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L'ATTRUVATURA

Post n°37 pubblicato il 04 Giugno 2014 da vito.marino01

L’ATTRUVATURA

Il vocabolo siciliano "attruvatura o truvatura" sta ad indicare l'atto del ritrovamento di un tesoro nascosto da molto tempo e dimenticato da tutti. Si tratta di credenze popolari, che, assieme al fatalismo e superstizioni, risalgono al dominio arabo in Sicilia.

Una ricca letteratura scritta, più i numerosi racconti orali che si tramandavano da padre in figlio, documenta come il popolo era attaccato a questa tradizione.

I tesori ritrovati, per i tempi passati, erano una indiscussa realtà; evidentemente la pancia vuota di molte persone e la realtà storica di coloro che si arricchivano inspiegabilmente ed improvvisamente (come succede anche ai giorni nostri), avevano creato una psicosi collettiva fra la classe più povera della popolazione. 

Sempre secondo le credenze popolari, questi tesori nascosti stavano in simbiosi con l'incantesimo e la magia; il più delle volte essi erano rivelati in sogno da un parente defunto, o dalle fate che indicavano il posto preciso con tutti i particolari del rituale magico da seguire.  

Caso strano ma tutti questi tesori (ed erano numerosi) si potevano "spignari" (togliere l'incantesimo) solamente dalla o dalle persone indicate nel sonno; inoltre, il segreto non doveva essere confidato a nessuno. Generalmente l’operazione doveva essere fatta a mezzanotte, con la luna piena e si dovevano rispettare altri rituali. L’attruvatura era nascosta nei grossi muri delle case antiche o in qualche sottoscala murato; ma il più delle volte stava sotto terra in luoghi solitari, coperti da una grossa lastra di pietra che, al momento giusto, si spostava con una semplice spinta. Seduto sopra il tesoro, come custode, si trovava uno schiavo nero, alto e robusto oppure un serpente nero, ma con la parola d’ordine essi scomparivano.  Sotto c'era una grossa “quarara” (pentola di rame) o una giara di terracotta piena di "patac­cuna di maregni d'oru". Il Marengo era una grossa moneta d’oro coniata nel 1800.  Purtroppo l'emozione era troppa e si finiva sempre con lo sbagliare qualche procedimento, per cui il tesoro scompariva o si trasformava in "scorci di babbaluceddi” (gusci di lumachine) o finiva in una fumata non appena era toccato. Quando ero ragazzo, sentivo sempre dire la seguente frase detta a similitudine: “Pari assittatu supra la trova” oppure “Pari assittatu comu lu schiavu supra la trova”, dove per “trova” s’intendeva l’attruvatura, mentre lo schiavo nero, alto e robusto era considerato il custode dei tesori.

Esistevano numerose storielle su tesori trovati e dissolti, per non avere rispettato il rito magico necessario; personalmente ne sentii raccontare un paio, da persone molto attendibili, per fatti successi ai loro parenti intimi.

Si diceva scherzosamente che avrebbe trovato un’attruvatura chi riusciva a mangiare un melograno senza farne cadere un chicco per terra; provare per credere!

Per arricchirsi senza faticare, in alternativa all’attruvatura, c’era un ambo o un “ternu ‘n siccu” come vincita al  gioco del lotto. Allora si raccontavano molte storielle di persone che si erano arricchite per aver “pigghiatu un ternu ‘n siccu”; si trattava di solito di vincite misteriose, perché successe per merito di un sogno premonitore.

Le donne anziane raccomandavano di recitare quest’orazione all’inizio della settimana e prima di addormentarsi:

-          Oggi è lu lunniri e dumani è lu martiri

      la me furtuna di luntanu si parti

      e si parti di luntana via

      veni furtuna e veni pi mia.

      Veni di iornu e nun mi fari cantari,

      veni di notti e nun mi fari scantari

      dammi tri nummari e fammi piggjiari!

  Vito Marino

 
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OMU DI PANZA

Post n°36 pubblicato il 05 Maggio 2014 da vito.marino01

OMUDI PANZA. 

 

Moltigiornalisti e scrittori, specialmente dell'Italia settentrionale, hanno versatofiumi d’inchiostro, anche a sproposito, su omertà e mafia, accomunandola con tuttii Siciliani.

 

Daautentico Siciliano, figlio di questa terra sempre oltraggiata, desideroanch’io esprimere il mio giudizio strettamente personale, poiché sento la miapelle bruciare ingiustamente sotto questo marchio. Secondo me si dovrebbe fareuna netta distinzione fra omertà in senso lato, quella in senso mafioso, e “omudi panza”.

 

L’unicofilo che tiene unite queste distinzioni è la sfiducia popolare verso le PubblicheIstituzioni, considerate da sempre i nemici del popolo.

 

 Secondo la concezione arcaica, il vocaboloOMERTA’ deriva da “OMU”.

 

Unapersona che si sentiva e si comportava da “omu veru” parlava poco e mai di coseinutili; come persona seria non rideva mai. Quando voleva dare un consiglio adun amico o accusare una persona di qualcosa parlava con allusioni e discorsipiù o meno velati, che bisognava capire, facendo riferimento a casi similisuccessi o sentiti raccontare da terze persone assolutamente non nominate: “sidici lu piccatu, no’ lu piccaturi”; intanto, mentre parlava diceva fra sé: “Cuavi aricchi mi senti”. Inoltre aveva uncarattere forte, che sapeva mantenere un segreto; avendo ricevuto un’offesa oun danno da un’altra persona o se aveva visto o sentito qualcosa di illegale,non andava di sicuro a denunciare. Infine, sapeva risolvere le sue controversiecon le proprie forze, spesso con un duello rusticano, senza l’intervento dellagiustizia sociale. Costui, inoltre, sapeva tenere alto il senso dell’onoreverso le donne, i bambini, i vecchi e i feriti.

 

 Un vero siciliano, che si sentiva d’essere“omu”, portava in sé altissimo il sensodell’onore per la famiglia, per la sua donna e, principalmente, per la paroladata: preferiva morire, che venire meno alla sua parola. La parola data, secondola concezione arcaica, resta scritta col sangue nell’onore; pertanto vamantenuta a qualsiasi costo. Spesse volte i contratti erano sigillati da unastretta di mano: “Cca la manu, l’affari è fattu”; seguiva immancabilmente unapromessa, seguita da: “Parola d’onuri”.

 

Diversaè la concezione moderna mafiosa d’omertà, intesa a proteggere vicendevolmente imembri di un’organizzazione malavitosa, tacendo o mascherando gli indizi utilialla giustizia per individuare un colpevole; qui non esiste più il sensodell’onore, ed il fine principale è il profitto ricavato con tutti i mezziilleciti possibili. Si tratta di una realtà storica che sta a sé e che restalimitata a pochissime persone, anche se influisce negativamente su tuttal’economia e la rispettabilità dei Siciliani.

 

Laconcezione popolare di “OMU DI PANZA”, vale a dire il non volere parlare difatti di una certa importanza e gravità, di cui si è a conoscenza, è una cosaistintiva, quasi innata in tutti noi Siciliani, facente parte, per come si diceoggi, del nostro DNA. Certamente non si tratta di un dono o di un castigo checi ha dato madre natura, ma certamente molte cause concrete e remote, checercherò di riportare qui di seguito, hanno contribuito a maturarequest’atavico comportamento. 

 

Conpoche possibilità di difesa o d’aiuti esterni, perché isolati nel Mediterraneo,per molti secoli siamo stati soggiogati da altri popoli; umiliati dallaprepotenza dei potenti e dagli organi di governo, terrorizzati dalla mafia,dalla delinquenza comune e dal banditismo.

 

Inun passato non tanto lontano, una persona ferita in una rissa spesso nondenunciava il feritore, ma diceva fra sé: “si moru ti pirdunu, si camput’allampu” (da lampo, che uccide inesorabilmente).

 

Secondola legge dell’onore chi riceveva un grave torto, uno sgarro, doveva vendicarsiuccidendo chi l’aveva offeso; un figlio, a cui avevano ucciso il padre, doveva uccidere a sua volta l’assassino. Era giustoin ogni caso chiedere il permesso al capo mafia del paese, (a modo suo personaonesta e giusta) o al massimo avvisarlo della sua decisione. A vendettaconclusa tutti in paese sarebbero stati con lui, compreso il “don”, el’avrebbero aiutato in tutto; viceversa non era più stimato dalla gente. Sel’ucciso era un pregiudicato o un poco di buono, anche la legge non sipreoccupava troppo a cercare l’ignoto omicida.

 

Purtroppoquando l’offeso era una persona onesta del popolino, costui non pensava allavendetta, perché gli mancavano “li ficati” (il coraggio) e gli elementi validiper vendicarsi; non pensava neppure a fare denuncia alla giustizia, sia perpaura di ritorsioni, che per il senso dell’onore: non voleva farsi giudicaredalla gente come “nfami e cascittuni”. Infatti, era vergogna grave avere a chefare con la giustizia o finire in tribunale. Pertanto si affidava al semprevalido proverbio “calati iuncu chi passa la china”. Tante volte per averegiustizia si rivolgeva al “don…” del paese, restando imbrigliato nella retemafiosa e diventando un manovale della malavita.

