’educazione estetica. La cosa mi infastidì non poco: io cito sovente a mente, grazie alla buona memoria di cui il buon Dio mi ha dotato. Ma per i polacchi la questione era essenziale, per cui ne seguì uno scambio di lettere tra me e Mira di cui cito quella che per me avrebbe dovuto essere risolutiva, anche se negativamente. Scrissi:
Cara Prof Mira,
mi sento obbligato a rispondere negativamente alle sue insistenti richieste. Dovrei rovistare senza successo fra le montagne di libri che giacciono ormai morti e polverosi affastellati sugli scaffali delle mie librerie. E non ritiene anche Lei che a novanta anni e sei mesi io abbia altro a cui dedicare il poco tempo che mi resta? In uno dei libri di Canetti in mio possesso (sicuramente ‘Massa e Potere’, ‘Autobiografia’, ‘Auto da fé’ e forse qualcun altro) troverei la ...'carta di identità' che vi serve, ma sarebbe come cercare un ago in un pagliaio e io sinceramente non ne ho le forze. Non sono mai stato un topo di biblioteca, nemmeno delle mie. E poi mi rendo conto che lo stile affabulatorio e declamatorio così poco scientifico che mi caratterizza, e che è anche del mio contributo, poco s'addirebbe al vostro testo, la cui dignità scientifica finirebbe per compromettere. Quindi tagliamo la testa al toro: eliminate il contributo con le mie ciance da esaltato e non se ne parli più. La serietà e credibilità del vostro volume certamente ne guadagneranno. Non perdete altro tempo con me. Ne sarei dispiaciuto. Vi chiedo perciò scusa e mi ritiro in buon ordine Ed auguro alla vostra impresa la bella riuscita che sicuramente merita.
Con affetto e stima immutati.
Mira mi scongiurò di recedere dalla determinazione e mi misi alla ricerca. Ricordai che tanti anni fa una mia ex allieva, Maria Clotilde Nera, aveva discusso con me la sua tesi di laurea sulle ”Implicazioni educative del pensiero canettiano”. Ne ritrovai il telefono e mi diede la preziosa indicazione: il brano da me citato era tratto da Elias Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano 1978, p. 35. Ora mi chiedo anche perché mai io abbia citato Canetti, se la mia opinione è alquanto diversa e più complessa della sua e da me solo in parte condivisa. O forse proprio per questo meritava di esser citata?
Eccola comunque, e non mi dispiace che col titolo Musica e dis-educazione estetica. Un tragittto ventennale sia piaciuta agli amici polacchi e con essa vogliano introdurre il loro volume collettaneo dedicato a Frau Musika e al suo auspicabile contributo alla super-umanizzazione dell’Uomo ancora sospeso tra la scimmia e il Super (Oltre) Uomo.
«La musica è la migliore consolazione già per il fatto che non crea nuove parole.
Anche quando accompagna delle parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo
delle parole. Ma il suo stato più puro è quando risuona da sola. Le si crede senza
riserve, poiché ciò che afferma riguarda i sentimenti. Il suo fluire è più libero di
qualsiasi altra cosa che sembri umanamente possibile, e questa libertà redime.
Quanto più fittamente la terra si popola, e quanto più meccanico diventa il modo di
vivere, tanto più indispensabile deve diventare la musica.
Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle
funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il
compito più importante della vita intellettuale futura. La musica è la vera storia
vivente dell’umanità, di cui altrimenti possediamo solo parti morte. Non c’è bisogno
di attingervi, poiché esiste già da sempre in noi, e basta semplicemente ascoltare,
perché altrimenti si studia invano»
*
Rimpiango l’epoca dei piombi.
