Messaggi di Novembre 2007

Italia in cerca d'autore

Post n°343 pubblicato il 28 Novembre 2007 da monari

BallaroRubo il titolo di questo post al commento inviato da Marcello Forcini (che ringrazio assieme a Gian Contardo Colombari per un altro suo interessante intervento inserito nel mio blog).

Ieri sera era andato a letto contento, dopo un'ora di ascolto di «Ballarò». Ministri ed industriali ci avevano spiegato che le raccomandazioni in Italia non esistono.

Soltanto quel guastafeste di Diliberto, aveva messo il coltello in una piaga purulenta, il secondo comma dell'art. 3 della nostra Costituzione che esattamente recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».



Stamattina il risveglio ha cancellato le illusioni di ministri ed industriali, con l'articolo di Michele Ainis sulla «Stampa» che comincia così: «In Italia farsi largo sulla base del talento è diventata un’impresa da alpinisti. Sulla competenza trionfa per lo più l’appartenenza, la tessera di partito, la spintarella di cricche e camarille».

Bastano queste parole per chiudere non il discorso (ovviamente), ma la porta alla speranza. Dappertutto possiamo incontrare quel personaggio che Ainis riprende da uno scritto di Francesco Merlo: «Nel comune di Catania c’era un ragazzo timido e silente, che stava lì per esclusivi meriti parentali. Chi era? Il "muto agevolato"».



Per ogni «muto agevolato», ci sono tanti «evitati speciali» come li chiamo io.

Perché la raccomandazione, quale teoria e prassi dell'assunzione, viaggia sempre su due binari. In uno ci sono quelli da mandare avanti a forza di calci nel culo per fargli fare carriera. E sull'altro quelli da stoppare con altri calci ma nelle più dolorose parti anteriori del corpo, dal viso ai ginocchi, sulle quali viaggiava il mitico «oselin de la comare» di Cochi e Renato, però con diversi intendimenti.



In quest'Italia «in cerca d'autore» (di un autore che sappia scrivere un copione decente alla luce del sole), dove (come è stato spiegato nella prima ora di «Ballarò») nessuno raccomanda nessuno nei ministeri, nelle regioni, nelle province, nei comuni,  in quest'Italia avvengono tuttavia i fatti "miracolosi" di cui parla Ainis: «l’appartenenza, la tessera di partito, la spintarella di cricche e camarille».



Quella ragazza che ha parlato della sua lettera inviata al presidente della Repubblica, chiedendo una raccomandazione dopo tre anni di infruttuosa ricerca di un posto, è apparsa nella semplice prospettiva degli «esclusi». Di chi non appartiene a nessun clan, partito o famiglia. Mi si dimostri il contrario, si smentisca Ainis, signori dei ministeri e dell'industria.



Le storie opposte a quella della ragazza che ha scritto a Napolitano, ovvero le storie di carriere garantite, fulminanti e protette, sono note, ma non si possono raccontare. Dare del raccomandato ad uno, temo possa esser considerato una grave offesa che potrebbe costare cara in sede giudiziaria. Come si dice, mazziati e cornuti.

 


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Modelli e misteri

Post n°342 pubblicato il 27 Novembre 2007 da monari

Unobianca A proposito del «modello Sarkozy» (vedi post del 25 scorso) sugggerito per l’Italia da Mario Monti in un editoriale del «Corriere della Sera» (25.11), ieri c'è stata una diretta risposta su «Repubblica» in un fondo di Bernardo Valli.

La riassumo con una citazione che chiude il discorso laddove gli altri non lo aprono: «Il decisionismo» di Sarkozy sarebbe impossibile nella Repubblica italiana perché Sarkozy «è un prodotto della Quinta Repubblica, vale a dire della monarchia repubblicana creata da de Gaulle mezzo secolo fa, e ritoccata dallo stesso generale quattro anni dopo, nel 1962, con l'aggiunta dell'elezione a suffragio universale del presidente».



Noi italiani siamo così fantasiosi che abbiamo etichettato una fase storica come «seconda repubblica», senza che quella stessa fase ne avesse le caratteristiche  e le premesse necessarie.