 

Seuna persona restava uccisa in una rissa, l’assassino era aiutato nella lineadel possibile a fuggire, per non farlo cadere nelle mani della giustizia: “Lumortu è mortu e s’avi a dari aiutu a lu vivu”.

 

E’noto che nel dialetto siciliano si fa largo uso di frasi idiomatiche dette ametafora; si dice ad es. che una persona “avi lu stommacu lentu” (ha lasciolta), quando non sa tenere nello stomaco un segreto, cioè il contrario diomu di panza. Partendo dal presuppostoche la “cucuzza” (la zucchina) ha la proprietà di “sciogliere” lo stomaco, iproverbi, riferendosi metaforicamente alla cucuzza, confermano che non bisognaparlare, viceversa si muore uccisi: “Cucuzza, cucuzza, cu parla capuzza” oppure“cu mancia cucuzza mori ‘mpisu”.

 

Intornoagli anni ’50 ricordo che quando per strada passava una persona in divisa, noibambini gridavamo: “Li carrubbineri” e ci nascondevamo; anche i nostri genitori,quando facevamo i discoli, ci minacciavano di chiamare i carabinieri. Avere ache fare con la giustizia era una vergogna tremenda. Leonardo Sciascia in: “Ilgiorno della civetta”, riferendosi a persone che si trovavano in sala d’attesa,perchè convocati dal maresciallo, così scrive: “...Bruciavano di vergogna peril luogo in cui si trovavano. Niente è la morte in confronto alla vergogna...”

 

Inquest’atmosfera di sfiducia nella giustizia e nello Stato, perché inefficienti,gli adulti raccomandavano vivamente ai ragazzi: - Se vedete qualcuno commettereun delitto o un furto, fuggite e nascondetevi; se qualcuno vi chiede qualcosadite di non aver visto o sentito nulla. - “Nun sacciu nenti e nun vitti a nuddu” era diventato un motto moltoseguito, anche se nella cinematografia ci si è scherzato sopra.

 

Questifatterelli testimoniano che fino a pochi anni fa si viveva in un’atmosfera diterrore e di sfiducia completa verso la giustizia, verso i nostri governanti egli “sbirri”, come erano appellate le forze dell’ordine.

 

Lastoria parla di moltissime persone, che sono morte ammazzate per aver soltantotentato di opporsi a soprusi ed angherie, per la difesa del cittadino o peravere semplicemente parlato di fatti malavitosi a loro noti, ma anche permotivi politici.

 

Pertantoil Siciliano, oppresso dalla malavita, dai cattivi governi, dalla potenza delclero, dalla nobiltà, dalla miseria e dalla paura di un domani sempre incerto,conduceva una vita simile alla selvaggina braccata dai cani, dai cacciatori, edai predatori.

 

OgniSiciliano, per questi motivi, potenzialmente è un “omu di panza”; infatti, isuoi segreti se li trattiene ben stretti dentro di sé e non fa uscire nemmenouna parola dalla propria bocca. Per questa serie di circostanze, certamentenegative per il suo animo nobile, è sempre presente in lui il senso dellamorte. 

 

Siamostanchi e non abbiamo più la forza di ribellarci; a questo stato di cosesopravviene la rassegnazione, la saggezza della filosofia popolare semprevalida: “Calati iuncu chi passa la china”. Questa antica abitudine a chinare laschiena per sopravvivere, purtroppo continua ai nostri giorni, per colpa di chitrattiene ancora la spada per il manico. Noi continuiamo a consolarci con iproverbi:- “Chiddu chi voli Diu” - “cu cumanna fa liggi” - “chi ci putemufari?”, che ci spingono sempre più alla sopportazione, ma anche a trincerarcidietro il nostro silenzio. 

 

Chisa o ha visto qualche cosa, per paura di essere scoperto tace anche con gliamici e parenti più intimi e fidati; perché “li mura hannu l’occhi e li troffihannu l’aricchi” (oggi avremmo detto: “i cellulari hanno le orecchie”).

 

Leautorità, allo stato attuale, anche se legalmente rappresentano la volontàpopolare, in realtà non sono scese del tutto dal loro piedistallo: lapartitocrazia, sostituitasi alla dittatura, mantiene ancora molto distacco frachi comanda e fa le leggi ma anche gli scandali e chi, suo malgrado, ècostretto ad accettarli; inoltre lo Stato è sempre assente nella tutela delcittadino (vedi edilizie e discariche abusive in ogni luogo, opere costruitecon pubblico denaro lasciate incomplete che vanno alla malora. Dilagare delladelinquenza comune, posteggi abusivi, divieti di fumare non rispettati,circolazione stradale caotica senza nessun rispetto della segnaletica e delcodice della strada, spiagge, e boschi sporchi, incendi dolosi, etichette con iprezzi mai appesi sugli articoli esposti nelle vetrine, ecc.). Dove si trovanogli organi preposti ai controlli e a fare rispettare le leggi? 

 

E’troppo facile scaricare le colpe sui cittadini e sulla loro omertà!

 

Inogni Siciliano cova un inestinguibile desiderio di giustizia, che si tramuta invoglia di vendetta contro quel potere intangibile ed astratto che mantiene ilterritorio caldo, selvatico e violento. Purtroppo si tratta di una matassaingarbugliata, che non spetta a noi piccoli uomini della strada svolgere; è unatriste realtà, che resterà tale fino a quando lo Stato non cambierà volto e nonsarà più considerato un nemico delpopolo, fino a quando il cittadino sarà considerato una persona titolare didiritti, non più e non solo utente di servizi, fino a quando non sarà attuatal’eguaglianza e la democrazia, il rispetto della persona umanizzata attraversoun rapporto continuo e trasparente fra cittadino e Istituzione.

 

VITOMARINO

 

 

 
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QUANNU FRISCHIANU L'ARICCHI

Post n°35 pubblicato il 04 Maggio 2014 da vito.marino01

QUANNU FRISCHIANU L’ARICCHI   

Una volta si pensava che un acufene improvviso ad un orecchio, si collegasse a qualcuno, anche a grande distanza, che lo stesse “ammintuannu” (nominando): in bene, se il fischio si sente all’orecchio destro, in male se si sente all’orecchio sinistro. Esisteva anche il sistema per sapere chi era costui: bastava farsi dire subito dalla persona più vicina un numero, che, rapportato alla lettera dell'alfabeto corrispondente, avrebbe dato l'iniziale del nome di chi in quel momento lo stava nominando.

Quando ad una persona accidentalmente sfuggiva qualcosa di mano, si diceva: “a la facci di cu m’ammintua”; per sapere chi gli voleva male e lo nominava, si usava lo stesso procedimento di prima.

Vito Marino  

 
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LI PIANETI E LI RIMINA VINTURI

Post n°34 pubblicato il 30 Aprile 2014 da vito.marino01

    LI PIANETI E LI RIMINA VINTURI 

 

Gliimbroglia popoli ci sono sempre stati; una volta era consueto vedere per lestrade, girovaghi col pappagallo, che vendevano “la pianeta” (il destino), unbiglietto stampato su cui erano riportati sorte, destino, illusioni e sogni peri creduloni. Fra tanti biglietti il pappagallo ne sceglieva uno che, guardacaso, si adattava ai desideri del compratore lasciandolo contento e soddisfatto.C’erano anche le “rimina vinturi” o “nimina vinturi” (niminari = indovinare),per come si diceva allora, cioè delle zingare che leggevano la mano. Oggi glioroscopi diffusi con i mezzi di comunicazione di massa, televisione in testa,si danno da fare per accontentare tutti i creduloni con buone previsioni.

 

VITOMARINO  

 

 

 
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SCIOLINGUAGNOLO

Post n°33 pubblicato il 26 Aprile 2014 da vito.marino01

 

 -SCILINGUAGNOLO O SCIOGLILINGUA -

(Da leggere molto veloce)

Schetta nun t'happi

maritata t'happi

abbasta chi t'happi

e comu t'happi t’happi

 

Tri stacci sicchi

nta tri sicchi stacci

 

Ivi 'nta un palazzu

c'era un cani pazzu,

te' pazzu cani

stu pezzu di pani

 

Iu ci dissi: “Cu siti vui?”

“Iu su”, mi sissi iddu.

“Ah!, vui siti?” Ci dissi iu. 

 

Sasà si susì; sa si si susì Fifì.

 

Curri currennu

cuttuni cugghennu.

Curri currennu

cugghennu cuttuni;

 

Tri tistetti supra tri tistetti

stritti, strittissimi stannu

(conci di tufo)

 

Iapri lu stipu

e pigghia lu spicchiu

posa lu spicchiu

e chiuri lu stipu

 

Nasca patasca

parenti di musca

veni la vecchia

e ti mancia la nasca.