Sono a circa metà lettura (per doverosa ulteriore informazione, dopo le mie prese di posizione nei confronti del Giambattista Vico padre quale emerge dal racconto di Marcello Veneziani) de “Il figlio di Giambattista Vico” del giovane Giovanni Gentile, nella recente ristampa, da parte dell’editrice Primiceri di Padova, dell’edizione napoletana di Pierro del 1905, che narra le vicende di Gennaro, il figlio prediletto che, dopo infinite umilianti riverenze e infiniti baciamani suoi e di suo padre, riuscì a succedergli nella cattedra di Retorica. Già provo fatica e rabbia. Fatica per la ricchissima meticolosa documentazione del giovane Gentile che ho molta difficoltà a seguire (non ho la natura del topo di biblioteca, non ho la pazienza dello storico: preferisco che altri si dia da fare per me nella faticosa opera di ricerca, preferisco che mi si metta, per parafrasare il Poeta, innanzi onde poi per me mi cibi). Rabbia perché sono tali e tanti i refusi del volume, che si tratta di una vera e propria indecenza. Un solo esempio fra le centinaia: il verso virgiliano Felix qui potuit rerum cognoscere causas diventa Felix qui potuti veruni cognoscere causas! E in traduzione rerum, delle cose, diventa della malattia. La punteggiatura poi sembra messa a casaccio, e non si contano gli strafalcioni incomprensibili dovuti alla semplice digitazione. Sarebbero questi i miracoli delle nuove tecnologie? Dove i correttori di bozze che sappiano almeno leggere e scrivere? Ma la colpa non è delle tecnologie, sebbene dell’ignoranza, dell’ignavia e dell’amor sceleratus habendi di stampatori ed editori.
Sì, rimpiango l’epoca dei piombi gutemberghiani.
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Chàirete Dàimones!
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1086
Le prime rondini sfrecciano nel cielo arabescando.
In quale cielo di quale galassia starà giocando la mia rondinella Schwälbchen che fece il suo primo nido nel mio cuore?
Ed è tornata, tubando con la poca e roca voce che le rimane, la vecchia colomba Taube. Si è affacciata sul verone giusto il tempo di lasciare per me un saluto fecale. L’unico, ritiene, ch’io meriti.
Cattiva e ingrata d’unaTaube! Ma io perdono, da quel santo che sono!
*
Da quando ho dichiarato guerra alla morte sto meglio, e sono sereno. Vincerà lei, ma io avrò l’onore delle armi.
*
Oggi la rifaccio un po’ lunga, per compensare la mia inusuale laconicità e i silenzi degli ultimi giorni. Lo esige la natura dei miei sogni, il sogno del sonno e quello del risveglio.
Ho incontrato stanotte la professoressa Angelamaria Jacobelli Isoldi che, smessi gli abiti di filosofa, indossava nella ‘finzione’ onirica quelli di una illustre geriatra e psicoterapeuta che si curava dei miei acciacchi e deliri, per fortuna non trementes, senili. Nella vita ‘reale’ era stata presidente di Commissione alla mia Maturità da privatista ad Imperia nel 1948, e l’avrei poi reincontrata, guarda il Caso, o la Provvidenza vichiana, da umile suo collega all’Università di Roma. Alla prova di maturità l’avevo subito avuta alleata, più che giudice, con evidente giustificato fastidio dell’acida commissaria di chimica, offesa della mia semi-ignoranza nel suo campo, avendo io imbottita la mente di migliaia di formule (effetto di un insegnamento puramente formale) ma del tutto ignorante essendo dell’uso pratico di molti semplici prodotti chimici, tipo l’ammoniaca. Si mostrava visibilmente gelosa delle preferenze da me riservate alle discipline filosofico-linguistico-letterarie, nelle quali brillavo. Rispondevo alle domande della Presidente (con la quale s’era subito prodotta una spontanea profonda intesa, figlia di quel sentimento di romantica Ahnung -foscoliani amorosi sensi o goethiane affinità elettive-, che noi diciamo, spesso abusandone ed equivocando con simpatia, naturale empatia) con fervore esaltato; dicevo di Bruno, Campanella, Vico, Kant, Nietzsche, Gentile, Bergson , Marcel…, gli autori da lei nelle sue ricerche di studiosa approfonditi, da me prediletti, con foga inarrestabile. Qualche maligno sussurrava di una nostra pre-intesa. Nulla di più falso. Io fino a quel momento l’avevo conosciuta solo come moglie di un già noto giornalista destinato a una gloriosa carriera, quel Jader Jacobelli dalla famosa, per i miei orecchi indisponente ma a suo modo simpatica, zeppola, uno tra i migliori giornalisti del tempo.