Nessuna modifica costituzionale ha infatti sancito il passaggio dalla prima alla seconda.

Non paghi di tanti eccessi di retorica nel parlare politico, adesso stiamo addirittura coniando la definizione di «terza repubblica» forse per onorare Veltroni, non certo Prodi. Che dal sindaco di Roma e compagnia cantando (anche tra l'opposizione), verrebbe lasciato sotto le macerie da rimuovere in fretta della seconda repubblica...



Andreatta Per spiegare un po' di storia italiana passata e recente, richiamo due articoli apparsi sulle pagine bolognesi di «Repubblica». Filippo Andreatta, una delle teste pensanti del gruppo prodiano, dichiara in un'intervista a Luciano Nigro, partendo dalla situazione locale (in Emilia-Romagna): «... il Pd sta fallendo: si sta rivelando la somma di due forze e dei loro difetti».

E poi: «Gli ex della Margherita si sentiranno lacerati tra lo strapotere dei Ds e le tentazioni centriste».



Apro una parentesi prima di passare alla seconda citazione. Sull'importanza politica nazionale del «caso Bologna» (critiche a Cofferati e nostalgia di Guazzaloca), ha parlato sulla «Stampa» del 24.11 Francesco Ramella, nel pezzo intitolato «Antipolitica nelle terre rosse».

Un passo è da ricordare a futura memoria: «...i segnali di difficoltà del centro-sinistra, in queste zone, non sono certo circoscritti al capoluogo bolognese. Le ultime amministrative di maggio, ad esempio, pur confermando una netta prevalenza del centro-sinistra, hanno fatto anche affiorare diversi cedimenti elettorali. Sia sul fronte delle astensioni, che su quello dei comportamenti di voto, dove si è registrato un consistente calo di consensi per le liste dell’Ulivo».

Ramella sottolinea la speranza di «forte rinnovamento» posta nel Pd da molti elettori di centro-sinistra. Quanto sta succedendo a Bologna dimostra l'esistenza di sintomi di malessere, per cui «è bene che la nuova dirigenza del partito democratico non deluda le aspettative mobilitate con le primarie».



Infine eccoci alla seconda citazione da «Repubblica» di Bologna di stamani.

Si tratta di un articolo che recensisce il libro «Uno bianca e trame nere» di Antonella Beccaria (ed. Stampa Alternativa).

Lo ha scritto una agente di Polizia, Simona Mammano: «Una (questione irrisolta) per tutte: come è stato possibile che un commando di assassini potesse operare indisturbato per così tanto tempo?».

Simona Mammano aggiunge: «Questa, dunque, è una storia scandita da errori, valutazioni sbagliate, depistaggi palesi e false testimonianze».

Una storia che riguarda anche la politica della nostra Repubblica. Prima, seconda o terza, non fa differenze.


 

Beccaria

Il libro «Uno bianca e trame nere» può essere scaricato dal blog di Antonella Beccaria, dal quale riprendo le due foto riprodotte in alto e qui
a sinistra (l'autrice del volume).





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Cesa, anzi Rutelli

Post n°341 pubblicato il 26 Novembre 2007 da monari

Dove


 

Ringrazio Gian Contardo Colombari per l'invito a commentare le dichiarazioni dell'on. Cesa pubblicate sui quotidiani di stamane.

Il segretario dell'Udc ha detto: «Consiglierei a Berlusconi di fare uno sforzo di umiltà. Ciascuno di noi può aver commesso degli errori, ma le principali responsabilità sono le sue perchè troppo spesso ha anteposto i propri interessi privati a quelli generali del Paese».



Non posso far altro che ripetere con Gian Contardo: ma lor signori dove erano, dormivano profondamente in Consiglio dei ministri o leggevano i fumetti?

La cosa più curiosa è che dobbiamo disilludere l'on. Cesa, nel caso avesse pensato d'aver raggiunto un risultato di originalità con le parole riportate.



