Mi chiamo Alice

Post n°74 pubblicato il 03 Novembre 2023 da romhaus
 
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"Mi chiamo Alice, ho 27 anni, e domani mi sposo. Mi trema il cuore dalla felicità. Sento tutte le farfalle nello stomaco, di tutto il mondo, tutte dentro. Sposo Luigi, l’amore della mia vita, l’amore che arriva e ti ci butti dentro. Ed è bellissimo.

Mi chiamo Alice, ho 30 anni, e sono incinta. Ho la nausea alla mattina, appena mi metto seduta sul letto dopo aver aperto gli occhi. E la sera mi viene una fame, una fame di cose introvabili nel frigo, così Luigi deve farsi un paio di supermercati prima di accontentare il piccolo che mi vive in pancia e che reclama cibo. Luigi dice che sono bellissima, io mica gli credo, sono ingrassata di dieci chili, ma mi faccio coccolare lo stesso.

Mi chiamo Alice, ho 31 anni, e da qualche mese stringo fra le braccia Francesco. È buono Francesco. E sa di latte dappertutto, sui capelli, manine, piedini. Lo guardo con meraviglia. Ma, per davvero, l’ho fatto io? Ma, per davvero, e’ venuto fuori da me? Mi commuovo per ogni cosa. Luigi, no. Luigi alza la voce. “Fallo smettere di piangere, Cristo.”. Ieri gli è scappata una mano sulla mia faccia. L’ho perdonato subito. È stanco. Questa paternità lo trova impreparato.

Mi chiamo Alice, ho 32 anni, e, oggi, guardandomi allo specchio ho notato un livido sul braccio destro, uno su uno zigomo, e uno vicino al labbro. Ora mi trucco per bene e sparisce tutto.

Mi chiamo Alice, ho 33 anni, e, stasera, sono finita al pronto soccorso. Tre costole rotte. Luigi mi ha mandato un calcio su un fianco. Ma non è colpa sua. Non è colpa sua. Lui è così stanco, ed io così distratta che sono caduta in cucina, mentre gli portavo in tavola il piatto e le posate. “Mio marito ha provato ad aiutarmi a rialzarmi, invece mi è caduto addosso.”, così ho detto in ospedale. “Sicura?”. “Sicura.”, ho risposto piano, col dolore che mi tagliava il respiro.

Mi chiamo Alice, ho 35 anni, e, stamattina, Luigi mi ha ficcato un coltello in gola. Ho sentito la lama entrare nella carne. Per qualche secondo ho trattenuto il fiato, e ho pensato “ma sta capitando a me? per davvero sta capitando a me?”. Sono morta dopo qualche ora. Senza più sangue.

Mi chiamo Alice, e, ora, sono nuvola, e pioggia, e terra, e mare. E respiro di madre su tutti gli orfani di questo mondo."

-- Anna Steri

 
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Serendipità

Post n°73 pubblicato il 18 Settembre 2023 da romhaus
 
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Il termine serendipità indica l'occasione di fare felici scoperte per puro caso e, anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un'altra. cit. Wikipedia.

6/9/83 sera: ero a casa solo e annoiato e sono uscito giusto per fare qualcosa. Salgo sull'autobus e lì c'era un mio ex compagno di classe che parlava con altri 2 di radio libere. Mi inserisco nel discorso e dico che ne ascolto molte e che mi sarebbe piaciuto fare lo speaker.

7/9/83: entro in una di queste, accompagnato da uno dei 2 e il titolare sentita la mia parlantina, mi fa provare affiancandomi a questo nel suo programma.

26/9/83: ho un programma tutto mio e quell'attività, sia pure fatta a livello amatoriale passando anche per altre radio, terminerà nel 2005 solo perché qui a Genova non ci sono più radio libere ma solo commerciali...

 
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post n.72

Post n°72 pubblicato il 07 Marzo 2023 da romhaus
 
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Tratto da una storia vera...

Ecco immaginatevi un giovane solitario, seduto in una vecchia biblioteca, intento a scrivere, a pensare; c’è una finestrella che da sul cortile, e da quella finestra si sente una voce gioiosa, innocente piena di «pensieri soavi, speranze e cori».

