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treasure island (sul retro delle mutande)

Post n°584 pubblicato il 06 Dicembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

non ho neppure più bisogno di scrivere, davvero. sto in silenzio e colleziono mutande da sfilare nella penombra della mia stanza, rimango muta davanti alla meraviglia del mondo che sa commuovermi, che sa farmi dimenticare per ore intere. scrivere, davvero, non ha senso. meglio camminare nella luce abbagliante del sole, o bagnati dall'azzurro liquido di certe giornate, qui, che ti fanno capire sul serio i cieli di Veronese, perché i pittori non hanno inventato nulla. mi perdo nel simpatico grugno di un cane, e trascorre indolore una mezzo'ora intera a lavare le pantofole su cui la gatta ha vomitato per esprimermi, probabilmente, il suo affetto felino. sono solo le cose che faccio - io sono le cose che faccio -  stelle di paglia sull'albero di Natale e leggere il giornale tutte le mattine - una distrazione in più - e la sera, inventarsi sempre un nuovo modo per arrivare al mattino. una formula diversa, un miscuglio di arte e menzogna, senza accoppare definitivamente il fegato, ma quel tanto che basta per calmare il dolore.

 
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Post N° 583

Post n°583 pubblicato il 01 Dicembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

meglio così, un po' di tempo per me, per fare silenzio. mi leggo riflessa in parole di altri, e subito mi sento meno io, meno speciale. chissà poi perché, questa fissazione di sentirsi speciali. vorrei mi avessero insegnato che l'amore non serve meritarselo, mai. se ci penso, mi viene da chiudere gli occhi, e da respirare pianissimo, in silenzio. passare inosservata, questo ho imparato a fare. ma l'ho imparato da sola. che se poi ti capita di essere notata, anche solo per il modo che hai di inclinare la testa, ecco, basta per una settimana intera. perché te lo fai bastare. imparo pian piano a camminare, spavalda muovo i primi passi, per ritrovarmi poi stanca e dovermi appoggiare al muro. ma l'ho sempre saputo che era così, per me. una fatica che non finisce mai. il peso che deve rafforzare le spalle, per poter camminare a testa alta per il mondo. compro girasoli per portare colore nella mia camera, e cucino piatti appetitosi solo per me. mi coccolo. mi lascio cullare. non ho paura a sognare.

 
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Post N° 582

Post n°582 pubblicato il 29 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

È come ritrovarsi all’improvviso muta, ci sono persone che non saprebbero mai ascoltare, e l’unica a cui vorresti raccontare, l’unica a cui vorresti raccontare…così smetti di parlare, smetti di raccontare, smetti di scrivere, smetti di sognare

 
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foto: nizoo - soggetto: i miei piedi

Post n°581 pubblicato il 26 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar









Scarpe leggere per un cuore denso come un buco nero.
Pecora nera della famiglia, mentre mia madre e mia sorella collezionavano scarpe con i tacchi, femminili ed intriganti, rumorose e appariscenti, di tutti i colori esistenti in natura, di pelle o stoffa, con paiettes e perline, fiocchi e applicazioni all’ultima moda, tacco a rocchetto, zeppa, tacco classico – un armadio intero solo per le loro scarpe - io strascicavo passi da adolescente in un paio di anfibi neri, 5 misure più grandi del mio piede – come a voler arrivare prima – o forse, come ancoraggio sicuro alla terra…li ho venduti, poi, quegli anfibi – dopo averci marciato per chilometri di passi e pensieri silenziosi, ovattati nella nebbia e nel buio delle calli - ad un cugino che vive lontano, per andare al concerto dei Soundgarden - i soldi per il biglietto nessuno me li ha voluti dare, a casa. Ma il sangue si trasmette, e la struttura dei geni, a volte, si riflette in un sorriso che, sento, appartiene a lei, anche se il viso e le labbra sono mie, solo mie. Come se affiorasse da dentro, da sotto la pelle. E così per le scarpe. Dna di famiglia. Ma leggermente mutato. Ché io colleziono ballerine, nere, senza orpelli se non un minuscolo fiocco, o ‘gli occhi’, come le scarpe che avevo da bambina, basse bassissime, che camminare raso terra mi piace. Scarpe leggere per camminare silenziosa per il mondo, per camminare non vista, io con il mio cuore di catrame.