La stessa frase, più o meno uguale, infatti è stata pronunciata all'inizio di ottobre dall'on. Francesco Rutelli in vista delle cosiddette primarie per il Pd: la nostra classe dirigente «con l’alibi artificiale della voragine democratica ha istituito una vera e propria “casta” che ha anteposto per troppo tempo gli interessi e le beghe personali, alle reali necessità del Paese».

Se Rutelli aveva avuto la delicatezza di fare di tutta un'erba un fascio (niente allusioni, per carità), chiamando in causa l'intera «classe dirigente» italiana nel suo complesso, il bravo Cesa ha pronunciato nome e cognome, trovando l'imputato ideale nel cav. Silvio Berlusconi.



Che oggi è messo sotto accusa da tutti. Forse per questo merita di essere difeso anche da chi, come il sottoscritto, non ha mai avuto né vicinanza, né simpatia per la sua parte in commedia. Si faccia sentire: e per prima cosa, parlando da re a re, si unisca alla pernacchia di Luciana Littizzetto agli eredi di Casa Savoia.


 

Dopo aver inserito questo post, leggo un invito di Demata, che segnalo linkando il suo testo: riguarda una notizia drammatica che lui ha ripreso dalla BBC e che i giornali nostrani non hanno dato, «Una donna di 19 anni è stata condannata a 6 mesi di carcere e 200 frustate, dopo essere stata stuprata da un almeno 5 uomini».


 

 


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Pasticci e bisticci

Post n°340 pubblicato il 25 Novembre 2007 da monari

Romaparigi Il «modello Sarkozy» è proposto per l’Italia da Mario Monti in un editoriale di oggi sul «Corriere della Sera». Se la Francia potrebbe suggerire un progetto politico per risolvere tutti i nostri problemi, è alla Germania che si guarda per il sistema elettorale, con una spruzzatina di tipo spagnolo. Ha riassunto efficacemente Michele Ainis il 21 novembre sulla «Stampa»: «Pasticci forieri di bisticci». Per cui «se non hai tre lauree in tasca, non ci capisci un fico secco».

Sembra che in Italia, tolte le auto, le scarpe ed i vestiti, ora non sappiamo più fare nulla. Non siamo internazionalisti per convinzione. Ma per mancanza di idee. Per quindici anni hanno spiegato che col proporzionale l’Italia era andata in malora, e che il bipolarismo l’aveva salvata. Signori, avevamo compreso male. Forse. Adesso si torna al proporzionale. Per fare che cosa, non lo sapremo mai. Forse per far passare altri quindici anni. Dopo di che, diremo da capo che occorre passare al bipolarismo. Fate vobis. Tanto noi cittadini siamo cortesemente esclusi dalla partecipazione.

Oggi Lucia Annunziata scrivendo dei «fratelli coltelli» Silvio e Gianfranco, ovvero Berlusconi e Fini, ha ripreso da un saggio di Angelo Melloni una citazione: «l’anomalia italiana è che si sia confusa la destra con Silvio Berlusconi». Ma la storia è fatta di anomalie, non di fattori logici. Era il buon Hegel a dire, in un passaggio (divenuto famoso, ma secondario di un suo testo), che «ciò che è razionale è reale». Provate a dirlo a chi ha vissuto i gulag ed i lager.

Piero Ottone il 21 novembre ha pubblicato su «Repubblica» una «Lettera a Berlusconi» da cui cito il finale: «Pensi solo alla tua persona, al tuo successo, alle tue vendette. […] Confermando così che la tua avventura è stata, per il nostro paese, un immane disastro».

Oggi re Silvio vorrebbe solo due partiti, insomma come Rai e Mediaset. Ovvero intercambiabili ed alla bisogna vasi comunicanti. Con lo stesso liquore. Stiamo attenti a non scontentarlo troppo: potrebbe chiedere i danni, come i signori Savoia. Ai quali potremmo mandare le cartoline paesaggistiche dell’Italia bombardata: il nonno Sciaboletta non ne ha avuto nessuna colpa?