Quella voce apparteneva alla figlia di un umile cocchiere. Il giovane interrompeva il suo studio «matto e disperatissimo» soltanto per ascoltarla cantare e si innamorò della semplicità di questa ragazza, anche se apparteneva a un ceto sociale diverso dal suo. Lui era un nobile, un conte, lei una comunissima «tessitora». Ovviamente non riuscì mai a dirglielo. E non ne ebbe neanche il tempo perché lei morì a ventun’anni, stroncata dalla tisi.

E dieci anni dopo lui scrisse per lei una delle sue poesie più belle e intense per raccontare questa storia tragica di cui questa è la parafrasi:

Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua breve vita mortale
quando nei tuoi occhi ridenti e timidi splendeva la bellezza,
e tu, felice
e pensierosa, ti avvicinavi al fiorire della giovinezza?
Il tuo canto perpetuo risuonava
nel silenzio delle stanze,
e nelle vie attorno,
quando sedevi presa dai lavori femminili,
felice di quel futuro misterioso che provavi a immaginarti.
Era il maggio
profumato: e tu passavi così ogni tua giornata.
Io, di tanto in tanto,
trascurando
gli studi amati e le pagine su cui mi affaticavo,
dove la mia giovinezza e il mio corpo andavano consumandosi,
dai balconi della casa paterna mi mettevo ad ascoltare il suono della tua voce,
e il ritmo rapido delle tue mani affaticate nel tessere la tela.
Guardavo il cielo sereno, le vie color dell’oro, le campagne,
e da un lato il mare, dall’altro le montagne.
Non esistono parole umane per descrivere ciò che provavo in quei momenti…
Che pensieri soavi, che speranze,
che emozioni avevamo, mia cara Silvia!
Come ci sembrava la vita umana e il destino!
Quando ripenso a speranze così grandi,
un dolore disperato mi strugge il cuore,
e torno a dispiacermi della mia sventura.
O natura, natura, perché non restituisci mai quello che hai promesso?
Perché inganni così tanto le tue creature?
Tu, prima che l’inverno inaridisse l’erba,
Silvia, piccola mia, sfinita e vinta da una malattia occulta, morivi.
E non vedevi
il fiore dei tuoi anni,
e non ti accarezzava il cuore
la lusinga per i tuoi capelli nerissimi,
e per il tuo sguardo vergine che fa innamorare;
né le tue amiche, nei giorni di festa, chiacchieravano d’amore con te.
Dopo non molto, morì pure
la mia speranza:
anche a me il destino ha negato gli anni della giovinezza.
Ahimè,
come, come te ne sei andata, cara compagna della mia gioventù,
mia speranza rimpianta.
Sarebbe questo quel mondo?
Questi i piaceri, l’amore, le azioni, gli eventi su cui tanto abbiamo fantasticato?
È davvero questa la sorte del genere umano?
All’apparire della verità tu, misera, sei caduta:
e da lontano con la mano mi indicavi una tomba spoglia e la fredda morte.

 

Ovviamente lui è Giacomo Leopardi e lei Teresa Fattorini

 

 
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post n.71

Post n°71 pubblicato il 07 Agosto 2014 da romhaus
 
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Impariamo a riflettere prima di agire


Un ragazzo regala alla sua fidanzata una bambola, lei si innervosisce e butta la bambola in strada.

Il fidanzato le dice ma perché hai buttato la bambola?
Lei risponde, perché non mi piace il tuo regalo così lui va in strada e prende la bambola, quando all'improvviso una macchina lo investe e lui muore.
Il giorno dei suoi funerali, in lacrime, la fidanzata prende la bambola e la stringe forte a se, mentre stringe la bambola...
questa dice: "Mi vuoi sposare?" La ragazza impaurita fa cadere la bambola. Cadendo, dalla tasca escono due fedi.

La morale di questa storia :
Ama ciò che hai, prima che la vita ti insegni ad amare ciò che hai perso...

 
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post n.70

Post n°70 pubblicato il 20 Marzo 2014 da romhaus
 
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22 GIORNI

Sono nato 22 giorni fa. Faceva ancora freddo e mi sono rifugiato nella lana calda di mamma.
Ho capito subito, appena nato, che fosse lei dal modo in cui mi ha leccato sulla testa, da come mi ha chiamato e, soprattutto, da come mi ha guardato.
I primi giorni li ho passati nel tepore del suo respiro. Era bello chiudere gli occhi e sapere che lei era lì.

Sono nato 22 giorni fa e, tutto attorno a me, altri agnellini. Dall’alto avremmo potuto essere scambiati per nuvolette. Correvamo per i prati, rendendo soffice l’erba che nasceva, rendendo soffice il richiamo di mamma, impigliato fra le fronde degli alberi ed il mio cuore.