La conclusione fu che nel giudizio finale fui molto, da lei non solo, assai lodato, nonostante la stizza della commissaria di chimica e qualche altra insignificante riserva da parte del prof di ginnastica, e risultai di gran lunga il primo non solo dei privatisti ma di tutti i candidati della Commissione. Feci colpo, come si dice.
Ricorderò sempre con stima ed affetto grandi Mariangela Jader Jacobelli, morta assai anziana nel 2018. E la risognerei volentieri nella veste di curatrice delle mie senili dianoie, metanoie, paranoie.
Ora dirò del bel sogno fatto nella ‘realtà’ del risveglio.
Se con Goethe e i suoi pensieri ‘Durch das Jahr 2024’ (Lungo l’anno 2024) ogni sera son solito addormentarmi, col Rudolf Steiner dello ‘Seelenkalender’ (Calendario dell’Anima) una volta a settimana mi desto.
Questa mane è la volta della ‘Dritte Woche’ (terza settimana) di ‘Frühling’ (Primavera), che è proprio quello che mi ci vuole per risollevare il mio spirito tentato di depressione. La strofa in versi liberi è quella che, appresa a mente, sovente quasi giaculatoria mi ripetevo negli anni della giovanile esaltazione, e che riassume l’essenziale di quell’olismo, sentimento stordevole del proprio esserci nell’Esserci di tutte le cose, che animò e diede senso ai momenti più belli della mia vita.
“Er spricht zum Weltenall / Sich selbst vergessend / Und seines Urstands eingedenk, / Des Menschen wachsend Ich: / In dir, befreiend mich / Aus meiner Eigenheiten Fessel, / Ergründe ich mein echtes Wesen”.
“Così parla all’Universo, di sé dimenticandosi e memore del suo primordiale stato, l’IO dell’uomo in crescita: in te liberandomi dalle catene della mia particolarità, io scopro la mia vera Essenza.
A questa strofa ero solito unire quella dello steineriano Arturo Onofri, finissimo poeta illuminato, trascurato dalla tronfia incultura post-bellica. Si tratta dell’inizio di ‘Terrestrità del Sole’, che con la seguente invocazione alla Natura steinerianamente recita:
“Madre, ch’io mi dimentichi della mia forma arcana / per confondermi in te nella tua Vita immensa: / Ch’io rompa le strettoie della mia fosca tana, / ove sto nella triste obliquità che pensa, / per sentir nel mio sangue il brivido solare / della tua pura vita….”.
Buon Tutto a tutti.
*
Il musicologo Paolo Di Nicola, caro nostro amico e compaesano, mi fa sapere con gioia di essere finalmente riuscito ad avere dei biglietti per il tempio wagneriano di Bayreuth, il Festspielhaus costruito in maggior parte per volontà dello sventurato Ludwig II di Baviera, ‘folle’, come è risaputo, di Wagner, ove dal 1876 si svolge un festival dedicato esclusivamente alle opere del Compositore lipsiense. Crepo d’invidia. Io ho tentato tutta la vita di averli, ma non mi è mai riuscito, nemmeno col …patrocinio di altissimi personaggi che ebbi, per via indiretta e per ragioni affettive, modo di frequentare: il festival di Bayreuth, mi si disse, rappresenta per chi vi è ammesso, uno status simbol, un palcoscenico per oligarchi di tutto il mondo e relativi codazzi, la maggior parte dei quali non capisce un accidenti dell’arte di Euterpe, non può importargliene di meno, e a Frau Musica preferisce altro tipo di amanti. Pare, dice Paolo, che dall’anno scorso qualcosa sia cambiato. Me l’auguro per voi, amici miei. Io, ormai…
Un’amara considerazione.