 
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Post N° 580

Post n°580 pubblicato il 23 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

 
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Post N° 579

Post n°579 pubblicato il 21 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar










Tutta la magia della festa brucia nella fiamma di queste candele. e brucia timido e sussurrato il nostro amore per la città di pietre e acqua, in giorni come questo. Un giorno qualunque, altrove, qui è la Festa della Madonna della Salute.  Venezia piegata alla sua natura di puttana – ché sembra non aver capito in quale altro modo guadagnarsi da vivere – accoglie i turisti sempre troppo numerosi, come fosse ancora ieri, come fosse già domani. Ma per chi sa leggere i segni, la festa è ovunque, oggi. Alcuni negozi hanno le saracinesche abbassate – non molti per la verità, ma deve sembrare strano a chi viene da fuori leggere qui e lì cartelli con scritto a mano ’21 novembre chiuso’, come se i negozianti – riuniti in una combriccola segreta, con scopi di mutuo soccorso come le antiche Scuole – si fossero messi d’accordo per prendersi un giorno di vacanza da passare magari in montagna, a raccogliere castagne, tutti insieme, come una grande famiglia di mestiere che si riposa prima delle fatiche del Natale. Il fruttivendolo sotto casa tiene aperto solo al mattino, così pure l’Anita del Martin Pescatore, il negozio di animali dove prendo le crocchette alla gatta. Loro, in pellegrinaggio fino ‘alla Salute’, ci andranno di certo nel pomeriggio, perché ognuno ha le sue abitudini da rispettare, anche nella festa, riti famigliari o individuali che scandiscono il tempo di anno in anno, sempre uguali, punti fermi di luce da attraversare di tanto in tanto, che rimangono come piccole rassicuranti certezze quando tutto, intorno, cambia e si perde. Per me è così. Per me oggi è sveglia presto per arrivare in chiesa quando non c’è ancora ressa –  mica sola, io e mio papà, da sempre – e accendere le candele rubando un po’ di fiamma a quelle che già stanno bruciando, per poi passarle al ragazzo che le sistemerà insieme a tutte le altre – e chiedermi mentre fisso l’icona della Madonna Nera sull’altare maggiore perché mai mio papà ne avrà prese addirittura cinque, ché non sta scritto da nessuna parte che le mie due non possano bastare per la salute di tutta la famiglia, compresa le gatte mia e di mia sorella.
Sgrano in silenzio cinque avemarie tenendo il conto sulle nocche delle dita, mentre la chiesa si riempie pian piano, di una folla calda che fa venir voglia di stare tutti ancora più vicini, che fa venire voglia di non andare più via – perché è una città nella sua chiesa, la memoria della pestilenza del 1630 e migliaia di piccole grazie da chiedere, è la città che chiede la grazia per se stessa – e riconosco sempre qualcuno che non vedevo da un po’, una vicina di casa di quando stavo a Cannaregio, una vecchia collega di Marforio, il mio professore di filosofia di quando andavo al liceo. E pensieri uno dopo l’altro, i contorni ben definiti, le poche certezze che ripasso mentalmente alla luce delle candele, ché venire in chiesa mi serve sempre a fare silenzio attorno e dentro, a lasciar affiorare solo quel poco che so per certo, solo quel poco in cui credo – e mi bagno la punta delle dita nell’enorme acquasantiera di marmo in cui galleggiano filamenti di polvere grigia che arriva da chissà quale secolo. Fuori la gradinata della chiesa è scivolosa di nebbia, e c’è nebbia tutt’intorno che non si vede dall’altro lato del Canal Grande, una nebbia che sa di ciambelle fritte e frutta caramellata. In pochi passi raggiungiamo le bancarelle di dolciumi e i venditori di palloncini, che chiudono questo piccolo pellegrinaggio. Da piccola tornavo sempre a casa con un palloncino – di quelli vecchi di un solo colore, uguali a quelli che gonfiavamo al mare per fare i gavettoni, ma  pare non esistano più, non qui, sostituiti dai personaggi della Walt Disney che galleggiano con gli occhi spalancati nel cielo di novembre. Il mio palloncino con la cordicella, legato al trespolo   della biancheria nella veranda di casa, ogni giorno a galleggiare più vicino al pavimento mano mano che il gas dentro si consumava. Ora il premio è uno stecco enorme di zucchero filato, che mi si appiccica alle dita ed intorno alla bocca come fosse una ragnatela dolce,  e ritrovare per un giorno almeno la mia città con tutti i suoi abitanti, tutti , perché oggi non manca nessuno. oggi – ci potrei scommettere – so che lì ci siamo passati tutti.

