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l'etica del viandante

Post n°72 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da m_de_pasquale
 
Foto di m_de_pasquale

percorso: Biccari (41° 23' 43.68" N, 15° 11' 28.77" E) - lago Pescara - monte Cornacchia - bosco Cerasa - Biccari [18 km]

Quando si fa una camminata ci si può anche perdere. Nonostante si sia programmato in anticipo il percorso fissando luoghi e distanze, può accadere che si scambi un sentiero per un altro e dopo una serie di tentativi, incamminandosi tra i vari sentieri che si offrono alla nostra scelta, ci si perda. A quel punto non ci si sente più nella condizione di colui che, guardando alla meta da raggiungere, considera ogni luogo che incontra solo come una tappa sulla via che porta verso il traguardo, ma si sperimenta lo smarrimento del viandante che proprio perché non ha una meta che lo conforti può aderire ai paesaggi che di volta in volta incontra sul suo cammino non considerandoli più semplicemente come luoghi di transito in vista della meta. Il cammino prende il sopravvento sulla meta, e la meta non rappresenta più una consolazione che allevia le fatiche del percorso. La condizione del viandante costituisce una potente metafora del nostro essere al mondo. Afferma Nietzsche: “Io sono un viandante che sale su per i monti, diceva Zarathustra al suo cuore, io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo. E, quali siano i destini e le esperienze che io mi trovi a vivere, vi sarà sempre in essi un peregrinare e un salire sui monti: alla fine non si sperimenta che se stessi”. Il viandante è come l’uomo che rifiutando le illusioni protettive, le speranze consolatorie, il rinvenimento di un senso orientato nel futuro, accetta coraggiosamente la indecifrabilità del suo destino, sceglie di abitare la casualità del presente, si abbandona alla corrente della vita. Il viandante come il nomade, uscendo dall’abituale, dal noto, dal programmato, dal prevedibile, vive un’esperienza insolita del mondo e comprende che “la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia” (Galimberti). Il viandante, quindi, ha dimestichezza con la diversità, con la differenza, con l’altro. Così intesa, la condizione del viandante potrebbe offrire interessanti suggestioni per ripensare l’etica che si pone il compito di riflettere sui criteri in base ai quali valutare comportamenti e scelte in una società come quella contemporanea dominata dalla tecnica. Fin quando l’etica si è mossa in uno scenario caratterizzato da saldi principi a cui poteva riferirsi e dalla possibilità di prevedere le conseguenze delle nostre azioni, le etiche tradizionali – sia quella cristiana fondata sul primato dell’intenzione, sia quella laica che guardava all’effetto delle nostre azioni – hanno potuto costituire un valido orientamento per valutare i comportamenti dell’uomo. Ma oggi, a fronte della consapevolezza della relatività di quei principi che ritenevamo eterni, a fronte della impossibilità di valutare le conseguenze delle nostre azioni che grazie alla crescita della tecnica non riusciamo più a controllare (il nostro “fare” ha preso il sopravvento sull’”agire” cioè sulla nostra capacità di governare le azioni), ci rendiamo conto che le etiche tradizionali – quella cristiana, quella kantiana, quella della responsabilità – non sono più in grado di svolgere il loro compito. Che potere d’intervento potrebbero avere le etiche tradizionali di fronte all’imprevedibilità delle conseguenze che possono scaturire dai processi nucleari o biotecnologici? Non avendo mete, punti di partenza (i principi assoluti di una volta) e di arrivo (la capacità previsionale), l’etica del viandante, che non conosce il suo avvenire, potrebbe costituire il punto di riferimento di una umanità a cui la tecnica ha consegnato un futuro imprevedibile? Non ci troviamo nella stessa condizione del viandante sulle cui sole spalle pesa la scelta del sentiero da intraprendere non possedendo più riferimenti esterni certi? L’unica etica possibile non è forse quella che si fa carico della pura processualità che – come il percorso del viandante – non ha in vista una meta per cui l’imperativo etico può esser dedotto solo dagli effetti del fare tecnico? Come il viandante che nello spaesamento della perdita deve decidere sul momento e nella solitudine il sentiero su cui incamminarsi, anche l’uomo nella sua scelta etica si troverà a dover decidere volta per volta fondandosi solo sulla limitatezza dei mezzi a sua disposizione, senza avere alcuna pretesa che quella scelta possa avere una valenza universale.   (camminare - 4  precedente seguente)

 
 
 
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