Come rilevai, qualche tempo fa l’assenza, in un manifesto pubblicitario di una casa editrice musicale di Lipsia ove erano rappresentati i più grandi musicisti dell’otto-novecento, di un italiano salvo Puccini, così noto che all’inaugurazione del Teatro wagneriano, che coincise con la prima rappresentazione assoluta di quel miracolo che per me rappresenta la Tetralogia Der Ring des Nibelungen (L'anello del Nibelungo, 13- 17 agosto 1876, con Hans Richter direttore regia del compositore, Lilli Lehmann e Heinrich Vogl protagonisti alla presenza di Franz Liszt, Edvard Grieg, César Cui, Walter Damrosch, Hermann Levi, Nikolai Rubinstein, Anton Bruckner, Gustav Mahler, Camille Saint-Saëns, Friedrich Nietzsche, Lev Tolstoj, l'imperatore Guglielmo I di Germania e re Ludovico II; il critico musicale era Pyotr Ilyich Tchaikovsky.) anche qui nemmeno un italiano: eppure il mio amico Richard amò tantissimo l’Italia, fece di Ravello la sua Bayreut italiana, ammirò ed amò la sua storia, la sua cultura passata, anche musicale, in Italia, a Venezia, trasse l’ultimo respiro. E nell’anno del comune centenario girò un simpatico medaglione (che a me piacque tanto da farne uno dei più cari fermagli dei miei foulards) che ritraeva i loro due volti in un solo. Perché il mio amatissimo Richard non invitò almeno il suo coetaneo Verdi? O fu Verdi a rifiutare? Non me ne do pace.
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In una remota epoca un simpatico già scheletrico, per non dire ischeletrito, Brother John, reduce dalle missioni delle Seychelles, tentò di farmi amare la imbarbarita, ai miei orecchi, lingua di Shakespeare (destinata a vieppiù imbastardirsi in bocca agli yenkees), anche attraverso delle canzoncine folkloristiche, una delle quali mi chiese un giorno di accompagnare al piano per i compagni di corso ignari di lettura musicale una canzoncina che mi piacque assai. Si trattava di un motivetto popolare in Inghilterra su testo di Charles Kingsley e musica di ignoto (o di Kingsley stesso’). Kingsley era un fervente ecclesiastico anglicano ortodosso finito cappellano della Regina Vittoria, zelante attivista socialista (ma la sua ideologia non gli impedì di essere un feroce razzista, soprattutto nei riguardi degli irlandesi, rei di reclamare l’indipendenza, che chiamava ‘repellenti scimpanzé’), amico di Darwin e suo corrispondente. La canzoncina mi piacque ed era destinata a mai uscirmi di memoria. Negli anni l’ho anche usata come ninna nanna, fra le mille, per le mie figlie, e fatta spesso cantare dal mio Gruppo corale ‘Metanoesi’. Pure stamane mi sono alzato col motivetto nelle orecchie e tutto il giorno me lo sono involontariamente ricanticchiato (quando sogno musica, tutto il giorno non esco, chissà perché, mai di sogno). Eccone il delicato testo; per la musica dovrete contentarvi della mia trascrizione a mente, non so quanto fedele all’originale. In rete non l’ho trovata e non ho ancora imparato a riprodurre musica sull’ordinateur (il francese è un dispetto agli anglofoni), come lo chiamò nel Seicento quel geniaccio bigotto di Pascal, vero scopritore del diabolico aggeggio. Nelle poche frasi musicali è racchiusa una immensa malinconia. C’è un bambino che parte, e il papà o il nonno o la mamma hanno per lui un estremo dono: un bellissimo insegnamento di vita racchiuso in una malinconica melodia che non ha bisogno di essere scritta in tonalità minore per esprimere tutta la carica di sentimento che implica una separazione.