Qualche giorno fa ho chiesto a mamma se fossi figlio unico. Lei ha sospirato e non ha risposto. È diventata all’improvviso triste e se ne è andata via.
Quella sera mi si è avvicinata una vecchia pecora, con il vello tutto stopposo, ma con gli occhi saggi.
Mi ha detto che ogni pecora non ha mai un solo figlio. Mi ha detto che ogni pecora è madre ogni anno e che ogni anno… ma poi non ha voluto continuare, gli occhi le si sono inumiditi, ha dato la colpa al freddo della sera e se ne è andata anche lei.

22 giorni.

Abito in un prato con la mamma, tante altre mamme pecore e tanti altri agnellini. Lo spazio non è enorme, a volte mi chiedo cosa ci sia al di là dello steccato, ma sono troppo impegnato a correre, giocare, mangiare, dormire, sognare per pensare ad altro.

Sono diventato amico di tanti animaletti. Talpe, ricci, galline, un tasso, qualche uccellino. Sono questi ultimi, però, che, ogni volta che parlo del futuro, di come mi cresceranno le corna in testa, di quanto sarà folto il mio vello da grande si lanciano strane occhiate e sospirano. Se chiedo il perché di ciò volano via.

22 giorni.

Mi sembra ieri quando ho aperto gli occhi per la prima volta ed ho assaggiato il latte della mamma.
La mamma ha lo sguardo pensieroso. Mi guarda come se dovesse non vedermi più.
Quando fa così vado da lei e le appoggio il muso sulla pancia. La sento respirare. La mia mamma è una culla. Mi addormento e faccio bei sogni.

22 giorni.

Qualche giorno fa sono scomparsi degli agnellini. È tutto talmente strano. Il giorno prima giocavano con me, il giorno dopo non c’erano più. sono andato a cercarli, ma il prato non è così grande e le sbarre troppo alte perché siano saltati dall’altra parte.
Perché non sono venuti a salutarmi? Siamo amici.
Le loro mamme piangono in un angolo della stalla. Hanno il muso tutto sporco di fieno e non vogliono mangiare. Incrocio lo sguardo di mamma. Mi sta guardando. Ha gli occhi stanchi. Vorrei chiederle qualcosa di questa situazione, del perché quelle mamme piangano, ma lei se ne va via.

22 giorni.

Altri agnellini sono scomparsi. C’è agitazione fra di noi. Tutti bisbigliano, nessuno bela a voce alta. Noi agnellini stiamo in gruppo e cerchiamo di capirci qualcosa, ma nessun adulto sembra volerci dare delle spiegazioni.

22 giorni.

Ho ancora gli occhi impastati di sogni quando gli esseri strani a due zampe entrano nella stalla e mi svegliano. Non lo fanno molto delicatamente, mi rovesciano a testa in giù e mi tirano su per le zampe. Mi fanno male, cerco di farglielo capire belando, ma quello che mi ha preso mi scuote, dice delle cose in un linguaggio strano, sembra arrabbiato. Cerco mamma con lo sguardo, la trovo, lei è sveglia e sta belando forte. Mi dice che mi vuole bene. Mi dice che sarò sempre il suo bambino. Mi dice che non mi dimenticherà. Mamma piange. Mi portano via. Il mondo a testa in giù è anche divertente da vedere, ma non voglio che mamma sia triste. Le mani che mi tengono le zampe stringono, fanno male. Vedo che stanno portando via anche altri due agnellini.
Dove ci portano?
Siamo fuori. Siamo fuori dal prato. Abbiamo superato le sbarre. Forse questo significa diventare grandi. Avere il vello folto. Ma la mamma mi manca.
Volto la testa verso il prato dove sono nato, voglio vederla, forse è lei con il muso infilato fra le sbarre che mi chiama, che mi chiama, poi entriamo in una stanza e qui ci sbattono a terra. Che posto strano. Ci sono dei ganci che pendono dal soffitto e ci sono delle macchie scure sui muri. Mi avvicino, ne annuso una, è un odore pungente che mi ricorda il sangue, ma non può essere sangue, sono macchie troppo grandi, poi quello strano essere che chiamano uomo afferra uno dei miei amici agnellini per le zampe, lo lega al gancio, fa lo stesso anche con l’altro, poi è il mio turno. Mi divincolo, ho paura, voglio la mamma, ma quelle braccia sono troppo forti e lo vedo, l’uomo, lo vedo mentre belo e piango a testa in giù, lo vedo che prende un oggetto da un tavolino, si avvicina a me, mi prende per la testa, me la solleva e l’ultimissima cosa che ricordo, prima che tutto diventi scuro, è che quando sono nato ed ho cercato di mettermi in piedi sulle zampe il muso di mamma era lì, a sostenermi, ed io ho pensato che ci sarebbe stato tutta la vita.