 
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Post N° 578

Post n°578 pubblicato il 19 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

wishful thinking

(laconica causa pervicace mal di denti)

 
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Post N° 577

Post n°577 pubblicato il 16 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

il cuore, semplicemente, si rifiuta di battere altrove

 
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Post N° 576

Post n°576 pubblicato il 15 Novembre 2006 da sopalmar
 
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Post N° 575

Post n°575 pubblicato il 13 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar









la piccola si nasconde, ora, in un luogo inaccessibile, nascosto giù in fondo, dove stanno le lacrime che non ha mai pianto. Ha sempre abitato lì, ma si era scordata di se stessa - di esistere ancora, altrove - così come si era scordata di tutto quello che nell’oblio le aveva fatto compagnia in quella stanza sempre in penombra. Il suo orso preferito – quello a cui aveva dato troppi nomi, ché ogni volta ne sceglieva uno che pareva perfetto, ma poi sempre finiva per dimenticarlo o sostituirlo con uno migliore – l’orso dalla pelliccia azzurra con la salopette cucita addosso, che le avevano regalato quando era in ospedale per l’ustione, amato e maltrattato – perché quando ami fai così, vero? accarezzi e poi prendi a calci ma solo per accarezzare di nuovo, accarezzare più forte – lui c’era sempre, sul letto, magari coperto dal plaid perché non prendesse freddo, proprio come ora, con il naso ricucito in modo maldestro e la lanugine dell’imbottitura che spunta da un fianco. L’orso da stringere sotto le coperte, quando fuori si allungano le ombre in mostri dagli occhi infossati nel buio, ed ogni scricchiolio del parquet fa battere il cuore a mille e trattenere il respiro per la paura che vengano a portarla via. La casa, la casa dove si trova la sua stanza, è abitata ma, se chiama, nessuno risponde mai. La sua voce proprio non si sente, neppure quando trattiene i singhiozzi soffocandoli tra il cuscino e il letto - rassicurante passare così inosservata, pensa, e progetta di scappare lontano dove non la possano più trovare, dove sicuramente la verranno a cercare. L’anta dell’armadio dei maglioni non si chiude mai del tutto, e se la fissa abbastanza a lungo le sembra di intravedere delle piccole dita di bambino che spuntano da dentro – sono bianchissime ma sotto le unghie la carne è già blu per il sangue ormai rappreso che imputridisce – e lei impietrita fa la guardia dal suo letto, finchè si accorge che anche l’icona di Cristo crocefisso appoggiata su un colto della libreria pare muoversi. Le braccia inchiodate ondeggiano nella luce che filtra da sotto la porta, e le vanno incontro come a volerla calmare, oro dipinto su legno ormai mangiato dai tarli. Il bambino morto che vive nell’armadio non le farà del male, almeno non stasera, e potrà fare a meno di chiamare a gran voce - ‘papà mi potresti portare un bicchiere d’acqua?’ - questa sera non darà fastidio a nessuno, e domani non ci saranno domande irritate sul suo essere strana. Dopo che avevi pianto molto, anche a te si arrossavano così le orecchie, quand’eri piccolo? proprio come succede quando ti asciughi i capelli con il phon, la porta del bagno chiusa, sennò il vapore se ne vola via, anche con un solo spiffero di corrente. Annuisci, e lei ti lascia fare, perché non vede l’ora di fidarsi. Ti lascia fare e tu le sfiori il centro della fronte come se la stessi cresimando, e la sciogli in un pianto d’ argento e olio di lavanda, che le macchia le mani di viola chiaro quando tenta di nascondere il viso ai tuoi occhi, non sapendo che le vedi attraverso le dita diventate all’improvviso trasparenti. E’ come sposarsi - lei tua sposa, tu suo sposo – riconoscersi e sposarsi. Darsi la vita e sposarsi. Le guance rigate di pianto viola e indosso il pigiama di flanella, una sposa bambina ti si rannicchia nel petto, si fa strada tra le due ali di costole che custodiscono il tuo cuore, scivolando indolore come morfina liquida. Chiede asilo. Trova il suo rifugio. Piange, ama, si fa tua. Ancella premurosa che custodisce il sangue nelle tue vene. Vive di battiti regalati - di battiti rubati - in quella stanza che da prigione si trasforma in regno. In alcova. In boudoir. Rimane piccola e si trasforma, gioca sui tacchi e civetta – è bambina, ma femmina - e tutti la guardano, tenendosi un po’ in disparte – il mostro che abita sotto al letto, il bimbo morto nell’armadio, il suo orsacchiotto e persino Cristo crocefisso -  la guardano mentre si abbandona sulle ginocchia, accovacciata in un angolo, al piacere e alla scoperta. La gonna si solleva docile ed il collo abbandonato all’indietro inarca tutta la schiena. Non c’è peccato nel leggere la pelle con le dita – nel farsela leggere – nessun peccato che non possa essere lavato via da una tazza di tè con i biscotti. La punizione – è sicura – verrà, come verrà il giudizio universale alla fine di tutti i giorni. Ma quella che teme, è ora, nel ricordo più bello, quello che rivive ogni giorno senza poterlo più aspettare. Nel suo cuore abbandonato sulle coperte ruvide, che nei mostri dell’immaginazione adesso trova conforto – un girotondo da notte di Ognissanti popolato di creature innocue e un po’ spaesate – lei ti ha riconosciuto. Amore che non si ripete, indossa il lutto come uno splendido abito di velluto di seta, e lo disegna sulle palpebre e le labbra con inchiostro indelebile.