My fairest child, I have no song to give you;
No lark could pipe in skies so dull and gray;
Yet, if you will, one quiet hint I'll leave you,
For every day.
I'll tell you how to sing a clearer carol
Than lark who hails the dawn or breezy down
To earn yourself a purer poet's laurel
Than Shakespeare's crown.
Be good, sweet maid, and let who can be clever;
Do lovely things, not dream them, all day long;
And so make Life, and Death, and that For Ever,
One grand sweet song.
La melodia, che purtroppo non sono in grado di riprodurre qui, non è meno raffinata delle parole.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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ANNULLATO L'OSCURAMENTO DEL BLOG.
Avevo appena finito di scrivere per fb:
“Il Big Brother orwelliano continua nella sua opera di ag-gregazione ('ad-gregem') alias massificazione, alias ingreggiamento, e riattiva sotto altri nomi Indici e Roghi. Spiriti liberi, Allerta!”
quando mi è arrivata la seguente laconica comunicazione:
‘Ciao Giulio Sforza. Libero Community ha deciso di riattivare il tuo blog Dis-Incanti. A presto’.
Tre giorni fa avevo a mia volta inviato la seguente lettera:
Gentili Signori, Spett.le Italiaonline SPA,
mi rivolgo a voi per contestare la sospensione del mio blog su Libero, avvenuta senza preavviso né specificazione esatta delle presunte violazioni che hanno condotto a tale decisione. In quale post è contenuto il testo incriminato? Non è dato sapere.
Come creatore di contenuti dal 2008, ho sempre operato nel rispetto delle linee guida della piattaforma, ed è mia premura assicurarmi che i contenuti pubblicati siano conformi alle norme vigenti e rispettosi dei diritti altrui.
Il mio blog non è solo un hobby, ma una componente essenziale della mia espressione personale e interazione con la comunità, particolarmente significativa anche vista la mia età avanzata. La sospensione improvvisa del servizio non solo mi ha privato di questo fondamentale strumento di comunicazione, ma mi sta anche causato notevole stress e disagio fisico per i quali spero di non dover ricorrere a cure mediche.
Vi chiedo cortesemente di specificare quali contenuti del mio blog sono stati ritenuti una violazione delle normative, di indicarmi precisamente il post di blog contenente la violazione stessa, fornendomi in tal modo la possibilità di rettificarlo, o al limite, se necessario, di cancellarlo e poi ripubblicarlo in forma modificata..
Sollecito il ripristino immediato del servizio, come previsto dalle buone pratiche in materia di gestione dei contenuti e diritto di autore. La rimozione totale e immediata del blog senza specifiche indicazioni viola il principio di proporzionalità e giustizia, soprattutto considerando il lungo periodo durante il quale il blog è stato attivo e il rispetto dimostrato nei confronti delle norme comunitarie.
Confido nella vostra collaborazione per risolvere questo malinteso e ripristinare il mio blog al più presto. Resto in attesa di un vostro sollecito riscontro.
Mi auguro non vogliate costringermi a ricorrere all’assistenza di un Legale.
Cordiali saluti,
Professor Giulio Sforza”.
Sono felice che la brutta faccenda si sia risolta senza complicazioni. Ringrazio la Community di Libero per essersi dimostrata illuminata e sensibile e torno sereno e rassicurato al mio lavoro.
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Leggo su fb la seguente comunicazione di Kika Joobs:
Ciao a tutti, spero stiate bene!
Volevo condividere con Voi un progetto speciale a cui Jimmi ed io stiamo lavorando di recente: il canale YouTube 'Julia Con La J':
https://www.youtube.com/@IngleseConJulia
Su questo canale nostra figlia Julia insegna l'inglese di base ai bambini italiani, in modo divertente e coinvolgente, con l'aiuto di simpatici personaggi animati.
È un'iniziativa che ci sta molto a cuore, e saremmo felici se poteste seguirci e supportarci!