P.S.: 22 sono in media i giorni che vivono gli agnelli destinati ad essere ammazzati per Pasqua

 
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post n.69

Post n°69 pubblicato il 19 Luglio 2013 da romhaus
 
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Quanto mi fanno incazzare queste cose!!!


Buongiorno,mi chiamo Gabriele Francesco. Sono nato a Novara l’11 aprile 2013 e oggi avrei un mese, se fossi ancora vivo. Invece sono morto lo stesso giorno in cui sono nato. Adesso tutti starete pensando che mamma e papà non si sono comportati bene: in effetti mi hanno lasciato solo, sotto un cavalcavia, con indosso pochi stracci e senza un biberon nei paraggi. Ma io non mi permetto di giudicarli. Certo è che noi neonati siamo indifesi: ci buttano dai ponti, ci fanno esplodere sotto le bombe, ci vendono per pochi soldi. Siamo carne da telegiornale. Prima di chiudere gli occhi, mi sono raggomitolato tra i rifiuti per cercare conforto e ho pensato: ma è davvero così brutto questo mondo che sto già per lasciare? Poi mi sono sentito sollevare e sulla nuvola da cui vi scrivo ho visto che la bellezza c’è ancora. C’è bellezza nel camionista che mi ha trovato e nell’ispettore che mi ha messo questo nome meraviglioso: è importante avere un nome, significa che sei esistito davvero. C’è bellezza nei poliziotti che per il mio funerale hanno fatto una colletta a cui si sono uniti tutti, dai pompieri alle guardie forestali. E c’è, la bellezza, nella ditta di pompe funebri che ha detto «per il funerale non vogliamo un euro», così i soldi sono andati ai volontari che in ospedale aiutano i bimbi malati. Dove sono nato io, metteranno addirittura una targa. Allora non sono nato invano. Mi chiamo Gabriele Francesco, e ci sono ancora. 

 
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post n.68

Post n°68 pubblicato il 13 Gennaio 2012 da romhaus
 

 

Semplicemente stupenda...

 

 
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post n.67

Post n°67 pubblicato il 19 Giugno 2010 da romhaus
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CINZIA E IL SUO VELENO