Ieri su «Repubblica», Salvatore Borsellino ha ricordato i poliziotti della scorta che morirono con suo fratello Paolo, proteggendone il corpo da una devastazione che colpì invece i loro. È una lettera molto dura che andrebbe studiata nelle scuole. Un solo particolare. Lo «Stato che mi vergogno di chiamare con questo nome» ai genitori di Emanuela Loi, uccisa con i colleghi in quell’attentato, ha richiesto il costo del trasporto della sua bara da Palermo a Cagliari. Modello italiano?

Ieri al corteo delle donne, alcune ministre e deputate sono state contestate da poche ragazze.  Per quasi ognuna di loro, l’on. Melandri  ha trovato un aggettivo: «Arrabbiate, violente, sciagurate, cretine». Poi ha tirato un sospiro di sollievo, aggiungendo: «E poche».


 

Nelle foto, la manifestazione delle donne a Roma, e la protesta degli studenti francesi contro Sarkozy a Parigi



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Certe disperazioni

Post n°339 pubblicato il 23 Novembre 2007 da monari

Il post di ieri «Certe nonne» è oggi segnalato in home da Stampa.it.

segnalastostampa231107.jpg

A questo post si aggancia il nuovo di oggi: «Certe disperazioni».


Ansapesaro Per puro caso nel post di ieri, «Certe nonne», ho tirato in ballo la virtù della speranza.

È di oggi l'annuncio che il 30 novembre sarà pubblicata la seconda enciclica di Benedetto XVI, intitolata «Salvi grazie alla speranza».



Coincidenza fortunata, tra il post e la notizia.

Il tema della speranza ha però un risvolto tutto umano che non dipende dai teologi soltanto o da un messaggio papale.

La speranza deve esser anche controparte della vita sociale di ogni giorno. Ovvero il frutto di una situazione nella quale ogni cittadino possa avere fiducia non soltanto in se stesso, ma anche nelle forze economiche e politiche con le quali viene a contatto nella sua esperienza giornaliera, direi quasi di momento in momento.

È molto facile promettere una salvezza ultraterrena, quando tutto può contribuire a rendere infernale il tempo presente.



Una notizia proveniente da Pesaro dà la dimensione delle tragedie in cui la speranza non ha più posto, e lo cede alla disperazione. Forse covata lungamente nel silenzio di un colloquio con la propria coscienza.

La morte di una figlia (22 anni) gravemente malata, per mano di madre (50 anni), non è un gesto folle.

La gente, i vicini hanno detto ai tg che la madre sembrava tranquilla. La maschera che il dolore impone nella vita, a volte crolla all'improvviso, non lascia tempo a niente, arma una mano di un amore che distrugge la propria creatura, con la solenne, tremenda, intima convinzione che sia un gesto grande come lo era stato il mettere al mondo quella stessa creatura.



Ogni volta che questi drammi arrivano alla cronaca, bisognerebbe chiedersi: ma che cosa è stato fatto dalle Istituzioni, dalla Società, dallo Stato, dalla Politica per aiutare quelle madri, sollevare con un mano non caritatevole (nel senso che dipende da una scelta individuale e casuale d'aiuto), ma con un gesto soccorrevole, come costante e continua presenza vicino a chi soffre assistendo un malato, e soffrendo ben più del malato stesso.

Signori della Politica, anche questa è la vita: nel dolore e nell'angoscia di una madre che dopo 18 anni di malattia della figlia, l'ha liberata dalla sofferenza e poi ha rivolto il coltello contro di sé.



Segnalo questo testo: «Tragedia di Pesaro, il grido dei genitori: ''Siamo stanchi, usurati, soli''».



Foto Ansa



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Antonio Rosmini

Post n°338 pubblicato il 18 Novembre 2007 da monari

Rosmini Caro Antonio Rosmini,
adesso che siete stato proclamato beato, non possiamo più ricorrere a voi come esempio di contestatore e di teorico di quella «Chiesa dei poveri» che ha avuto un momento di gloria qualche decennio fa, senza che mai fosse fatto il vostro nome nelle pubbliche piazze.