Ogni visualizzazione e condivisione é preziosa per noi e ci aiuta a far crescere questo progetto che, speriamo possa essere utile a tanti piccoli appassionati dell’inglese!
Finisce che Julia con la J riconcilia con la lingua di Shakespeare anche quel bambinone novantunenne dal nome Giulio con la G suo dirimpettaio, che le vuole un sacco di bene, le fa tanti complimenti ed auguri, estensibili a mamma Francesca, a Papà Jimmi. per il successo della splendida iniziativa.
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Visto il carattere vagamente esoterico (nei personaggi riprodotti e nei simboli) degli anelli cartacei o metallici che uso per sciarpe e foulards, spesso mi si chiede se appartengo a qualche setta. Certo, rispondo, a una importante, aristocratica setta, aristocratica tanto da aver un sol membro: Giulio Sforza.
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Era di Maggio, a metà del percorso di mia vita, circa 45 anni fa, ed ero a Pescara a presiedere un Concorso Magistrale. Era il periodo più turbolento della mia vita, ma anche il più esaltante: il mio superomismo vitalistico era al suo apice, al suo apice la mia infatuazione bruniana e nicciana. Alla primissima alba, prima che il traffico impazzisse, ero solito passeggiare pensoso per le strade antiche e nuove della città del Vate e soffermarmi a lungo a contemplare il sonnolento Pescara dal ponte “Risorgimento” che lo sovrasta e che collega l’antica Pescara e Castellamare, dalla cui fusione era nata la città moderna. Sul ponte pensavo a Muzio Attendolo Sforza, il capitano di ventura fondatore della stirpe, e alla poetessa animatrice, dopo la prematura morte del marito Fernando Francesco d’Avalos nella battaglia di Pavia del 1526, di salotti in odore d’eresia a Roma e nel Castello Aragonese ischitano: di quella Vittoria Colonna dico, che tal Michelagnolo Buonarroti, suo ammiratore e innamorato folle, aveva in una delle sue rime celebrato come Un uomo in una donna, anzi uno Iddio. A Muzio e a Vittoria è dedicato il ponte Risorgimento che collega Corso Vittorio Emanuele con Viale Marconi con solenni scritte, recentemente dal comune restaurate. L’uno era affogato a quel punto del fiume nel 1424, quando il ponte era formato solo da barche malamente l’una all’altra accostate, nel tentativo di salvare dai flutti un suo cavaliere. Lasciava sette figli legittimi avuti da tre mogli, e dieci illegittimi, poi legittimati, avuti da diverse amanti, era diretto a L’Aquila per difenderla da capitani di ventura che se la contendevano. L’altra di Pescara fu duchessa perché moglie di Fernando Francesco d’Avalos marchese d’Ischia e di Pescara. In una di quelle albe pensai i versi esaltati che riportai sul modesto bastone di canna che quella mattina mi accompagnava, la cui impugnatura consisteva in un cimiero in miniatura che avevo acquistato in un mercatino di Porta Nuova e che sicuramente era appartenuto a un pupo di qualche teatrino siciliano…
Questi i versi, di cui solo un poco mi pento:
E in me riviva l’anima di Muzio
E di Francesco. Di guerrieri stirpe
E d’umanisti, della Pax Romana
E delle rinascenti umanità
Vindici illuminati,
Ebbero i miei antenati
Il rispetto del genio nel Da Vinci
E in Jagellone barbaro l’ossequio
Della forza brutale. Febo ed Ares
In fraterno connubio
Protessero gli alari
Del castro longobardo,
E una progenie al mondo generarono
Che lo SFORZA ad esistere.
Sia lode a te, guerriero generoso
Che donasti la vita
Nei gorghi del Pescara (vetus urbis
Numen, patris et vatis
Flumen, due volte sacro
A me) pel Cavaliero.
E me proteggi nell’estremo agone
Contro i gorghi del tempo, onde affogare
Possa, Padre, e m’eterni
Dell’Assoluto nel placato mare.
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