 
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Post N° 574

Post n°574 pubblicato il 10 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar

Ikea therapy per soffocare i rigurgiti di pianto, la cucina Varde come potente antidolorifico, una sorta di cannabis svedese a base di fibra di legno di betulla, neppure tanto cara, 69 euro per una seduta di ben due ore, copripiumone nuovo e le decorazioni in paglia per l’albero di Natale – comincerei ad addobbarlo già stasera se non fosse per la piccola belva pelosa che in mezz’ora vanificherebbe i miei sforzi creativi – e poi immancabili le patatine fritte svedesi, aromatizzate alla panna acida, da sgranocchiare in macchina facendo briciole ovunque che tanto poi le raccogliamo a fine corsa e ci mangiamo pure quelle perché, diciamolo, l’Ikea  fa tornare piccoli e ci perdoniamo a vicenda i polpastrelli imbrattati di olio di semi di girasole e minuscole particelle di patata che lasciano impronte sul volante e sull’involucro del cellulare - è solo un po’ di unto, niente a che vedere con quello che siamo stati capaci di mettere in bocca da piccoli, almeno io che banchettavo sul prato di fronte alla casa in montagna esplorando i misteri del microcosmo dei celiferi con scientifica crudeltà. Poi la gita finisce, e appena metto piede a casa, la spalla dolorante per una borsa dai manici troppo taglienti, mi assalgono pensieri come aria liquida, li respiro senza poter far nulla, perché è l’aria di casa, tra le pareti che non lasciano filtrare il fresco da fuori, ma, forte, non piango, forte, ricordo e basta – a volte ci vuole coraggio a ricordare quello che è perduto – il cuore pulsa nei piedi che fanno male in un modo strano, come se mi accorgessi di averli lì per la prima volta dopo tanto, e allora lo massaggio, il cuore nei piedi, con una crema che sa di bergamotto, lo massaggio finché la pelle non torna morbida e bianchissima, lo massaggio finché mi viene sonno, lo massaggio finché non mi sento un po’ più calma, non felice ma calma, lo massaggio nei piedi finché capisco che non sta solo lì. Lui sta dappertutto.

 
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più che altro, una preghiera

Post n°573 pubblicato il 08 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar










I can fly
But I want his wings
I can shine even in the darkness
But I crave the light that he brings
Revel in the songs that he sings
My angel Gabriel

I can love
But I need his heart
I am strong even on my own
But from him I never want to part
He's been there since the very start
My angel Gabriel
My angel Gabriel

Bless the day he came to be
Angel's wings carried him to me
Heavenly
I can fly
But I want his wings
I can shine even in the darkness
But I crave the light that he brings
Revel in the songs that he sings
My angel Gabriel
My angel Gabriel
My angel Gabriel

 

Onicofagia

 