Vi hanno inserito nel «sistema» (altra parola d’annata, se non pure dannata). Vi hanno messo tra gli insindacabili, voi che siete stato a modo vostro e per i tempi vostri un eccelso bastian contrario, sino al punto di meritare ben due condanne ufficiali da parte di Roma.
Aveva destato scandalo il vostro libro intitolato «Le cinque piaghe della Chiesa». Uno slogan per i posteri, quando telegraficamente (come si diceva una volta) si voleva riassumere una situazione che non piaceva o (altra espressione antica) «gridava vendetta al cospetto di Dio».
Adesso che «Le cinque piaghe della Chiesa» escono in edicola assieme al settimanale cattolico per antonomasia, come se si trattasse di un libro ultraortodosso alla Vittorio Messori, addio contestazione, addio ricordi di polemiche.
Quel «lo diceva Rosmini» che suonava elogio dell’eresia pura, adesso corre il rischio di diventare uno spunto per le dotte conversazioni di Giuliano Ferrara. Prima o poi, vedrete, anche voi sarete arruolato fra i suoi autori preferiti, per quel gusto che lo scrittore del «Foglio» ha nell’apparire paradossale e nello stesso tempo convincersi di avere sempre ragione.
Vi troverete in buona compagnia: vi faranno oggetto di dibattiti televisivi, e voglio vedere come se la caveranno le soubrette che discettano di tutto e di tutti. Forse sarà necessario spiegar loro che non è il caso di scomodare la loro intelligenza per arrivare sino a voi.
A loro non dovremmo raccontare che, dagli atti ecclesiastici della causa di beatificazione, risulta una frase vostra detta alla cognata, di ritorno da un pranzo: «Sono avvelenato». Non bisognerà dirlo neppure a Bruno Vespa, altrimenti correremo il rischio di avere tante puntate della sua trasmissione dal titolo: «Chi uccise Antonio Rosmini?». Dopo Cogne, Garlasco, Perugia, ci mancava pure il vostro pranzo in casa dei nobili Bossi-Fedrigotti, finito con un’acidità di stomaco che voi consideraste un attentato alla vostra vita.
Lo sappiamo. Ci sono ancora in giro testimoni della vostra epoca, pronti a dire a Bruno Vespa, che si trattò soltanto di un errore involontario del cuoco. Vi risparmiamo le spiegazioni. Voi di lassù le conoscete già. Aiutateci a non farle conoscere anche a noi.


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Silvio, un re sFINIto

Post n°337 pubblicato il 16 Novembre 2007 da monari

Blogstampa161107 Atto primo. Giancarlo Fini volta pagina nei rapporti con Berlusconi. Glielo manda a dire con una lettera aperta al direttore del Corriere della Sera di stamani.

AN vuole cambiare strategia ed in fretta. In altre parole, basta con tutte quelle storielle di re Silvio che promette ogni ora di fare cadere il governo Prodi, e poi alla fine non ci riesce mai.

Atto secondo. Il Cavaliere risponde a Fini: «Sono l'unico a combattere contro questa maggioranza».
Sembra di ascoltare il giovane Leopardi che nella canzone «All’Italia» si guardava allo specchio e, probabilmente sul cavallo a dondolo e con in mano una spada di cartone, prorompeva nel grido fatale: «Nessun pugna per te? non ti difende / Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. / Dammi, o ciel, che sia foco / Agl'italici petti il sangue mio».


C’è una piccola differenza. Il Cavaliere ha 71 anni e per dire queste cose si mette davanti alle luci delle telecamere, non agli specchi in una stanza buia. Di uguale, c’è la destinataria delle sue parole. Come per Giacomo, anche per Silvio è l’Italia. Allora (1818) un sogno da realizzare. Ora un progetto a cui nessuno crede più, tra gli alleati di Berlusconi.

A proposito di grida fatali con annessi gesti eroici. Al post della spada di cartone, il senatore di Forza Italia Maurizio Sacconi è arrivato a togliersi una scarpa per sbatterla con forza, ripetutamente, sul suo scranno. Merita la memoria presso i posteri, con un fumetto che documenti il tutto: «Dammi, o ciel, che sia foco / Agl'italici petti il sangue mio».

