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Carlo Molinaro

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Tre parole sulla solitudine

Post n°585 pubblicato il 19 Aprile 2009 da molinaro
Foto di molinaro

Piove, ma è stato un finesettimana buono. Poi adesso verso sera mi sono sentito un po’ solo, sarà anche il grigio del cielo, o chissà perché. Sì, non so mai bene il perché. Allora mi è venuto di scrivere una poesia d’indagine sui perché. Sono saltate fuori tre parole, ma alla fine non significa niente. Meglio uscire a mangiare un chebab qui sotto dai turchi. E buona serata!


TRE PAROLE SULLA SOLITUDINE

Ogni tanto mi sento solo
così senza motivo,
senza un valido motivo, perché
direi che ho relazioni umane
abbastanza buone e frequenti
sia come amicizia
sia con il sesso
sia a livello familiare:
non è che io mi possa lamentare,
tuttavia ogni tanto mi sento solo
così senza motivo
e allora ho pensato che forse è il caso
di indagare un attimo
sui possibili motivi.

Mi sono venute in mente tre parole:
la morte, l’incompletezza, la differenza.
Probabilmente sono collegate.

La morte è la più stupida ma c’entra,
sono sicuro che c’entra:
nel mio sentirmi solo c’è un presagio
della solitudine totale
di chi è morto e non può più parlare
né ascoltare
– e del periodo precedente la morte,
quando i vecchi incominciano
ad abituarsi a morire: ci avete fatto caso
che spesso i vecchi
è come se si allontanassero già,
gli passa la voglia di dire le cose,
è come se stessero già in un altro mondo
separato, che non si può più
comunicare? Ci avete fatto caso?
Io sì. E a volte mi vedo
già vecchio, dunque solo.

L’incompletezza è questione d’amore
che manca sempre
perché s’allontana o perché non s’avvicina:
è lei che prende il treno mentre piove
e dopo si comunica soltanto
con i messaggi sul telefono
finché ritornerà
ed è anche lei che m’ha sorriso un poco
ma non m’ha dato il numero di telefono
né l’indirizzo
e la vedo ogni tanto
ma se sparisce sparisce
ed è anche lei che facevamo l’amore
e poi più niente, non so più nemmeno
dov’è, che fa, e se sta bene o no:
trovarsi e perdersi o nemmeno trovarsi
è la vita normale, lo so
– ma che vuol dire? La sopporto male
quella vita normale
e nell’incompletezza
mi vedo monco, strappato, mi sento
solo.

La differenza è questione che si parla
e non ci si capisce, le parole
non sono un combaciare ma un segnale
di fumo, da collina a collina,
vago, arbitrario, mutevole: parlassi cent’anni
e scrivessi un milione di poesie
non saprò mai se davvero t’ho detto
quel che volevo dirti, né se ho
capito quel che mi volevi dire.
E non è solamente le parole:
anche gli abbracci, anche le carezze
sono un toccarsi sì però imperfetto,
perché fra la mia pelle e la tua pelle
resta del vuoto, un’intercapedine
per cui non sono sicuro se il brivido
che sento in te sia davvero il tuo brivido
o il brivido che credo di sentire
e invece era diverso. Perciò quando
la percepisco, questa differenza,
mi sento solo come uno straniero
che fa gesti e non sa nemmeno lui
che gesti sono.

Ecco, ho fatto la mia brava indagine
sui motivi per cui io certe volte
mi sento solo. Se fosse una tesi
di laurea il relatore mi direbbe:
«Ma le sembra una tesi? Questo è tutto
già stato detto e ridetto nei libri
e nei convegni, lei crede di cavarsela
scopiazzando qua e là? Guardi, ripassi
fra un mese o due, ma veda di portarmi
qualcosa di più nuovo e originale:
com’è la vita lo sappiamo già».

Ha ragione. È questo che succede
a fare indagini stupide. Meglio
se dico molto più semplicemente
che certe volte, così, mi sento solo,
così, senza un perché;
e poi mi passa.

 

 
 
 
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