In genere, come tanti altri piccoli disturbi (tic, stereotipie di movimenti, ecc.), nasce nell'infanzia e si afferma quanto più dall'esterno sono giunti al soggetto divieti e punizioni.
Spesso nasce in situazioni familiari pesanti, caratterizzate da esplosioni e litigi sistematici tra i genitori, nasce avanti ad aspettative parentali troppo alte (di tipo scolastico, agonistico, ecc.), nasce quando il soggetto non sente a sufficienza l'amore dei genitori, nasce per gelosia verso i fratelli, ecc. Insomma nasce in situazioni in cui l'affettività, il mondo dei sentimenti, si esprime - dentro al soggetto e o attorno a lui fuori - come aggressività.
Può accadere allora che il soggetto-bambino cerchi di risolvere l'ansia che quelle situazioni gli provocano proponendosi inconsciamente come oggetto sacrificale.
E mi spiego: egli offre la propria totale remissività, passività ed impotenza, in cambio della liberazione della sua famiglia, di se stesso, ecc., da ogni esperienza di aggressività.
Per chiarire pensiamo sia utile uno schema e qualche esempio:
l'onicofagìa, come molti altri analoghi rituali di tipo ossessivo, sembra prodursi grazie alla concomitanza di tre fattori.
1) Il primo fattore è rappresentato dalla tendenza, in mancanza di procedure dirette e mirate, ad utilizzare espedienti di tipo metaforico. Nel nostro caso osserviamo:
a) che il gesto del portare qualcosa alla bocca, suggere, richiama metaforicamente l'esperienza del seno materno e della madre buona e che, quindi, viene utilizzato per ottenere lo stesso effetto tranquillizzante. Espedienti analoghi sono: portare alla bocca pipe, sigarette, matite, merendine, ecc; b) invece il gesto di rosicchiare richiama metaforicamente quello di digrignare (pronti all'aggressione) i denti usualmente associato alle situazioni di tensione.
Espedienti analoghi sono: rosicchiare lo stecchino, la matita, le lenzuola, masticare chewing gum, ecc.
2) Il secondo fattore è rappresentato da una sorta di soddisfazione autolesionista (quello che in sostanza Freud definiva istinto di morte) unita alla capacità di produrre presenza attraverso la percezione del dolore.
Anche in questo caso si mostra l'ambivalenza inconscia tra tendenza alla quiete mortifera e necessità di restituirsi alla vita attraverso la percezione del dolore fisico.
Per esempio: alcuni si mordono le labbra, la lingua, l'interno delle gote.
3) Il terzo fattore infine è rappresentato dal loop ossessivo prodotto dalla inadeguatezza dell'espediente utilizzato, unito alla rimozione di tale inadeguatezza. Ciò produce la necessità di ripetere il gesto compensatore (coazione a ripetere), magari con maggiore determinazione ed intensità, nella speranza che risulti finalmente adeguato all'appagamento del bisogno. Alcuni, per esempio, iniziano a grattarsi le gambe per rimediare ad un prurito magari lieve e per ragioni analoghe rieseguono il gesto ripetutamente con intensità progressivamente crescente fino a prodursi escoriazioni dolorose e sanguinanti.
L'aggressività di cui il bambino vuole liberare sé ed i suoi cari, è vissuta dal bambino come poteva viverla il nostro antenato delle caverne: un sentimento di annientamento radicale che intende ferire o uccidere l'altro, oggetto di tale sentimento. Dunque: sentimento inaccettabile.
Dunque necessità di esorcizzare la vita personale e la vita dei cari da questo pericolo. Inconsciamente il bambino promette che sarà bravo per sempre se... Sono promesse che spesso da bambini facciamo. Ed egli comincia subito ad essere bravo, ossia innocuo: il gesto del portare qualcosa in bocca da un lato veicola il desiderio del bambino di regredire nella magica ed edenistica situazione garantita dal seno materno; ma dall'altro lato dobbiamo considerare gli elementi del gesto: unghie mangiate dai denti. Entrambi simboli e sopravvivenze di arcaiche armi che il corpo animale conserva: artigli e zanne. Viene simbolicamente eliminato quanto servirebbe ad aggredire il mondo. L'aggressività, forma di energia che è sostanza di ogni essere vivente, uomo compreso, viene così deviata dal mondo e ritorta contro se stessi in quanto letta e sperimentata in un suo solo lato, quello negativista, seppure a due livelli: quello concretistico e primordiale della violenza fisica a livello filogenetico (memoria e imprinting di specie) e quello della disconferma anche psicologica a livello ontogenetico (memoria ed imprinting di storia personale).