 

Pigghia s'ali e sala ss'ali;

s'un sali ss'ali, ss'ali fetinu.

 

Lu zzu Vicenzu cu li peri chiatti

assicutava li picciotti schietti

si li purtava darré li utti

e ci facia “mau” comu li atti.


 

- Ivi aCunigghiuni (Corleone) p’accattari cavigghi, caviggheddi e cavigghiuna.

- Chi ghisti aCunigghiuni, p’accattari cavigghi, caviggheddi e cavigghiuna?

A lu to paisi nun ci n’erano cavigghi,caviggheddi ecavigghiuna, chi ghisti a Cunigghiuni, p’accattari cavigghi, cavigghedda ecavigghiuna?

-S’a lu me paisi c’eranu cavigghi, caviggheddi ecavigghiuna, nun ghia a Cunigghiu p’accattari cavigghi, caviggheddi ecavigghiuna!

 

occhi cacati abbagnati a l'acitu,

veni la vecchia e ti tira luciatu.

 

 
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LI GIURAMENTI E LI SINTENZI

Post n°32 pubblicato il 23 Aprile 2014 da vito.marino01

LIGIURAMENTI E LI SINTENZI  

Peril siciliano vecchio stampo, la parola data aveva più valore di un attoscritto; pertanto, si aggiungeva un giuramento come sigillo e garanzia allaparola data.

Sipoteva giurare sulle anime “di li murticeddi” (ti lu giuru supra l’armuzzasanta di me matri) oppure si poteva dire: “orva di l’occhi o privu di la vistadi l’occhi”, “bedda matri”, “parola d’onuri”, “privu di viriri li me figghi”,“Maria santissima”, “comu è veru Diu”, “chi Diu mi putissi furminari”. 

Purtroppoanche allora c’erano persone che giuravano, senza poi rispettare la paroladata; la società, però, li giudicava come “omini senza parola”, oppure “ominidi pagghia, quaquaraquà, picciriddi, puddicinedda”.

“Lisintenzi” erano delle imprecazioni, delle maledizioni contro una persona a cuisi voleva del male. Ecco alcuni esempi:

-“Chiaccu chi t’affuca! o lazzu di furca (che tu sia impiccato) - Botta di sanguo corpu di sangu! (che ti venga un accidente) – Botta di chiummu (che tu possaricevere una schioppettata) - Chi putissi moriri di ‘n subitu! (che tu possamorire subito)- Allampatu! (da lampo; che tu possa morire in manieraistantanea) - Chi putissi moriri ‘n suppili ‘n suppili! (di una morte moltolenta) - Chi putissi scattari! (scoppiare) - Chi si pirdissi la to simenza!(che si possa estinguere la tua discendenza) - Chi ti fazza vilenu! (che tifaccia veleno) - Chi ti siccassi la lingua! (che ti possa seccare la lingua) -Chi ti vegna ‘na cacaredda! (Che ti venga una sciolta) - Chi ti vegna un mali subitaniu!(che ti venga un male all’improvviso) - Chi ti vegna ‘na pipitula nta lalingua! (che ti venga una pipita sulla lingua) - Va stoccati l’ossu di lucoddu! (vai a romperti l’osso del collo) - Va stoccati li vizii! - Chi ti vegna‘n amuri di Diu! (questa voltal’imprecazione è in senso buono). Di contro, chi riceveva l’imprecazionerispondeva: “Li paroli su’ di canigghia, cu li dici si li pigghia”, oppure: “Cudisìa lu mali a ‘n autru, lu so’ l’avi darrè la porta” o “lu putiaru socc’aviabbannia” (i proverbi, sempre utili e pronti in ogni occasione, in questo casovogliono significare che la maledizione viene respinta al mittente)”-.

VITO MARINO

 
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FILASTROCCHE

Post n°31 pubblicato il 21 Aprile 2014 da vito.marino01

LE FILASTROCCHE

“Li cantileni” erano delle filastrocche lunghe emonotone senza un apparente significato logico, composte in dialetto ed a rimabaciata o per assonanza. Esse facevano parte della scomparsa civiltà contadinae, come molte cose del nostro passato, erano considerate come uno scongiurocontro il male e come auspicio di bene. I ragazzi le recitavano ocanticchiavano con molto entusiasmo, quando non c’erano le condizioni idealiper giocare.

Simili composizioni, oltre a fare divertire i ragazzi,assolvevano indirettamente diversi compiti di natura educativa e formativa estimolavano le capacità mentali e psicofonetiche.

 


Dumani è Duminica,

tagghiamu la testa a Minica

Minica nun c'è

tagghiamu la testa a lu Re

lu Re è malatu,

la tagghiamu a lu surdatu

lu surdatu è a la guerra

e va duna lu cozzu nterra.

Nterra ci fici mali

e va duna lu cozzu a mari.

A mari si ci vagnà

e a lu suli si ci asciucà.

 

LU CUNTRARIUSU 

- Chi facisti? caristi?

Nonsignura truppicavi.

- Lu ciaschiteddu lu rumpisti?

Nonsignura lu ciaccavi.

- A to patri ci lu dicisti?

Nonsignura ci lu cuntavi.

- E lignati ti ni retti?

Nonsignura, vastunati

 

Olì olì olì

setti fimmini e un tarì.

Un tarì è troppu pocu

setti fimmini e un varcocu;

lu varcocu è duci duci

setti fimmini e ‘na nuci;

ma la nuci è diffirenti

setti fimmini e un sirpenti;

lu sirpenti scinni all’acqua

duna a biviri a la vacca;

Ma la vacca avi li corna

duna a biviri a la donna;

ma la donna scinni iusu

duna a biviri a lu tignusu;

lu tignusu sciddicau

lu mustazzu si ‘nchiappau.

 

   VITO MARINO

 
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LA MORTI

Post n°29 pubblicato il 16 Aprile 2014 da vito.marino01

 LI MORTI

Quando in casa moriva qualcuno, per prima cosa si apriva l'imposta della stanza, perpermettere all'anima di uscire, viceversa sarebbe rimasta in casa per sempre.

“Limorti nun s’ammintuanu”, si diceva una volta; quando durante un discorso si eracostretti a nominarli, si aggiungeva: - “la bon’arma”; così ad es.:  “me patri, bon’arma” - In questo modo l’anima del defunto non sioffendeva. Nella camera ardente, gli specchi erano tolti o nascosti da pannineri.

Unavolta per conoscere la fine che avrebbe fatto l’anima del defunto, si guardavala luna nuova a mezzanotte precisa del terzo mese dopo la morte. Se il levanteera scuro, nebuloso, se tirava vento e qualche cane latrava voleva dire chel’anima era dannata. Se il levante era senza nuvole e se non soffiava il vento,l’anima era in purgatorio. Se il cielo era puro, se non si sentiva alcunabrezza e, soprattutto si vedeva una stella filante era un presagio sicuro chel’anima saliva in paradiso. C’era pure la credenza che l’anima dei mortiammazzati venisse a vagare intorno alla croce piantata sul luogo della loromorte, per tutto il tempo che avrebbe dovuto vivere al mondo.

 VITO MARINO  

 
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LA LEGGENDA DELL’AIRONERA DI CASTELVETRANO

Post n°27 pubblicato il 13 Aprile 2014 da vito.marino01

LA LEGGENDA DELL’AIRONERADI CASTELVETRANO

Il Medioevo era ricco dileggende, alcune fantasiose, altre rispecchiavano fatti effettivamente accadutima gonfiati da quei contorni colorati e fantastici, che dipendevano dallabravura di chi raccontava la vicenda.

Durante la scomparsa civiltà contadina,molte leggende, provenienti da un lontano passato, facevano parte di quelgenere letterario che si tramandava oralmente da padre in figlio a causadell’analfabetismo, allora molto esteso fra la classe povera della popolazione.“Li cuntura” (i racconti) della nonna facevano parte di questa letteraturafantastica. La mia generazione fa parte dell’ultimo anello di questo genereletterario orale; mia nonna non si stancava mai di raccontarmi storielle ed iostavo delle ore ad ascoltarla con la bocca aperta. Onde evitare che siperdessero nel nulla, ho provveduto a trascriverli in siciliano per come li hosentiti raccontare. Purtroppo, la cultura odierna non accetta questo genere diletteratura dialettale, e 120 racconti aspettano tempi migliori.

Tutti i racconti avevano unoscopo educativo e finivano sempre a lieto fine, con la giustizia e la bontà cheprevalevano sul male.

In uno di questi racconti “Lu mammaddau”,rappresentava la somma delle cattiverie umane, personificate in un riccocastellano; costui godeva a seviziare le fanciulle e ad ammazzarle con laspada. La seguente leggenda, che ricordo di aver sentito raccontare o letto daqualche parte, ha delle somiglianze con quella del mammaddau citato.