Il governo è sfatto, ma re Silvius I non lo sfratta. Gli amici se ne vanno, che inutile serata. La musica prodiana non è ancora finita. Questo è il tormento del Cavaliere, ed il grimaldello con cui lentamente e pacatamente, alla Veltroni-Crozza, lo hanno deposto dal trono quegli alleati d'un tempo.  Lui continua ad illudersi, il leader sono e sarò io. Parole, parole, parole.
E pensare che ad Arcore credevano che fosse bastato, per far star tranquillo Fini, prenderlo per i fondelli sul suo nuovo amore. Adesso hanno fatto retromarcia. Hanno tirato le orecchie a «Striscia la notizia». Con un comunicato che resterà nella storia della tv: «La presidenza di Mediaset esprime una netta presa di distanza dagli eccessi giornalistici e satirici, anche in programmi Mediaset, che hanno colpito negli ultimi giorni la vita privata di Gianfranco Fini». Per poi respingere (giustamente) «nel modo più assoluto il sospetto di un disegno politico-editoriale orchestrato dal gruppo Fininvest ai danni del presidente di An. Avanzare sui giornali ipotesi del genere significa fare un torto all’autonomia di Silvio Berlusconi e da Silvio Berlusconi».

V’immaginate Berlusconi che ordina di colpire al cuore Fini per la sua storia d’amore? Suvvia, sono esercizi di bassa dietrologia. Per ora. In futuro non si sa. Le donne prima o poi raccontano.
Oggi si è confessata Sandra Milo: «Con Bettino l'amore aveva più gusto».
Due domande alla signora: lo aveva confessato a Bruno Vespa? Adesso come cambierà la storiografia sul socialismo italiano?
Il sospetto è che la signora Milo abbia voluto soltanto mettere giustamente in luce i propri pregi e sottolineare i difetti delle colleghe in arte contemporanee: «Vogliamo mettere il livello delle amanti di allora?».

Purtroppo scienza e storia di oggi non possono beneficiare del conforto «delle amanti di allora». Com’è triste la vita.

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I Mille di Cossiga

Post n°336 pubblicato il 14 Novembre 2007 da monari

Aldomoro In un'intervista ad Aldo Cazzullo, pubblicata stamani nel «Corriere della Sera», il presidente Francesco Cossiga torna sull'uccisione di Aldo Moro.
Ad un mese esatto dalla presentazione (sullo stesso quotidiano) di un libro che Giovanni Moro, figlio dello statista assassinato dalle Brigate Rosse, ha scritto per Einaudi, intitolandolo «Anni Settanta». (Ne ho parlato qui il 14 ottobre.)
Due punti soprattutto sono importanti nel libro di Giovanni Moro.
Il primo, riguarda la presunta minaccia da parte di una delle vedove di via Fani, di darsi fuoco in caso di trattative per la liberazione di Moro.
Giovanni Moro scrive che la notizia è falsa. Ed accusa di aver mentito «spudoratamente» il presidente del Consiglio del tempo, Giulio Andreotti (pagine 105-106).
Il secondo punto, tocca il Vaticano che, postosi «sulla stessa lunghezza d'onda» del governo italiano, «mostrò come minimo di non comprendere i termini della questione» ( pagina 107).

Cossiga replica a Giovanni Moro, senza nominarlo, sul primo punto: «Andreotti non dice bugie».
Il discorso poi ha un'impennata che passa dal pubblico al privato dei protagonisti: il cerotto sulla testa di Aldo Moro nascondeva non una ferita subìta da parte dei terroristi, ma un colpo preso la sera prima «frapponendosi in un litigio» in famiglia.

Si resta sconcertati ed amareggiati nel veder ridurre a questi discorsi pettegoli, ed insignificanti sul piano storico, un tema che anche a tanti anni di distanza resta il più drammatico passaggio della storia italiana recente.

Un anno fa, il 26 novembre, all'annuncio (poi senza effetto) di Cossiga delle sue dimissioni da senatore, gli avevo augurato di tenerci «allegri, tanto di cose serie nessuno sembra oggi aver voglia».
Purtroppo il senatore Cossiga oggi ci rattrista con le rivelazioni che sono annunciate sin dal titolo dell'intervista: «Il caso Moro e i comunisti. In mille sapevano dov'era».