Il persistere di questo piccolo grande rituale segnala allora che anche da grandi persiste nell'inconscio del soggetto un conflitto irrisolto rispetto alla gestione dell'aggressività. Ed essa resta inaccettabile perché ancorata e coincidente con l'esperienza di scontro mortale. La relazione che il soggetto ha interiorizzato e sui cui binari conduce la qualità di ogni sua relazione reale è nevrotica perché basata sui ruoli unilaterali forte-debole, governante-governato, ecc.
E a chi non riconosce legittima la propria aggressività resta sempre e solo il copione del bisognoso. Però siccome nessun essere umano può accettare un solo lato, essendo egli portatore dell'unione di opposti, è proprio il più debole che svilupperà aggressività sempre più forte quanto meno accettabile dallo stesso soggetto che la esprime.
E chi si mangia le unghie ha da tempo deciso che l'aggressività è cattiva. Non stupiamoci dunque se proprio tra questi piccoli divoratori, troviamo esempi notevoli di aggressività manifesta.
In realtà l'aggressività è un lato dell'amore. Non c'è amore vero senza aggressività così come non c'è vita vera se non si accetta anche quotidianamente di morire, simbolicamente s'intende.
Il superamento del sintomo è subordinato solo alla presa in carico coscienziale da parte del soggetto di ciò che esso sintomo svela mentre cela e viceversa. Il soggetto può farsi responsabile del profondo significato trasformativo del sintomo solo se riesce a passare da una logica di contrapposizione ad un modo di pensare dialettico dove è prevista, come parte integrante della vita e del pensiero, l'accettazione della conflittualità quale fondamento ontologico dell'esistente: per restare nell'ambito della dimensione affettiva di cui stiamo trattando un esempio è l'amore che si fa esperienza matura e piena solo quando il soggetto può reggere in sé la convivenza di due opposti sentimenti per la stessa persona: attrazione e rifiuto.
Amore per ciò che in lei è amabile, rifiuto per ciò che in lei non è avvertito come amabile. Poiché ogni essere umano porta in sé entrambi i lati, un amore davvero maturo saprà trovare posto e parola per entrambi gli aspetti.
Insomma occorre giungere a riconoscere in noi stessi ciò che la vita continuamente ci mostra: la duplicità di ogni aspetto.
Tale riconoscimento sancirebbe l'uscita dal pensiero infantile che divide facilmente il bene dal male, il giusto dall'errore, la pace dalla guerra ecc. e permetterebbe al soggetto l'avvio di un lavoro di rielaborazione del destino e della storia dell'aggressività così come egli l'ha fin qui conosciuta e sperimentata.
Come tutti i lati della vita affettiva, essa è presente in noi su tutti i gradini di evoluzione. Sul primo scalino essa provoca paura mortale. Sull'ultimo scalino è determinazione virile ad esercitare la funzione creatrice del mondo.
E qui subentra l'altra parola chiave: la pericolosità di ogni soggetto umano rispetto all'esistente. Ogni vita è turbamento ed ogni vita turba.
Dunque sconvolge, porta differenza, cambia lo stato delle cose.
E ciò ha in sé necessariamente un gradiente di violenza.
Il battito d'ali di una farfalla qui a Genova diventa uragano a Pechino. Ma non sempre la violenza è cattiva. Essa è un aspetto dell'amore.
Amore non è solo mollezza e mansuetudine. Anche Gesù nel Vangelo lo dice. Occorre che ciascuno accetti il suo potenziale di trasformazione e se non lo agisce nessun altro potrà esprimerlo al posto suo, perché ognuno di noi è irripetibile. Perciò sacro. (Ada Cortese)