Una volta i nobili avevano lapassione per la caccia che praticavano nei loro vastissimi possedimentiterrieri. Essi potevano disporre anche di una tenuta di caccia, con un’abitazionepiù o meno lussuosa, dove andavano ad abitare solo durante il periodo della cacciagione.

A Castelvetrano, in periferiaoltre l’autostrada, ne esiste una molto bella, che, purtroppo, come tutti gliedifici architettonici di Castelvetrano, va cadendo a pezzi: “L’Aironera”, chiamatacosì perchè il duca, Don Diego D’Aragona, proprietario della tenuta, qui davala caccia all’airone.

Per la cronaca, nel 1627 lapalazzina passa alla nobile famiglia De Blasi, quindi ritorna di proprietà delduca di Castelvetrano. Dopo tanti altri passaggi di proprietà, passa infinealla famiglia Saporito, oggi appartiene al Dott: Campagna.

Il Siciliano, che storpia semprele parole nuove acquisite, per adattarle al suo vocabolario ha chiamato semprel’edificio, e tutte le campagne circostanti:  “Lariuni”. 

Siccome il duca era sempre ingiro, continua la leggenda, per motivi amministrativi e politici, la moglieduchessa, per non annoiarsi, si trasferiva in questa palazzina ed organizzavasempre grandi feste, dove partecipavano i nobili più in vista di Castelvetranoe dei paesi vicini.   

La duchessa era ancora giovane edattraente e fra i nobili c’erano anche molti giovani di rare bellezze, che la corteggiavano.

Così, stando alla leggenda,l’attrazione fisica spinse qualcuno di questi bei giovani fra le braccia delladuchessa. Siccome il fattaccio poteva essere raccontato in giro, anche insegreto, la duchessa pensò bene di fare eliminare i suoi amanti da uno schiavonero, che teneva al suo servizio. Costui, molto fidato e con una corporaturaeccezionale, nottetempo badava a fare scomparire i cadaveri. Queste misteriosesparizioni, purtroppo, si ripetevano nel tempo e, per come dice un proverbioantico “li mura hannu l’occhi e li troffi hannu l’aricchi” o “nun c’è cosa ntastu munnu ch’un si sapi,”, un giovane nobile venne a conoscenza della realtàdei fatti. Così, rischiando la vita, ha accettato l’invito della duchessa e,dopo aver fatto l’amore con lei, invece di farsi ammazzare, per com’erasuccesso ai suoi predecessori, prese il pugnale che aveva nascosto e uccise disorpresa lo schiavo e scappò di corsa.

La notizia si sparse in unbaleno, tanto che arrivò alle orecchie del duca, che tornò in fretta e furia alsuo palazzo ducale. Qui fece rientrare la duchessa dall’Aironera e la feceammazzare. Il giovane riuscì a fuggire in altri paesi lontani e fece perdere lesue tracce, viceversa poteva finire male anche per lui.

Il finale tragico non fa partedei racconti della nonna. I racconti della nonna finivano sempre così: “tuttiarristaru filici e cuntenti e niatri n’ammulamu li denti”, quindi si pensa che questastoriella non sia frutto della fantasia ma di una realtà verosimile.

VITO MARINO    

 
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LU TUMAZZU DI PECURA

Post n°26 pubblicato il 12 Aprile 2014 da vito.marino01

LU TUMAZZU DI PECURA – LA RICOTTA E LA ZABBINA

La produzione del formaggio haorigine antichissima, ma acquista spessore solo a partire dal Medioevo. Repertidi origine mesopotamica, datati III millennio a.C. sono i primi documenti chemostrano le fasi di lavorazione del formaggio.

Per produrre il formaggio dipecora si procede nel seguente modo: Il latte appena munto si fa riscaldare a35 – 38 gradi centigradi (temperatura dello stomaco della pecora);quindi si aggiunge il caglio, (detto anche presame), costituito ingran parte da enzimi (chimosina o rennina, pepsina e tripsina), che si adoperaper far coagulare il latte e trasformarlo in formaggio spesso di origineanimale, in quanto estratto dallo stomaco degli agnelli lattanti, dopo la macellazione),sciolto in poco latte. Il latte si divide in due parti: la cagliata e il siero.

Il caglio è una sostanza (dettaanche presame), costituita in gran parte da enzimi (chimosina orennina, pepsina e tripsina), che si adopera per far coagulare il latte etrasformarlo in formaggio. Può essere animale (ricavato dall’abomaso o quartostomaco di animali ruminanti ancora lattanti), vegetale (fiori di carciofoselvatico, lattice di fico, funghi), sintetico (prodotto da batteri modificatigeneticamente). Provoca la coagulazione della caseina del latte e laseparazione dal siero di una pasta gelatinosa, la cagliata,in cui sono presenti, oltre alla caseina, parte delle sostanze grasse, vitaminee minerali del latte di partenza. Il c. sintetico non può essere usato neiformaggi con certificazione di origine (DOP o IGP),

La cagliata, la massa granulosache affiora, viene separata dal siero ponendola in appositi contenitori diplastica bucherellati, una volta fatti con steli di grano (li busi)opportunamente intrecciati, per darle una forma e filtrarla. Una voltaasciugata questa massa ormai più compatta rappresenta la “tumma” (tuma), laprima lavorazione del formaggio, senza sale. Per dare più consistenza e persterilizzarla, la tuma si mette nel siero bollente per un paio d’ore. Quindi sipuò consumare così o avviene la prima salatura che trasforma la tuma informaggio pecorino primo sale. Col passare dei mesi, con la stagionatura siottiene il formaggio stagionato per mangiare o grattugiare.

Ilsiero di latte rimasto contiene ancora proteine, grasso e lattosio.

Conl’aggiunta di un poco di altro latte e altro caglio, riscaldando il siero a 85 gradi centigradi,attraverso il principio della coagulazione e precipitazione del siero proteine,favorito dall’ambiente acido, si ottiene la “zabbina”.  

Lazabbina altro non è che ricotta non ancora rassodata, assieme al suo siero diproduzione. Consumare zabbina è un vero e proprio rito in quanto andrebbeassaporata ancora calda direttamente nel luogo di produzione. Una volta siproduceva direttamente nella “mannara” (ovile) in un magazzino o sotto unatettoia. A Castelvetrano c’era la consuetudine fare la “zabbinata”, di mattinapresto, direttamente nel posto di produzione, con aggiunta di pane nero locale.Una prelibatezza tutta siciliana anche perché sembra che l’origine dellaricotta sia per l’appunto in Sicilia.
Il vocabolo “zabbina” proviene dal nome arabo del formaggio sia nella formadialettale giaban che dall’arabo classico jubn. L’attrezzatura storica per farela zabbina prevede la classica “quarara” (caldaia) dirame stagnata all’interno e lu zubbu, ovvero un bastone di legno con una basecircolare. Essendo la ricotta prodottacon il siero e non direttamente dal latte, non è definibile un formaggio,quindi la sua composizione è diversa da quella dei formaggi freschitradizionali.
Il termine ricotta deriva da “cotta due volte”, inquanto le proteine ed il grasso che vanno a costituire questo prodottosubiscono due riscaldamenti.

Laparte di zabbina rimasta, posta nellevascedde o camagne e lasciata sgocciolare diventa ricotta e consumata per l’alimentazione. Unaparte della produzione, viene salata su entrambi i lati e posta successivamentenelle casere ove si conserva per 20-25 giorni, questa è la ricotta salata.

Laricotta si può ottenere anche con il latte di mucca, di capra e di bufala condelle caratteristiche organolettiche  molto diverse.

Laricotta di pecora è un’ottima fonte di proteine (9,5%), composte da albumine adalto valore biologico.

VITOMARINO

 

 

 

 
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LA CILANCA

Post n°25 pubblicato il 11 Aprile 2014 da vito.marino01

                                    LA CILANCA – (o cinanca).

Anche fra gli animali esiste la bulimia. Una volta c'era la triste consuetudine di tagliare ai gattini appena nati, parte della coda e di fare uscire dal moncone rimasto un filo che in essa è contenuto, detto "cilanca". C'era la credenza che i gatti con la coda intera diventavano dei grandi mangioni e ciò, in quei tempi di povertà, dispiaceva molto.

VITO MARINO

 
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- DONNA MESTRUATA - FIMMINA PRENA – FIMMINA PARTURUTA.

Post n°24 pubblicato il 08 Aprile 2014 da vito.marino01

- DONNA MESTRUATA - FIMMINA PRENA – FIMMINA PARTURUTA.

I Musulmani considerano immonda la donna durante “li reuli” (la mestruazione). Da noi non si arriva a tanto, ma secondo la credenza popolare, in quei giorni la donna non deve baciare i bambini, perché porta male; inoltre ha il potere, con il solo toccare con le mani, di fare essiccare qualsiasi pianta e non fa avvenire la lievitazione della pasta per pane o per dolci. Inoltre, se una donna fa bere il suo sangue mestruale ad un uomo, a sua insaputa, lo fa innamorare perdutamente di lei. Tale credenza continua ad esistere anche ai giorni nostri. 

