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l'età del tempo trascendente

Post n°55 pubblicato il 20 Settembre 2010 da m_de_pasquale
 
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Perché la nostra cultura considera la vecchiaia un tempo inutile? Perché si cerca di cancellarne la presenza mascherandola con creme e lifting o segregandola in case di riposo? Se il fattore estetico è predominante nelle nostre relazioni, certamente una faccia rugosa, un corpo grinzoso non sono un bello spettacolo rispetto ai corpi perfetti, lisci, provocanti che la pubblicità ci propina ad ogni ora. Se il fattore economico è il supremo regolatore dei nostri rapporti, la lentezza, il rincoglionimento dei vecchi non sono affatto funzionali alla velocità, al ritmo frenetico, alla cosiddetta efficienza che caratterizzano il nostro vivere. Se la considerazione biologica ha il sopravvento su ogni altro sguardo, è imparagonabile l’impetuosa forza della vita sprigionata da un corpo giovane rispetto ad uno vecchio appunto perchè non si hanno gli occhi adatti per veder in lui, comunque, una vita anche se diversa. Allontaniamo il nostro pensiero dalla vecchiaia perché considerandola come l’ultima età all’interno di una concezione progressiva del tempo, la vediamo come l’anticamera della morte. Per esorcizzare il pensiero della morte rimuoviamo la vecchiaia. Abbiamo paura della vecchiaia perché è dura da vivere. Il vecchio sperimenta la destrutturazione del proprio corpo dall’Io: il corpo che ha costituito il veicolo del nostro essere al mondo, indebolendosi diventa oggetto di attenzione e cura, costituendo una preoccupazione, un peso più che un’opportunità. Diventa problematico il rapporto tra l’Io ed il mondo circostante: proprio perché il vecchio è emarginato, non costituisce un soggetto con cui intrattenere una relazione. L’affettività di cui abbiamo bisogno per vivere si esaurisce lasciando spazio al silenzio e all’autismo dei vecchi. E lo stesso avviene per la pulsione d’amore che il vecchio può solo ricordare e rimpiangere. Questo quadro depressivo viene curato imponendo un modello di comportamento per consentire ai vecchi di continuare a vivere nonostante tutto. Afferma Galimberti: “E così, per essere accettati, i vecchi devono esprimere tutte queste virtù da cui sono dispensati i giovani: devono far tacere il desiderio sessuale che non si estingue con l’età, devono rinunciare ai contatti corporei che si addicono ai giovani, devono essere allegri ma con misura, devono partecipare alla vita familiare e sociale senza pretendere di essere ascoltati, devono essere autonomi ed indipendenti, due modi per dire soli”. E’ possibile andare oltre il modo di essere vecchi imposto dalla cultura, dalla società, per capire se questa età costituisca solo la conclusione del processo di decadimento oppure rappresenti l’opportunità di cogliere la verità di noi stessi? Se Jung afferma che “quando più invecchio, tanto più mi colpiscono la caducità e le incertezze del nostro sapere e tanto più cerco rifugio nella semplicità dell’esperienza immediata per non perdere il contatto con le cose essenziali, cioè con le dominanti che improntano l’esistenza umana attraverso i millenni”, non vuol forse dire che vede nella vecchiaia la possibilità di accesso alle cose essenziali che costituiscono l’obiettivo del processo d’individuazione grazie al quale ognuno di noi diventa quel che è? Diventare quel che si è significa svelare il nostro carattere che appunto nella vecchiaia appare nella sua unicità, facendoci finalmente conoscere quel che davvero in fondo siamo nella nostra specifica tipicità. Oltre quella maschera che si vorrebbe far essere, il vecchio, afferma Sgalambro, è “essere terribile e noumenico … immagine figurale della cosa in sé perché attraverso di lui si mostra il mondo qual è, non la sua rappresentazione”. Nella vecchiaia il tempo – diversamente dalla giovinezza e dall’età adulta - rallenta fino a non passare mai: per la prima volta si ha la possibilità di sottrarsi al flusso del divenire e sperimentare l’immobilità del tempo. Sgalambro precisa che il “vecchio è totalmente occupato dal tempo …  è l’incarnazione del tempo che non passa, tempo esterno e trascendente, tempo che non si temporalizza … l’immobilità del tempo penetra nell’individuo tutta in una volta”. Il vecchio è sottratto dal flusso del divenire, dal tempo interno, immanente (per intenderci la durata di Bergson); vive invece il tempo esterno, trascendente, il tempo della materia, quello che non passa. Il vecchio è oltre la fenomenicità del divenire, è penetrato dall’immobilità del tempo. Questa condizione privilegiata gli consente di essere liberato dall’ansia  conseguenza del desiderio alimentato dall’attesa, motore del tempo progressivo. Non conosce più la tensione e il conflitto, condizione conseguente alla polarità. Solo l’immobilità del tempo. E sostiene ancora Sgalambro che solo in questa condizione si può conoscere davvero l’amore: la vecchiaia è l’età dell’amore, dell’amore fine a se stesso, dell’amore che non serve alla riproduzione, dell’amore da cui è scomparso il conflitto, scomparsa la tensione tra passione e desiderio di stabilità. “Nell’amore tardo è scomparso ogni conflitto .. si spegne l’insidiosa volontà e il regale abbandono ne prende il posto … L’eros scaturisce da ciò che sei, non dalle fattezze del tuo sedere o dalle superbe spalle … scaturisce dalla vecchiaia che non avendo più scopi, può capire finalmente cos’è l’amore fine a se stesso … la vecchiaia, non più feconda ed inetta al lavoro, diventa l’età dell’amore, dell’amore fine a se stesso. Qui l’amore non serve a niente, ma si espande nel puro rapporto …. L’amore raggiunge il suo apice quando è sterile… Una sessualità totale succede ad una sessualità genitale. Giustamente si dice totale: essa si distribuisce per tutto il corpo e vi si fonde. Ogni punto è pene, ogni luogo è vagina. L’amore giovanile, invece, è pura regressione all’erezione”. L’amore raggiunge il suo apice: la conoscenza del tempo.

 
 
 
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