love letter - Nick Cave


I hold this letter in my hand
A plea, a petition, a kind of prayer
I hope it does as I have planned
Losing her again is more than I can bear
I kiss the cold, white envelope
I press my lips against her name
Two hundred words. We live in hope
The sky hangs heavy with rain

Love Letter Love Letter
Go get her Go get her
Love Letter Love Letter
Go tell her Go tell her

A wicked wind whips up the hill
A handful of hopeful words
I love her and I always will
The sky is ready to burst
Said something I did not mean to say
Said something I did not mean to say
Said something I did not mean to say
It all came out the wrong way

Love Letter Love letter
Go get her Go get her
Love Letter Love letter
Go tell her Go tell her

Rain your kisses down upon me
Rain your kisses down in storms
And for all who'll come before me
In your slowly fading forms
I'm going out of my mind
Will leave me standing in
The rain with a letter and a prayer
Whispered on the wind

Come back to me
Come back to me
O baby please come back to me

 
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Post N° 572

Post n°572 pubblicato il 06 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar









Il mio primo, esteticamente raccapricciante, tentativo di preparare un San Martino di pastafrolla (per celiaci)

Ingredienti per la frolla
:: 300 gr di farina di riso
:: 150 gr di burro
:: due tuorli (meglio tre)
:: 100 gr di zucchero
:: un pizzico di sale
:: la scorza grattuggiata di un limone

Disporre in una terrina la farina e lo zucchero a fontana, e porre al centro le uova, la scorza di limone, il sale e il burro ammorbidito a temperatura ambiente. Incorporare gli ingredienti con una forchetta, poi con le mani, fino ad ottenere una pasta morbida, omogenea e compatta. Lasciar riposare lìimpasto in frigo per 30 minuti, e poi stenderlo a seconda della ricetta.

Per il San Martino ho usato uno stampo in legno fatto da mio papà lo scorso anno. Per la guarnizione, zuccherini colorati e le palline d'oro e d'argento che lasciano la lingua tutta sbrilluccicosa. Probabilmente roba cancerogena. Nella foto il mio San Martino prima della cottura, che lo ha leggermente carbonizzato.

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San Martino. La pastafrolla decorata con glassa colorata, a San Martino, è come lo zucchero filato alla Festa della Salute, per me: irrinunciabile. Feste sacre un po’ pagane, con il sapore di quand’eri piccola. Ogni anno, mio papà che – costretto da noi donne della famiglia – ne comprava uno dal panettiere di fiducia, pasta frolla burrosa e la gara per accaparrarsi le decorazioni di glassa. Ed ora che son cresciuta, che guadagno e gioco a fare la donna, ora che non posso più comprarlo in pasticceria, perché le farine normali mi sono proibite, con seghetto e compensato di legno, per me, ha confezionato uno stampo  di cavallo e cavaliere, la mano alzata a brandire la spada che divide a metà il mantello. Non ricalcato su un semplice San Martino, ma ispirato alla statua equestre del Colleoni, opera del Verrocchio…a voler fare le cose in grande




 
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foto di nizoo

Post n°571 pubblicato il 04 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar









È come la carne che ti si fonde nel dolore, come se tutto il corpo piangesse ed il cuore chiedesse solo riposo dai battiti,  ché ogni battito  è una fatica immane ed un ricordo che scorre e preghi solo per un buco nero che inghiotta tutto. Le lacrime in bocca hanno sapore di mandorle amare, delle più pregiate, ma, china a sopportare i singhiozzi, non rigano il viso, si staccano dalla superficie degli occhi e cadono via lontane come piccole perle di vetro, è strano ma sono tonde tonde proprio come le perle, e sono lacrime grandi come il dolore che sento.  Per un dolore così non ci sono parole che consolano, le puoi scrivere tutte combinando le lettere dell’alfabeto in tutti gli idiomi conosciuti, ma non basteranno. Basta il sangue nelle vene – e non vorresti – basta a tirare avanti. E non vorresti. Non vorresti essere forte e capace di sopravvivere al dolore, ché ti senti svuotare ogni giorno come se ti scavassero dentro con un enorme e gelido cucchiaio, portandoti via tutto quello che di bello e caldo racchiude il tuo corpo, per riempirlo solo di paglia ammuffita rubata alle loro vite color del cemento.