Un'usanza ebraica considera la donna impura per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un figlio maschio.

Secondo un’altra nostra antica credenza, ancora vigente, una “fimmina prena” (donna incinta), che desidera qualcosa da mangiare e non è accontentata, potrebbe partorire un bambino con delle macchie sulla pelle con la forma del cibo desiderato (macchie di “disìu”). Pertanto si cerca addirittura di prevenire tali desideri, offrendole un assaggio di ciò che si stava mangiando o cucinando.

Per riconoscere in anteprima il sesso del nascituro, tutti si sbizzarrivano con dei metodi personalizzati; anche i proverbi venivano incontro per risolvere l’enigma.  Un proverbio diceva: “Panza pizzuta nun porta cappeddu”; cioé una donna incinta che aveva la pancia sporgente a punta, avrebbe partorito una femminuccia (che non porta cappello).

- LA FIMMINA PARTURUTA - Alla donna che aveva partorito, si dava da mangiare carne di gallina in brodo, per darle un po’ di sostanza (dobbiamo tenere presente che la carne allora era considerata un bene voluttuario e si mangiava poche volte l'anno in occasione delle feste principali). Forse perché si credeva che contenesse sostanze calmanti, al marito si dava da mangiare il collo della gallina, così lasciava in pace la moglie almeno durante un certo periodo; qualcuno, invece, asseriva che in questo modo il collo del neonato sarebbe cresciuto diritto e forte senza piegarsi. VITO MARINO

 
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la birrina e lu mpalaturi

Post n°23 pubblicato il 06 Aprile 2014 da vito.marino01

LA BIRRINA E LU ‘MPALATURI, LA CURRULA E L’ACIDDARA

Durante la civiltà contadina i nostri nonni eseguivano tutti i lavori inerenti alla produzione agricola manualmente a forza di braccia e con l’ausilio degli animali da soma.

“La birrina” è formata da un massiccio e pesante blocco di legno duro con due manici, con al centro infilzato un lungo palo di ferro che finisce a punta. Serviva quando si doveva impiantare un vigneto per bucare uno strato di roccia, per far passare la “barbatella” (la pianta selvatica della vite (il porta innesto americano). Se non si riusciva, si usava “lu zappuni strittu”, una zappa dalla punta più stretta di quella ordinaria, ma molto pesante.

Quando si trovava uno strato roccioso molto spesso o molto duro si usava “la pruvulata” (la polvere da sparo) per frantumarla.

Con l’avvento dei potenti trattori che con l’aratro ad un solo vomere riescono a bonificare i terreni rocciosi,  questo aggeggio fra l’altro molto faticoso, non si usa più.

“Lu ‘mpalaturi” è un altro attrezzo agricolo manuale simile alla “birrina” ma più leggero e con un palo più corto. Serviva per praticare nel terreno vicino alla pianta di vite un foro per infilzarvi una canna solida o un palo, per sostenere la pianta quando era in piena vegetazione.

Per potare la vigna si usava “lu rincigghiu” un attrezzo manuale: una lama di ferro, arcuata e larga che finisce a punta da una parte e la “pinnedda”,  con un taglio di circa 3 cm. alla punta dall’altra parte. Con la lama arcuata, molto affilata, si tagliavano i tralci delle viti, mentre con la pinnedda si tagliavano i germogli che spuntavano dalle radici. Intorno agli anni 50 le forbici per potare, più maneggevoli, hanno soppiantato questo arnese.

“La currula” è la carrucola e serviva giornalmente per attingere acqua dal pozzo o dalla cisterna tramite una corda robusta e un secchio.

“L’aciddara” era lo stesso attrezzo ma fatto di legno con delle scanalature dove scorreva la corda.

Quando un secchio cadeva accidentalmente dentro il pozzo si usava una corda con la “ciocca” legata a una punta. La “ciocca” era un aggeggio con tanti uncini legati assieme.  

    VITO MARINO  

 
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la legenda di suor giovannella

Post n°22 pubblicato il 28 Marzo 2014 da vito.marino01

LA LEGGENDA DI SUOR GIOVANNELLA NELLA CASTELVETRANO DEL XV SECOLO

Intorno al 1980, trovandomi presso la Diocesi di Mazara, per delle ricerche, un prete mi ha raccontato la leggenda su una suora delle Benedettine, avvenuta a Castelvetrano nel Quartiere di San Giacomo. Qui sorgeva. oltre alla chiesa di San Giacomo (l’attuale Batiedda), l’omonima confraternita e il monastero delle Benedettine. In Via La Farina sorge ancora il portale gotico che doveva essere l’ingresso principale di tutto il complesso.

Una volta le leggende popolari erano numerose. Esse avevano un elemento base di realtà su cui poi la fantasia popolare aggiungeva dei contorni molto fioriti ed arguti.

Pertanto si racconta che questo antico monastero era già in decadenza e contava soltanto poche suore. Esse ad un certo punto, per continuare a rispettare le regole del monastero, dovevano eleggere la nuova Badessa. Stando alla leggenda erano due le suore, che avevano la qualifica ad essere elette per l’ambito titolo, ma dopo varie elezioni, nessuna delle due raggiungeva la maggioranza dei voti.

Così, per protesta e provocazione, le suore decisero di votare all’unanimità per suor Giovannella, dalla personalità apparentemente insignificante. Una volta eletta Badessa, Suor Giovannella cambiò subito carattere assumendo le sue responsabilità che il nuovo titolo le garantiva e la obbligava a svolgere. Questo suo atteggiamento provocava le risate delle altre monache che l’avevano eletta per deriderla; pertanto non l’ubbidivano e avevano anzi preso gusto alle libertà che si stavano prendendo e godendo dopo anni d’ubbidienza alle rigide regole monacali.

Suor Giovannella, per nulla impressionata del loro stato d’inosservanza e disobbedienza, riunì le suore nell’oratorio, dove si trovava il seggio del potere della Badessa e intimò il giuramento d’obbedienza e sottomissione alla sua alta carica, con il relativo bacio della mano. Esse, che avevano preso tutta la faccenda come un  gioco e divertimento, continuarono a beffarla.

Nello stesso oratorio erano sepolte tutte le religiose sin dalla fondazione del monastero. Suor Giovannella con la serietà che la sua carica le consentiva, chiamò a questo punto l’ubbidienza alle monache defunte. Sempre secondo la leggenda, la pietra sepolcrale marmorea improvvisamente incominciò ad alzarsi per permettere alle defunte di uscire lentamente dalle loro tombe. Messesi in fila composta esse, ad una ad una, si avvicinarono alla nuova Badessa per baciarle i piedi, come segno di profonda ubbidienza e devozione. Quindi, per com’erano arrivate, lentamente rientrarono nel fossato, che si richiuse da solo per come si era aperto.

Le suore, rimaste sbigottite e spaventate, subito diedero fine alle loro beffe e, composte, andarono a baciare le mani ed i piedi della Badessa. Suor Giovannella da quel momento seppe guidare e reggere il monastero con perizia ed umanità; purtroppo la paura era stata grande, e nel frattempo il monastero fatiscente aveva bisogno di restauri, per questo preferirono trasferirsi nel luogo dove poi sorgerà il monastero della SS. Annunziata, meglio denominata e conosciuta dai castelvetranesi come “la Batia”, posta  in fondo alla Via Ruggero Settimo, una zona allora occupata da boschi.

VITO MARINO

 
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LA SENIA DI CASTELVETRANO

Post n°21 pubblicato il 23 Marzo 2014 da vito.marino01

LA SENIA DI CASTELVETRANO

Il vocabolo siciliano “senia” (dal greco “zènia”) in italiano significa noria. Si tratta di un antico marchingegno, che veniva azionato dal tiro dell’asino, per prelevare l’acqua da un pozzo poco profondo. A Castelvetrano per “senia” vengono chiamati anche tutti quei terreni coltivati ad agrumi od ortaggi.

L’acqua portata in superficie era utilizzata direttamente per l’irrigazione, ma  poteva essere versata in una “gebia”, dall’arabo “Jebiah (vasca per irrigazione in muratura).

Il nostro territorio, con un sottosuolo ricco d’acqua, nei tempi passati si presentava come  un grande giardino di agrumi. La produzione era composta da “partualli”, cui seguivano: “maniglia, lumii,  pirittuna e lumii duci”. In seguito sono arrivate le varietà più pregiate come il “brasiliano ed il washington”. Nel territorio di Catania esiste il “tarocco”, una varietà che si presenta più appariscente, ma per i gusti dei siciliani si presenta un poco acido, mentre è richiesto ed apprezzato dai consumatori dell’Italia Settentrionale e del Nord Europa.