Ho due sorelle più piccole e quand’eravamo bambini e poi ragazzini, per un lungo periodo, i nostri compagni di giochi sono stati due nostri cugini coetanei. Lo zio è fratello di mamma e spesso ci siamo ritrovati ad uscire tutti insieme.
Ricordo le camminate vicino al fiume e le scampagnate su qualche collina circostante o semplicemente i pomeriggi (ed in estate anche le serate) ai giardinetti. E naturalmente la messa insieme la domenica e le feste comandate.
E mentre con mio cugino appena possibile si tiravano due calci al pallone o si andava alla ricerca di cuscinetti usati da mettere come ruote al carretto fai-da-te con cui lasciarsi andare giù da qualche discesa per provare l’ebbrezza della velocità, le mie sorelle con mia cugina erano dedite a giocare con le bambole, a pettinarle, vestirle e a farle cucinare.
I rapporti tra noi cugini erano idilliaci ma lo stesso non si poteva dire tra i nostri genitori. I miei zii erano tirchi da paura tanto che, ad esempio, avevano più volte rimproverato papà perché ci comprava il gelato in loro presenza, in quanto, così facendo, li costringeva a fare altrettanto… oppure avevano voluto stabilire che per Natale e i compleanni e persino le Comunioni, ognuno facesse i regali solo ai propri figli. E poi, peggio, erano criticoni e vanitosi su tutto: loro vestivano alla moda, loro avevano cose che noi non avevamo, i loro figli crescevano meglio e noi avremmo dovuto essere visitati costantemente dal pediatra per farci curare qualcosa che non sapevamo di avere… secondo il loro modo di vedere meno male che ci degnavano della loro compagnia altrimenti non ci avrebbe considerato nessuno.
All’inizio papà e mamma non ci fecero molto caso perché queste uscite disgraziate non erano frequenti. Col passare del tempo però cominciarono a diventare un tormentone e, cerca di essere educato una volta facendo finta di non sentire o rispondendo a tono, dieci volte, cento, mille, arrivò il giorno che papà sbottò mandando a spigolare a malo modo i miei zii e chiudendo di fatto ogni rapporto con loro.
Questa cosa ebbe ripercussioni soprattutto su noi cugini che non potemmo più frequentarci com’era avvenuto finora. Alle mie sorelle la cosa le toccò relativamente poco perché comunque, essendo in due, avevano nell’altra la compagna di giochi. Io mi sono sempre adeguato alle situazioni e poi avevo altri amici tra i compagni di scuola, per cui mi dispiacque ma non ne feci un dramma.
Passarono gli anni e l’unico contatto ravvicinato con i miei zii fu un giorno che andammo a far visita ad una zia, facendo un’improvvisata come si usava una volta, dove li trovammo senza però i figli. Col pretesto che loro erano lì già da un po’ nel giro di pochi minuti si alzarono e se ne andarono… salutando ovviamente solo la padrona di casa.
Un giorno arrivò una notizia tremenda: a Cinzia mia cugina che in quel momento avrà avuto intorno ai 12-13 anni, avevano trovato un nodulo al seno e l’avevano ricoverata in ospedale perché stava malissimo. E invece di migliorare sembrava peggiorare e il suo corpo non reagire a nessuna cura tanto che stava avvicinandosi sempre più ad uno stato vegetativo!
Lasciando da parte ogni remora andammo in ospedale a farle visita. Quando arrivammo nella stanza che ci avevano detto, la zia ci vide subito e ci venne incontro con un fazzoletto in mano e con la testa bassa, indicandoci il letto della figlia.
Cinzia era in piedi davanti al letto, pressoché immobile, col viso quasi paralizzato da un’unica espressione con la bocca spalancata dalla quale le scendeva una bava che mia zia col fazzoletto si premurava ad asciugare. Con le mie sorelle ci avvicinammo a Cinzia ed iniziammo col chiederle come stava, cosa si sentiva ed a farle mille carezze guardandola con una pena infinita e con la morte nel cuore. Ad un tratto Cinzia iniziò a parlare rivolgendosi a sua madre e nello stesso tempo a noi: “Mamma, i miei cugini mi vogliono bene… sono qui, hanno saputo che sto male e sono venuti a trovarmi… perché mi hai detto che ce l’avevano con noi e che ci odiavano?” Mia zia provò ad interromperla rivolgendosi a lei e a noi: “Cinzia, cosa dici? Non datele retta… sta male, non sa quello che dice…” Ma Cinzia sapeva benissimo quello che stava dicendo ed ormai era un fiume in piena: “Mamma, mi hai sempre parlato male di loro e della loro famiglia dicendo che noi eravamo meglio in tante cose… non so se era vero questo ma anche se lo fosse stato perché mi hai allontanata da loro e dal loro affetto? Mamma, io dopo che mi hai detto quelle cose sono rimasta da sola e non ho più avuto un’amica con cui giocare…”
In quel momento ho sentito tanta disperazione nelle sue parole ed anche di volere un gran bene a mia cugina più di quanto gliene potessi aver voluto finora… e poi, standing ovation, era diventata il mio idolo: continuava a ripetere quelle frasi all’infinito con mia zia che, rossa di vergogna, non provava nemmeno più ad interromperla!
Salutammo Cinzia promettendole che saremmo andati a trovarla ancora e che appena guarita tra di noi tutto sarebbe tornato come prima.
Purtroppo le notizie che ci arrivarono riguardo Cinzia, già dal giorno successivo, erano che non riusciva nemmeno più ad alzarsi dal letto e che il male si stava diffondendo velocemente: avrebbe potuto non farcela e comunque, nella migliore delle ipotesi, sarebbe rimasta così… Avremmo voluto andare a farle visita di nuovo ma altri parenti che l’avevano vista ci consigliarono di soprassedere “Tenetevi il ricordo di come l’avete vista l’ultima volta…”
Poi arrivò quella che secondo i medici avrebbe potuto essere l’ultima notte… e fu una lunga notte… E quella notte qualcosa in effetti accadde: il male all’improvviso iniziò a regredire fino a sparire completamente! Anzi, pare che dalle radiografie non ve ne fosse più traccia, come se non ci fosse mai stato…
Mio cugino poco tempo fa, ripensando a quel periodo, mi disse che quella notte lui la passò interamente a pregare ed è sicuro che quelle preghiere per sua sorella possano essere servite. Io ho un’altra idea… ma non gliel’ho detta.
Oggi Cinzia è moglie e madre, ci vediamo poco ma nel mio cuore è di gran lunga la mia cugina preferita.