Forse per Cossiga voleva essere una chiamata in causa per correità dei capi dell'allora Pci. Ma finisce per essere la confessione d'impotenza per non dire altro, di chi doveva sapere per compito istituzionale, ammesso che risponda al vero la tesi (o l'ipotesi) di Cossiga.

Soltanto una cosa appare strana nel suo annuncio: come mai, se mille comunisti sapevano, nessuno delle migliaia di agenti dei cosiddetti «servizi» che hanno sempre controllato i politici di governo e di opposizione, ha appreso che «quelli» sapevano?

 
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Cronache nere

Post n°335 pubblicato il 13 Novembre 2007 da monari

13122007blogstampaSiamo tutti angosciati per quello che è successo domenica scorsa. Nei blog della nostra comunità se n'è parlato con una partecipazione che indica qualcosa. Non siamo insensibili al mondo che ci circonda. E che ci fa paura per molti motivi. Per il povero ragazzo ucciso nelle circostanze "misteriose" che conosciamo, ad esempio. Un episodio che non doveva accadere. Non si spara attraverso un'autostrada, non sapendo che cosa succeda esattamente aldilà di essa, in una piazzola di sosta troppo distante per distinguere le cose.

Ho scritto ieri che il fatto di Arezzo non ha nulla a che vedere con lo sport. Intendevo dire che l'uccisione di quel ragazzo non poteva essere presa a pretesto per tentare un'insurrezione come c'è stata poi a Roma. Chiedo scusa se non mi sono spiegato bene. Credevo di averlo fatto, aggiungendo che allo stesso modo pure la violenza scatenatasi poi, non aveva nulla a che fare con lo sport.

Ieri pomeriggio Irene ha osservato nel suo blog che viviamo in un vuoto dove «tutto freneticamente inghiottisce tutto». Lo ha scritto anche a commento del mio post.
Poco dopo Gianna, allargando il discorso ad altre notizie di cronaca nera, introduceva una nota metafisica: «Non ditemi che sono prove inviateci da lassù per provare la nostra tempra di madri e di padri o peggio per scontare i nostri peccati. Per il Grande Distratto è un incidente di percorso e spero che trovi al più presto un rimedio».
Cito questi due passi di Irene e  Gianna perché sono sintonizzati sul tema del nostro essere qui ed ora, con sfumature che intrigano con dolcezza d'intenti e costringono fermamente a riflettere.

Il contesto della vicenda di Arezzo dà ragione al commento di Fino: «Quella gente (juventini e laziali) erano là per lo sport o per meglio dire per uno pseudosport chiamato calcio».
Ieri facevo un altro discorso. Parlare male dello sport com'è in Italia da tanti anni, non è vuota retorica. Ma è amara constatazione che nulla si fa per cambiare qualcosa. Forse tutto quanto accade serve a qualcuno, lo dico da un punto di vista politico.

Sempre da questo punto di vista, dobbiamo essere certi che nessuno possa colpirci "per sbaglio" se passiamo per strada o in autostrada vicino ad un gruppo di sportivi che possono essere temuti: ma per questo fatto, nessuno è autorizzato a sparare per prevenire un reato di cui il viandante per caso non ha nessuna responsabilità.

Stamani ho letto il bell'editoriale di Massimo Gramellini in prima della «Stampa». Che all'inizio dice qualcosa sull'Italia sbagliata oggi sotto accusa, e della quale fanno parte anche i giornalisti «che invece di dare la notizia dell’assassinio di un ragazzo al casello autostradale», annunciano che è stato ucciso un tifoso.
L'Italia che vogliamo? «L’Italia che estirpa i violenti dagli stadi e dalle strade. E non protegge le caste, ma le persone. Perseguendo gli individui e non generiche categorie sociali: i tifosi, i romeni. L'Italia a viso aperto. Tollerante, giusta, decisa. Senza ferocia. Ma senza paura».