Durante la passata civiltà contadina i terreni agricoli, l’unica ricchezza della Sicilia, erano di proprietà dei nobili, dei ricchi possidenti eredi di feudatari e della Chiesa; in minima parte anche dei “burgisi” (piccoli proprietari che coltivavano loro stessi il loro podere).

Per la coltivazione, i benestanti cedevano le loro terre ai “mmitateri” (mezzadri) e ai “gabilloti”, (che pagavano un affitto, “la gabella”).

"Lu iurnateri"  (colui che lavorava dietro un compenso giornaliero) e “l’adduvatu o alluveri" dal francese “à louer” (che si può locare)  erano dei lavoratori saltuari, che faticavano più degli altri, ma guadagnavano così poco da patire letteralmente la fame.

In tempi più recenti, espropriati i beni ecclesiastici, scomparso il latifondo, gradatamente questi terreni, sia pur frazionati, sono andati a finire in mano a questi contadini. Sembrava che finalmente la loro sorte fosse cambiata in meglio. Purtroppo con la concorrenza del libero mercato, dai paesi del terzo mondo e da quelli in via di sviluppo, dove la mano d’opera ha un costo bassissimo,  sono arrivati nei nostri mercati i prodotti agricoli ad un prezzo concorrenziale.

Sicché, gli agrumi siciliani, fra i migliori del mondo, non potendo combattere la concorrenza straniera, sono rimasti invenduti e gli agrumeti abbandonati ed incolti.

Intorno agli anni ‘70, la Regione Siciliana, per dare un aiuto al settore, tramite l’AIMA, incominciò a comprare l’eccedenza; si è assistito, così, al macero di montagne di ottime arance distrutte sotto i cingoli del trattore. Una iniziativa che lascia molto riflettere, se pensiamo al terzo mondo che muore di fame ed avitaminosi, per mancanza di frutta.  

Purtroppo anche uliveti e vigneti stanno per subire, per gli stessi motivi, la stessa sorte.

Scompare così a poco a poco una cultura molto antica portata dagli arabi durante la loro dominazione. Sparisce anche la figura del “siniaru” un contadino specializzato per una cultura altamente specializzata. Tutta la famosa “conca d’oro” attorno a Palermo é stata sommersa dal cemento. Il contadino, proprietario e non, non sa adeguarsi alle nuove esigenze di vita; non sa investire i suoi risparmi e la sua mano d’opera in altre attività da crearsi lui stesso ex novo, e preferisce riprendere la strada dell’emigrazione nel Settentrione d’Italia, iniziata un secolo fa dai suoi avi verso le Americhe.   

La Sicilia, terra fertile popolata da grandi lavoratori, chiamata nel passato il granaio d’Italia e per tale ragione contesa da tutti i popoli più progrediti del Mediterraneo, quasi per un destino avverso, resta il fanalino di coda dell’Italia e considerata come il terzo mondo d’Europa.

VITO MARINO

 
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LU MMITU E L'ARTARU DI SAN GIUSEPPE NELLA VALLE DEL BELICE

Post n°20 pubblicato il 14 Marzo 2014 da vito.marino01

LUMMITU E L’ARTARU DI SAN GIUSEPPI. NELLA VALLE DEL BELICE 

Lefeste religiose, nei tempi passati rappresentavano l'unico divertimentopopolare esistente; infatti, si viveva sempre nell'attesa di esse, per vestirsiper bene, per far notare in paese alla gente che la figliola, ormai cresciuta,era pronta al matrimonio, per fare una ricca mangiata, per godersi glispettacoli di piazza, ma principalmente per pura fede religiosa.

Oggi,molte di queste feste vanno scomparendo o sono poco seguite della popolazione;la vita moderna offre tanti svaghi, divertimenti, luoghi d’incontri fragiovani, mentre la fede in Dio lascia a desiderare.

Perfortuna, in molti paesi, alcune manifestazioni religiose sono state rilanciate,con l'aiuto di Enti Pubblici, a scopi culturali e folcloristici.

Ladevozione del popolo per tutta la Sacra Famiglia e per San Giuseppe in particolare,è stata sempre sentita.

ASalemi ed in altri paesi della Valle del Belìce la tradizione è in pienosviluppo incoraggiata dagli Enti Locali.

IlPatriarca incominciò a venerarsi come ricorrenza nel 1479 sotto il Papa SistoIV, che lo inserì nel calendario per il giorno 19 marzo. Nella Valle del Belìcela devozione per San Giuseppe inizia nel XVIII secolo.

Perquanto riguarda Castelvetrano, la Sua festa, con tutta la manifestazione del "votu, mmitu,tavulata e altare”, era scomparsa del tutto per alcuni decenni, a decorrere dalterremoto del 1968; oggi è riemerso anche per interessamento delle autoritàcomunali.

 Da una donna anziana ho appreso, ma ne hoavuta conferma da altre fonti, che ad iniziare dal 1° mercoledì dopo l'Epifaniae fino alla ricorrenza, si festeggiava il Santo in chiesa con "li mercurisulenni" e "li mercuri vasci". I primi, finanziati con i soldiraccolti fra i fedeli, con funzioni più solenni; i secondi, celebratigratuitamente dalla chiesa, erano meno appariscenti. In quelle occasioni sicantava "lu viaggiu di San Giuseppi" con accompagnamento d’organo eviolino e si recitava "lu rusariu di San Giuseppi".

Allafine della funzione, avveniva lo sparo dei “mascuna” (mortaretti),“tammurinata” e “scampaniata”, tre manifestazioni che hanno da sempreaccompagnato le principali feste religiose. Si tratta d’espressioni esterioribarocche che fanno da contorno alle ricorrenze festive religiose, molto sentitedalla popolazione. In merito un proverbio antico dice: -“Nun c’è festa senzaparrinu e mancu senza tammurinu”-. 

Sela memoria non m'inganna, il festeggiamento si effettuava nei giorni 17, 18 e19 Marzo. Nei giorni 17 e 18 la gente portava fiori in chiesa al Santo, cheveniva posto su un altare molto in alto con una scalinata piena di candeleaccese. La chiesa era “apparata” (addobbata) con lunghi drappi colorati ornaticon fregi e angeli dorati. “L’apparaturi”, era “don Pippinu Vajana”. Per iprimi due giorni nella Via V. Emanuele (la strata di la cursa) si assistevaalle corse dei “giannetti” (cavalli da corsa).

Giorno19 alle ore 17 iniziava la processione del Santo per le vie della città. Allaprocessione partecipavano i “fratelli” della confraternita dei falegnami ebottai, che portavano delle aste sormontate dalla figura di San Giuseppe,vestiti tutti di bianco con saio, cappuccio e visiera. C’erano sempre “livirgineddi”, bambini vestiti da angeli che portavano i “gigli bianchi di SanGiuseppe”. Il corteo era preceduto dai “tammurinara” e seguiti dalla bandamusicale. Alcuni fedeli, che avevano fatto promessa al Santo per riceveregrazie, camminavano a piedi scalzi e portavano i ceri accesi in mano. Il Santoveniva posto sul carro trionfale ornato di fiori e piante verdi. Rientrando laprocessione, verso la mezzanotte si sparava “lu iocu di focu” (i giochid’artificio). 

Purtroppo,dopo il terremoto del ’68, questa cerimonia andò in disuso. Infatti, la chiesa,che fu danneggiata in minima parte dal terremoto la notte del 15 gennaio 1968, dopoalcuni mesi di transennamento, l’amministrazione comunale di allora pensò benedi demolire chiesa e convento annesso e così risparmiare tempo per le pratichedi ricostruzione. 

Perquanto riguarda “lu votu, l’artaru di San Giuseppi e la tavulata”, cercherò quidi seguito di dare una descrizione e una spiegazione. 

"Luvotu" (il voto) rappresenta la promessa di una festa in onore del Santo,fatta per una grazia richiesta e ricevuta.

Quandoero bambino, a Castelvetrano la mattina del 19, vedevo passare in processione"don Mariddu lu tammurinaru", che si dava da fare a percuotere ilgrosso tamburo per attirare l'attenzione della gente; al suo seguito c'era"la Sacra Famiglia"con: San Giuseppe (un vecchietto con una tunica bianca ed un lungo bastone conil giglio fiorito), la Madonna(una ragazza con una lunga veste celeste) e Gesù (un bambino vestito dibianco). Completavano il gruppo alcune verginelle (delle bambine vestite dibianco con il giglio in mano), seguite dai fedeli (San Giuseppe è statovenerato anche come protettore delle ragazze nubili e degli orfani).

Questocorteo, dopo avere girato per alcune strade del paese, si dirigeva verso lachiesa del Santo, per una funzione religiosa e terminava alla casa di chi avevafatto il voto.

Lìera già pronto "l'artaru" e "la tavulata" con le pietanze giàpronte, ma, per rispettare il cerimoniale, la porta si trovava chiusa, pertanto“San Giuseppe” bussava alla porta e dall’altra parte era chiesto: ”cu è, soccuvuliti?”.