 
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post n.66

Post n°66 pubblicato il 06 Dicembre 2009 da romhaus
 
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STESSA SPIAGGIA, STESSO MARE

 
A metà degli anni ’80 andare al mare significava ritrovarsi con gli amici sulla spiaggia dei bagni comunali di Vesima, quella in cui nel bel mezzo ci sta un enorme scoglio che di fatto divide la spiaggia in due. Era il tempo in cui il sole passava in secondo piano perché con gli amici si andava al mare anche quando il cielo minacciava pioggia: qualcuno si sarebbe trovato di sicuro per creare un cerchio sulla riva per palleggiare col mitico Supertele contando quanti passaggi si sarebbero fatti senza farlo cadere per terra. E la cosa divertente era inventarsi tuffi impossibili per salvare palle che sembravano ormai destinate a terra che ci consentivano di farci belli agli occhi delle ragazze che ci piacevano e del pubblico occasionale, probabilmente più preoccupato che la palla non gli arrivasse addosso. Non di rado invitavamo le persone che rischiavamo di colpire ad unirsi a noi e spesso erano più quelli sulla riva a palleggiare nel cerchio che non le persone rimaste sugli asciugamani a prendere il sole. In realtà con i miei amici eravamo di una razza negata, di quelli che scoprivano di avere avuto un’occasione quando ormai questa era andata perduta, nonostante spesso, ritornando sugli asciugamani, ci si univa a gruppi di ragazze che fino a poco prima avevano palleggiato nell’enorme cerchio che eravamo riusciti a creare sulla riva. Accadde una volta che, insieme ad alcune ragazze con le quali avevamo già rotto il ghiaccio alcuni giorni prima, si unisse a noi un tipo magro, dalle sembianze mefistofeliche che tutti vedevamo per la prima volta. Nonostante l’aspetto inquietante però, Nicola si rivelò subito particolarmente simpatico e non ci mise molto a portarci via una delle ragazze… Per un certo periodo ci trovammo ad uscire con le ragazze rimaste anche la sera e non di rado anche la nuova coppia si aggregò a noi. Una sera dal viso mefistofelico di Nicola vidi scendere una lacrima e la cosa mi meravigliò molto vista la sua abituale allegria. Gli chiesi che cosa avesse e lui mi rispose che ogni tanto gli passava per la mente un episodio della sua vita accaduto pochi anni prima che gli faceva ancora male. Gli toccai con delicatezza il braccio dicendogli che se potevamo fare qualcosa l’avremmo fatto volentieri. Non c’era nulla da fare e lui quasi a volersi liberare di un peso iniziò a raccontare. Nicola era un pompiere ed una volta, prima di venire ad abitare a Genova, la squadra con cui aveva lavorato era stata chiamata ad intervenire per recuperare un bambino che era caduto in un pozzo. Tutti ricordavamo di Alfredino Rampi e gli chiedemmo se si fosse trattato di lui. Ci rispose che purtroppo casi come quello di Vermicino non sono isolati e che quello di cui ci stava per raccontare aveva fatto notizia solo a livello locale. Nel caso di Alfredino furono commessi degli errori e la sua squadra pensò come soluzione immediata, piuttosto che calare una tavoletta che poteva incastrarsi, quella di calare a testa in giù un pompiere particolarmente magro che avrebbe dovuto cercare di recuperare il bambino imbracandolo. Non ci volle molto a capire che Nicola fosse stato il prescelto per questa operazione di salvataggio... “Quando si sta al contrario dopo un po’ il sangue comincia ad andare alla testa e la testa sembra scoppiare soprattutto quando l’aria inizia a scarseggiare e sopravviene il caldo. Ed il caldo porta il sudore, tanto sudore. Ed il sudore cola sul viso, nel naso, sulla bocca e soprattutto sugli occhi. Ed in quel poco spazio è impossibile cercare di asciugarsi, tanto più che il sudore continua a colare e gli occhi bruciano, fanno male e si chiudono. E ad un certo punto non si capisce più nulla, la lucidità sembra venire meno, la testa gira che sembra di impazzire e di dover svenire da un momento all’altro… Ma non avevo tempo di svenire perché c’era un bambino la cui salvezza dipendeva da me e cercavo di pensare a qualunque cosa per sentirmi impegnato. Ed andavo sempre più giù in quel pozzo che mi sembrava interminabile che man mano che scendevo pareva stringersi perché sentivo il corpo strofinarsi alle pareti… Ad un tratto, che non ci speravo più, con le mani ho toccato qualcosa ed ho capito di essere arrivato. Il bambino sembrava respirare ancora ed il cuore battere. In quel poco spazio ho provato ad imbracarlo ma non riuscivo a muovermi e dopo un paio di tentativi falliti ho capito che c’era solo un modo per tirarlo su: quello di mettergli le mani sotto le ascelle e di tenerlo con la forza che mi era rimasta… cercando di farlo con tutta la delicatezza possibile per non creargli danni maggiori di quelli che poteva essersi procurato cadendo. Ho fatto un grosso respiro ed ho pregato il signore affinché mi desse ancora la forza per non svenire mentre risalivo. Ho dato il segnale ed ho iniziato il percorso al contrario. E man mano che salivo sentivo i gomiti strofinare contro le pareti del pozzo perché per reggere il bambino da sotto le ascelle avevo bisogno di tenere le braccia più larghe… e dopo un po’ ho iniziato a sentire dolore. E intanto continuavo a sudare, la testa mi faceva sempre più male e le forze cominciavano a mancarmi ed ho temuto che il bambino potesse scivolarmi via da un momento all’altro. Ma più salivo, più sentivo di potercela fare. I secondi sembravano interminabili ma sapevo che facendo ancora uno sforzo quella mia fatica per quel corpicino che sorreggevo poteva significare la vita… E finalmente sono arrivato in cima, qualcuno mi ha tolto il bambino dalle mani per soccorrerlo, altri si sono occupati di me che mi ero buttato in terra, dandomi dell’ossigeno per farmi riprendere. Speravo che quel bambino ce l’avesse fatta e di potermi rimettere in piedi presto per poterlo andare a verificare di persona… Un improvviso urlo disperato mi ha fatto capire che, purtroppo, le cose non erano andate come speravo e che tutto quello che avevo fatto si era rivelato inutile ed ho iniziato a piangere… Ma la cosa che mi ha fatto più male è stata vedere una donna che si è avvicinata a me con aria minacciosa e che ha iniziato a colpirmi con dei pugni mentre mi diceva: <<Mio figlio è morto, assassino, me l'hai ucciso tu!!!>>"