L'Italia giusta. Può essere un'utopia, ma deve essere un progetto. Gramellini ha ragione. Così come hanno ragione Irene e  Gianna a chiedersi che cosa sia questo mondo in cui viviamo. La loro intelligenza avvia con tranquilla fermezza un discorso vasto, ma necessario.

Nulla è una parola che fa paura. È un tema che affascina da sempre letterati e filosofi, quindi non deve essere che apprezzato il riproporlo alla nostra attenzione. Le nostre inquietudini sul destino dell'umanità a cui accenna  Gianna, sono un sentimento del tempo. Ma ogni tempo ha i suoi drammi. Grazie, amiche, di aver introdotto questo tema.

Affacciandoci alla strada, vivendo tra la gente, i vostri pensieri dovrebbero spingerci a meglio comprendere il valore dei rapporti con chi ci sta o passa vicino.
Lo diceva già Giacomo Leopardi: nella guerra comune contro la Natura, gli uomini dovrebbero offrirsi aiuto in un abbraccio «con vero amor».

Ma vedete che il sublime canto del poeta, «... su l'arida schiena / Del formidabil monte / Sterminator Vesevo», diventa immediatamente qualcosa di più, un manifesto politico con l'invito agli uomini a considerarsi «confederati» fra loro. È il vecchio discorso del «contratto sociale»...

Ma fino a che punto siamo pronti ad accogliere questi discorsi? Attenzione, perché essi sono considerati pericolosi. Pericolosissimi... Per motivi ovvi.

L'Italia «tollerante, giusta, decisa» propugnata da Gramellini, è l'unica via di scampo dal nulla, dalla paura, dalla corruzione. Ma quanti sono d'accordo oggi e qui a credere nei valori di una società «tollerante, giusta, decisa»? Siamo anche il Paese in cui si portano tranquillamente i maiali ad orinare su terreni frequentati da persone come noi che hanno però un'altra religione. E poi ci chiamiamo popolo civile.

 
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Facili le parole

Post n°334 pubblicato il 12 Novembre 2007 da monari

Gabriele Quando succedono fatti come la morte del giovane romano Gabriele Sandri, ucciso dalla pistola di un poliziotto, le parole sono sempre facili. E troppe. Si ripetono i riti consueti: il tragico errore, un fattore imponderabile (correvo, il colpo è partito da solo), le indagini saranno approfondite, non ci saranno reticenze, come ha detto ieri il ministro degli Interni Giuliano Amato.

Passano le ore, e si scopre qualcosa che fa ipotizzare al questore di Arezzo che «il reato colposo potrebbe avere evoluzioni diverse in senso peggiorativo».
Senza dilungarmi in un esame del fatto in sé (tra sparatore ed ucciso c’era perbacco di mezzo addirittura un’autostrada), e senza voler esprimere giudizi sulle indagini, dico che in generale troppo spesso prevale non la presunzione d’innocenza di qualsiasi persona, ma quella di colpevolezza.

In Italia per lungo tempo non sono stati i magistrati a provare la colpevolezza d’un imputato, ma è stato costretto l’imputato a dimostrare la propria innocenza. Non vorrei che ora si ritornasse al passato. Un’auto che va per i fatti suoi, un giovane che è ucciso, e poi dopo le ricostruzioni che «giustificano» l’accaduto.

Il fatto di Arezzo non ha nulla a che vedere con lo sport, così come la violenza scatenatasi poi (vedere l’articolo di Beccantini).
Niente parole inutili, signori del governo e del Parlamento, ma fatti precisi. Mirando senza colpo ferire ad uno scopo: rendere tranquilla la vita di qualsiasi persona. Non date la colpa ai teppisti degli stadi. Tutti sanno chi sono. Ma loro possono continuare ad agire bellamente, senza pagare mai il conto delle malefatte.
Personalmente sono convinto che molti di quegli «ultras» abbiano un sogno politico. Non dico progetto, perché la parola presuppone una razionalità in loro soffocata dall’odio espresso con una rivolta che non ha nessuna giustificazione morale, ma che comunque tentano ogni tanto di mettere in atto.



Fonte: antoniomontanarinozzoli.blog.lastampa.it/antoniomontanari/

 
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