Larisposta era: - “Su tri poviri piddirini, chi addumannanu arrisettu”. La scenasi doveva ripetere tre volte; alla terza volta la porta si apriva al grido di“Viva Gesù Giuseppi e Maria”. 

 Questa "Sacra Famiglia", invitataalla tavulata, una volta era scelta fra le persone più bisognose, a cui mancavaaddirittura il pane per sfamarsi, oggi è scelta fra volontari per allietare lafesta. 

Amezzogiorno in punto, dopo che il prete aveva dato la benedizione, si servivail pranzo in una stanza adiacente all'altare, in una tavola lunga coperta d’unatovaglia bianca, mentre fuori si sparavano "li mascuna".

Sultavolo del banchetto, accanto a ciascuno dei “Santi” invitati, sono posti trepani di diversa forma. Davanti a “San Giuseppe” è posto un pane a forma dibastone, simbolo della saggezza; davanti alla “Madonna” un pane a forma dipalma, simbolo della pace. Infine davanti al “Bambino Gesù” è posto un pane aforma di sole, simbolo della Signoria di Cristo sull’universo. La primapietanza del banchetto è rappresentata dall’arancia, seguono gli assaggi diun’infinità di pietanze (si parla di 101), come la “Pasta di San Giuseppe”,frittelle varie di verdure, ortaggi efrutta di stagione, pesci, uova (niente carne perché è periodo di quaresima);infine ci sono i dolci di tutte le varietà in uso nel paese come pignulati,minnulati, sfinci, cannola, cassateddi, cassati, dolci a base di ricotta, nonchè molti altri a base di pasta dimandorla. Durante il pranzo gli “invitati” non devono toccare il cibo, mavengono serviti in bocca da chi ha fatto il voto, come atto di umiltà epenitenza.

Servitoil pranzo, si scioglie il voto, ma davanti all'altare, si continuano per unadiecina di giorni, le preghiere e i canti dedicati a San Giuseppe; i numerosifedeli, che vanno a fare "lu visitu", ricevono come dono "panuzzi"artisticamente lavorati, e dolci.

L'altare,frutto di vera fede religiosa dedicata al Patriarca, rappresenta anche un verocapolavoro d'arte popolare. Per la sua costruzione e per la preparazione dellepietanze, specialmente dei "panuzzi", occorrono decine di giorni dilavoro e vi partecipano tutti i vicini di casa.

L'altareconsiste in alcuni ripiani, di solito tre, a forma di gradinata, coperti da unatovaglia bianca e, come ornamento, il pane di frumento nelle forme e figure piùdisparate, che rappresentano dei simboli della tradizione cristiana. In cimaagli scalini è posta un’immagine della “Sacra Famiglia”.Altre forme sono; lasfera, con la scritta J.H.S. (Jesus Hominum Salvator), la scala, la croce, lacorona di spine e i chiodi, che rappresentano la passione di Cristo. “La serrae lu marteddu”, i ferri del mestiere del Patriarca; i cuori indicano l’amorefra i membri della Sacra Famiglia. Inoltre, ci sono le figure di colomba,aquila, pavone, fiore, foglia, sacra famiglia, calice, stella, ecc. "Lipanuzza" sono dei panini in miniatura lavorati da fare invidia ai miglioriceramisti di Capodi­monte. 

Perla Sicilia diuna volta, il grano rappresentava tutta la ricchezza di una famiglia; silavorava un intero anno, per portare a casa la provvista per il prossimo anno,pertanto era l'alimento direi unico per sopravvivere. Mia madre ci rimproveravaanche aspramente se noi ragazzi ne facevamo perdere qualche pezzetto; se ne cadevaun tozzo per terra si puliva, si baciava e si rimetteva a tavola. "Il paneè benedetto dal Signore e Lui si offende se lo trattiamo male" ci diceva.C'erano contadini poveri senza lavoro "li iurnateri" che a volte siaccontentavano di qualche chilo di pane per il lavoro di un’intera giornata.

Ilpane dell’altare, assieme ai rametti di mirto, alloro, ulivo, palma, nonchéagrumi e fiori, rappresentano un'offerta di ringraziamento a Dio per i prodottidella terra, un auspicio di buon raccolto, simbolo di ricchezza, benessere eprosperità, ornamento e opera d'arte, momento di riconoscimento comunitario, in cui si affermano valori umanie cristiani.

Un’altraconsuetudine rimasta inalterata nel tempo, in tutte le famiglie è quella di prepararee mangiare, il giorno della ricorrenza del santo, “lu tianu di San Giuseppi”.Il condimento è preparato con le verdure di stagione, cucinate in tutte lemaniere, più uva passa, pinoli, sarde fresche. In un tegame si dispone lapasta, il condimento e abbondante salsa di pomodoro; sopra si dispone unostrato di mollica e mandorle “atturratati” (abbrustoliti) e il tutto va afinire nel forno per la cottura finale.

Unavolta questa pietanza si sistemava in un tegame di terracotta, si metteva sulla“furnacella” o sulla “tannura” con il carbone acceso e dell’altro carbone accesosi sistemava su un apposito coperchio, sempre di terracotta (focu sutta e focusupra); oppure si infornava nel forno a legna, immancabile in quasi tutte lecase.

VITOMARINO 

 

 

 
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LA PAROLA, LA BALATA LISCIA E LI BACARATI

Post n°19 pubblicato il 09 Marzo 2014 da vito.marino01

LA PALORA, LA BALATA LISCIA E LI BACARATI

“Luvoi pi li corna e l’omu pi la palora” (il bue si prende per le corna, l’uomoper la parola). Così diceva un antico proverbio!

Unavolta, prima di concludere un affare, compratore e venditore dialogavano per unbel po’, anche animatamente; a volte per rompere la differenza fra lereciproche richieste, chi aveva più interesse a concludere l’affare, sidimostrava più elastico dicendo più o meno: “Né pi mia né pi tia, rumpemu la differenzae ‘un ni parlamu cchiù”. Quindi, se riuscivano a mettersi d’accordo, persigillare il contratto verbale concluso, proferivano: “affari fattu, cca lamanu”, seguito da una vigorosa strettadi mano. L’impegno preso sulla parola data, era rispettato ed aveva più valoredi un atto scritto dal notaio. Su chi eccezionalmente non manteneva l’impegnopreso, pesava un gran disonore.

Purtroppoun altro proverbio diceva: “Masculi assai, ma omini picca”, poiché “Li mala paatura” (i cattivi pagatori)c’erano anche allora.

Quandoero ragazzo c’era una poesia popolare, indirizzata ai cattivi pagatori, chediceva: -

Fadebiti, fa debiti = Fai debiti, fai debiti

nunti ni ncarricà; = non ti preoccupare;

cudebiti o senza debiti  = con debiti o senza debiti

‘ngalera ‘un si ci và. = in galera non ci si va.

Lapoesia calza a pennello anche ai giorni nostri, per le leggi molto permissive.

Unproverbio siciliano dice: “cu tarda a paari nun è malu paaturi”, ma chi non pagacompletamente un debito merita una condanna esemplare. 

Cosìla pensavano i nostri antenati; infatti, con le norme giuridiche in vigore nelMedioevo, chi non onorava i propri debiti era condannato alla pena infamantedella "culacchiata": il condannato, dopo la sentenza da parte deltribunale, era condotto nella pubblica piazza dove c’erano molti curiosi adaspettare; qui, in pratica nudo, veniva sbattuto con forza con il sedere pertre volte sulla così detta "pietra del vituperio" e costretto ogni voltaa giurare solennemente di estinguere l'impegno di debito preso verso ilcreditore.

Questalegge era in vigore anche in Sicilia nei secoli XVII, XVIII, e parte del XIX;in merito un detto popolare siciliano dice: "Va duna lu culu a labalata" o, abbreviato: "Va duna lu culu". Un altro diceva:"Va duna lu culu e po’ dici chi caristi", cioè: vai a dare il sedere(sulla balata) e poi vai a dire che ti sei fatto male cadendo.

Inogni paese, sulla pubblica piazza c'era sempre una grossa "balata"adibita a quell'uso; si dice che, essendo stata usata molto spesso (i cattivipagatori sono stati sempre numerosi), questa pietra fosse diventata liscia.

Ricordobenissimo che a Castelvetrano, in Piazza Matteotti, a fianco del monumento aicaduti, c'era una lapide appesa al muro con la scritta: "cantone dellabalata liscia". In seguito, per lavori di restauro all'edificio, la lapideè scomparsa. Il Prof. Centonze, nostro illustre concittadino, in un suo scrittochiarisce che detta lapide si trovava all'angolo fra la Via V.Emanuele e la Via V.Gioberti. IlFerrigno cita la Via Gioberti come ex Via Agate, che a sua volta si chiamava ViaBalata Liscia. 