 
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post n.65

Post n°65 pubblicato il 16 Ottobre 2009 da romhaus
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Parigi, 31 dicembre 1999…

 
Non so se sia esistito un anno zero ma se il primo anno d.c. è stato l’anno 1 nel terzo millennio ci si è entrati nel 2001 e non nel 2000, altrimenti il primo millennio sarebbe durato 999 anni e non 1000. Ho sempre pensato che, la propaganda che venne fatta per considerare il 2000 come il primo anno del terzo millennio, fu solo a fini commerciali per anticipare di un anno i maggiori incassi che sarebbero potuti derivare dai festeggiamenti dell’evento.
 
Quel 31 dicembre 1999, con due coppie di amici e con colei che oggi è mia moglie, eravamo a Parigi e scegliemmo di aspettare il 2000 in piena Avenue des Champs Elysées, vicino a dei carri che avrebbero sfilato per la festa. Poco prima di mezzanotte ci siamo sistemati in un punto che potesse consentirci una migliore visione. Quello che lei non si aspettava è che rispetto al punto in cui stavano i nostri amici io le chiedessi in continuazione di allontanarsi un pochino. Pochi secondi prima di mezzanotte, in pieno countdown, prendendole le mani e guardandola negli occhi, le ho detto all’incirca queste parole: “… tra poco qui ci sarà una grande festa e vorrei che questa fosse anche la nostra festa… per sempre… mi vuoi sposare?” Non so quanti SI siano stati detti allo scoccare della mezzanotte di quello che secondo me erroneamente è stato considerato l’attimo in cui si entrava nel terzo millennio, ma uno sicuramente fu quello di mia moglie…

 
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