 
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Post N° 570

Post n°570 pubblicato il 01 Novembre 2006 da sopalmar
Foto di sopalmar









seduta subito davanti a me, una mamma con dei jeans tutte tasche risvoltati sul fondo e lo sguardo pesto di rimmel e ombretto color prugna, rimprovera il figlio colpevole di non essersi lavato con cura gli occhi, ancora vagamente incaccolati dal sonno. Il vaporetto ‘corsa gratuita per la commemorazione dei defunti’ è stipato all’inverosimile di persone e fiori. Ora ricordo perché di solito evito di andare in cimitero il 1 novembre, ma è troppo tardi, siamo quasi alla fermata e poi, mi dico, non potrà essere tanto peggio di così, in isola almeno ci sparpaglieremo ovunque, e poi, mi dico, certi giorni sono uguali ad altri, quasi mi stanno indifferenti ed essere pigiati tutti su questo bus acquatico è lo stesso che essere pigiati al supermercato, ineluttabilità del destino in certi giorni, allora tanto vale godersi il tragitto, tanto più che c’è anche un po’ di sole così mi sfilo il maglione per sentire meglio l’aria tiepida e salata che si respira qui e socchiudo gli occhi a guardarmi intorno. Ci sono nonne con le nipotine al seguito – anche la mia mi ci trascinava, me lo ricordo bene, io che mi distraevo a guardare i merli a caccia di vermi sul prato subito oltre il chiostro della Chiesa di San Michele mentre lei, indicandomi le tombe dei bambini del recinto VIII, mi richiamava all’ordine costringendomi a mandare baci lì dove riposavano quei piccoli cadaveri. Mia nonna aveva i capelli d’argento brillante, non giallo unto opaco come la signora che sta in piedi pochi passi dietro di me,  stretta vicina  alla nipote tutta rosa, fascia rosa a trattenere i capelli biondi, giacchettina imbottita rosa, ballerine rosa e per completare l’opera, una rosa rosa in mano. Nonne e nipoti, e poi intere famiglie in trasferta al cimitero, tutti vestiti a festa come per un battesimo, dita ingioiellate di giovani madri dalla perfetta manicure, invidiabili abbronzature da fard, i mariti con il giornale sottobraccio che parlano tra loro – sembrano conoscersi tutti, e tacitamente lasciano le mogli a starnazzare tra loro di bambini e acqua gym, dedicandosi a tematiche più impegnate,     argomenti di punta sembrano essere la finanziaria e l’emergenza omicidi a Napoli. Ogni tanto gli sguardi si incrociano, e sembra di leggere stupore che io non abbia il mio bel mazzo di fiori giallo sgargiante, ma lo so io che fiori non ne posso mettere, ché le tombe su cui vado non sono mica normal-kitch come quelle che si vedono di solito, no, sono di design quasi post-moderno, farebbero di certo un figurone su ‘Abitare’ – bè, se ne esistesse uno ad hoc per le dimore dei defunti - disegnate apposta da mia sorella, due belle lapidi, sobrie e raffinate, e allora le gerbere che tanto amo non ce le posso di certo portare, garofanini? Per carità…non parliamo poi delle rose che fanno così decadente. So già che troverò, sia da mia nonna che da mia mamma, due bellissime composizioni di fiori e rami, di certo in tema con la stagione – e per mia mamma, che nella foto sulla lapide indossa un completo viola ed una collana di ametista, anche in abbinamento con i colori della foto - e so che il mio compito sarà come sempre quello di far sparire eventuali ‘aggiunte’ clandestine lasciate da qualche vecchia vicina di casa, di quelle che fanno il giro di tutto il cimitero a distribuire fiori fino al 15esimo grado di parentela e che si ricordano persino delle conoscenti incrociate sì e no tre volte dal fruttivendolo di fiducia, Dio le benedica. Ma ad ognuno i suoi riti, va bene così. Nell’affaccendarsi rumoroso dei veneziani che commemorano, qualche turista incuriosito e rispettoso segue le indicazioni per la sezione ortodossa del cimitero, per le tombe illustri, quelle di Brodskij, Diaghilev, Ezra Pound e un altro di cui non ricordo, Stravinskij forse. Io come al solito seguo il mio rito, passo da mia nonna e poi da mia mamma, per tornare di nuovo da mia nonna, così possono salutarsi, ecco, perché io faccio da messaggera per i saluti e mi sembra di dare un senso a queste visite così, anche se è un senso solo per me, lo so. Da mia mamma mi fermo un po’ di più, perché la mia offerta l’ho portata comunque, in barba ai divieti. Mi ricordo che spesso, sulle tombe dei cimiteri in Giappone, mi stupivo per quel che i visitatori lasciavano ai loro defunti, e non parlo di incensi profumati o altre offerte canoniche, ma di una lattina di birra della marca preferita dall’amico, oppure due o tre sigarette a ricordo di abitudini passate. Così, tra gli steli fitti fitti dei fiori color ametista scelti da mia sorella, sistemo un piccolo involucro di carta dorata della Caffarel, confezione singola di marrons glasés, chè mia mamma era capace di farne sparire una scatola intera in dieci minuti, lasciando noi figlie esterrefatte a desiderare di averla nascosta in tempo, ed invidiose dato che non avrebbe preso un etto, già lo sapevamo. Un marron glacés ad addolcirle la bocca stanotte, un frutto glassato di zucchero al posto di un fiore dai petali delicati, nascosto fino a quando lo andrò a riprendere venerdì pomeriggio, dopodomani, per pudore, per orgoglio, per non dover spiegare, per avere ancora un segreto da condividere.

 
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