Aricordo mio e dei miei coetanei, in quella zona non c'è stata mai una pietracosì grossa, ma un mio conoscente ottantenne mi ha riferito che suo padreparlava di un grosso masso posto nella prossimità della lapide, dove i ragazziandavano a giocare lasciandosi scivolare.

Dire“palle o balle” oggi significa enunciare grosse bugie. Il Siciliano antico siesprimeva in altri termini: la “bacarata” era la bugia semplice e “bacarataorva” la grossa bugia.  

Perballa s’intende un insieme di merci raccolte e avvolte, spesso pressate, peressere trasportate più facilmente.

NelMedioevo era in uso far portare una balla pesante sulle spalle di un condannatoper esporlo, per come avveniva per la “balata liscia”, alla pubblica derisione.Il reo, infatti, con quel carico si faceva sfilare per le strade del paese, inmodo che tutti lo potessero vedere.

Dalloscherno - derisione (della balla sulle spalle), si sarebbe passato allo scherzoverbale, cioè alla bugia.

 VITO MARINO

 
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LA ADDINA CANTATURA

Post n°17 pubblicato il 05 Marzo 2014 da vito.marino01

 

- LA ADDINA CANTATURA - In natura è il gallo che canta per imporrela sua supremazia nel pollaio. La gallina canta soltanto quando deposital’uovo. Tuttavia, c’è qualche gallina che, credendosi forse un gallo,“carcaria” (canta a modo suo) in tutte le occasioni e in tutte le ore dellagiornata. Questa gallina era chiamata “addina cantatura” e c’era la credenzapopolare che portasse fortuna. Una volta il Siciliano, anche analfabeta, avevamolta sicurezza con la poesia ed esprimeva in versi anche un motto, unasentenza, un giudizio. Anche su questa gallina una poesia diceva così:

Laaddina cantatura

nési vinni né si duna,

sila mancia la patruna.

 VITO MARINO

 
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CIURI CANZONE D'AMORE SICILIANE

Post n°14 pubblicato il 18 Gennaio 2014 da vito.marino01

CIURI, LE CANZONI D’AMORE SICILIANE

Nella Sicilia d'altri tempi il canto sembrava innato in ogni persona; infatti, cantavano un po' tutti: l'artigiano nella sua bottega, i ragazzi per strada, la casalinga mentre tesseva o accudiva alla casa. Si cantava per allegria giovanile, ma anche per dimenticare i guai della vita o per “allianarisi” (per divertimento), poiché la vita allora presentava pochi svaghi.

Chi cantava era sempre il popolino, sia pure oppresso dal lavoro pesante e dai mille problemi quotidiani da risolvere. Si cantavano canzoni popolari già note, spesso composte da contadini poeti sul posto di lavoro. Non esisteva nulla di scritto per l’analfabetismo molto diffuso fra la popolazione. I canti erano trasmessi oralmente da padre in figlio.

Mi fa piacere ricordare che le canzoni siciliane di quei tempi avevano una melodia arabeggiante; certamente la lunga dominazione araba in Sicilia aveva lasciato una traccia indelebile anche in questo campo. Nel libro “il Gattopardo” l’autore, T. di Lampedusa così scrive: -“…cantavano alcune strofe della “Bella Gigogin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve assuefarsi qualsiasi melodietta vivace che voglia esser cantata in Sicilia”.

Intorno al 1800 sorse fra le persone del basso ceto sociale un genere di canzone chiamato “ciuri”. Si trattava di stornelli d’amore in cui era invocato, come simbolo, un fiore. Quando si trattava di un amore desiderato ardentemente, ma contrastato o sfortunato, si citava generalmente il fiore d’arancio, di gelsomino o di rose rosse; quando si trattava di un amore andato male, con sentimenti di fiero odio e disprezzo, si citava il fiore d’aloe o di canna.

Molto sentimentale e folcloristica (oggi diremmo) era la serenata al chiar di luna, nata dalla voce calda e giovanile dell’innamorato, che si levava nella notte verso il balcone della sua bella. Erano canti d’amore ricchi di lusinghe e sentimenti avvolti dal fascino della musica, complice il silenzio della notte; spesso a cantare non era l’innamorato in persona.

Si cantavano canzoni d’amore anche in campagna in occasione della vendemmia e della raccolta delle olive, con canti collettivi o di solisti con voce tenorile per farsi notare dalle ragazze presenti.

Eravamo in piena civiltà maschilista, quando la donna non aveva diritti ma molte limitazioni nella società. I due romanzi: “padre padrone” di Gavino Ledda  e del delitto d’onore” di Giovanni Arpino sono ambientati in quel periodo storico, molto duro per la donna.

Anche attraverso le canzoni d’amore si nota la condizione di inferiorità della donna.

Nella nota canzone “Vinni la primavera” (è arrivata la primavera) si nota la sofferenza di Rosa che, rinchiusa in casa seguendo la morale della civiltà contadina maschilista, guarda attraverso la porta messa a “vanidduzza” (socchiusa) se passa qualche giovane spasimante e sogna e soffre perchè il “Focu d’amuri lu cori m’addumò” (fuoco d’amore il cuore mi ha acceso).

In un’altra canzone: “Nicuzza” (Nicolina), lo spasimante promette subito, come promessa d’amore, di sposare la donna amata “Si tu pi zitu ti pigghi a mia iu ti maritu quannu vo tu” (se tu per fidanzato ti prendi a me, il ti sposo quando vuoi tu). Allora ogni promessa d’amore si concludeva col matrimonio.

In un famoso brano: “La vinnigna” (la vendemmia) una ragazza innamorata considera la vendemmia come “la staciuni di l’amuri” (la stagione dell’amore),  perchè, assieme al carnevale, erano le uniche occasioni per una ragazza di allora, di potere uscire di casa e avvicinare un giovane e sperare così nel matrimonio, il massimo che la vita potesse offrire ad una giovane.

Per evadere da questa sua situazione di quasi reclusa, le donne aspettavano feste religiose, fidanzamenti, matrimoni e morte di parenti o di amici di famiglia per avere la possibilità di uscire di casa ed incontrare amiche e parenti e potere dialogare. Un proverbio difatti diceva: “li fimmini vonnu o zitaggi o morti o festi fora li porti (fuori le mura di casa). Un altro proverbio di allora, diceva: “La figghia a diciott’anni o è maritata o la scanni”. Un altro diceva “donna a dicirottu e omu a vintottu”

In pratica, in linea generale,il matrimonio per amore, non doveva esistere. Un proverbio di quei tempi diceva in proposito: “Cu si marita p’amuri, campa sempri cu duluri”. L’amore doveva sorgere dopo il matrimonio; un proverbio, infatti, diceva: “va a lu lettu ca veni l’affettu”.

Purtroppo, contro le meraviglie della natura non si può andare, anche allora il fuoco d’amore colpiva i giovani, prova ne sia che un giovane innamorato andava a fare le serenate alla sua bella e “li fuitini” per amore succedevano molto spesso. Inoltre i genitori comprensivi, c’erano anche allora e i matrimoni d’amore esistevano lo stesso.

Per una ragazza, l’unico scopo della sua vita era il matrimonio ed avere tanti figli; perciò, spesse volte, essa passava le sue giornate a prepararsi il corredo ed a sognare il principe azzurro.

Il matrimonio era ancora considerato da tutti sacro ed indissolubile e gli sposi si recavano al matrimonio con un gran senso di responsabilità.

  VITO MARINO

 
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LA LUNA DI MIELE

Post n°13 pubblicato il 31 Dicembre 2012 da vito.marino01

LA LUNA DI MIELE

.In Sicilia la nota espressione "luna di miele" deriva dall'antichissimo uso di consumare il miele nelle feste nuziali.

Da un documento del 1623 si legge che a Catania, all'ingresso in Chiesa dei novelli sposi, veniva loro data una cucchiaiata di miele mentre all'uscita veniva loro gettato del grano e dell'orzo. Nella Contea di Modica, prima che gli sposi entrassero nella loro nuova casa, al ritorno della cerimonia nuziale, veniva buttato davanti l'uscio una “quartara” (un recipiente di terracotta) piena di vino, e tutti in quel momento gridavano in segno di augurio, “resti, boni festi” (cocci, buone feste) ma appena varcavano la soglia di casa venivano subito imboccati con un cucchiaio di miele: il marito per primo, che ne leccava la metà e poi la moglie, per la rimanente parte. Vino e miele usati come simboli augurali.

Lo stesso uso di consumare miele nel giorno delle nozze si ritrova a Piana degli Albanesi, dove la suocera imbocca la nuora davanti l'uscio, mentre a Marineo e a Prizzi sono le amiche della sposa ad offrire il miele. 

Le origini di queste tradizioni popolari si perdono nella notte dei tempi. Sicuramente tale consuetudine è stata importata in Sicilia da popoli che ci hanno colonizzato, attraverso i secoli.

I Babilonesi, ai tempi del loro splendore, usavano regalare alle coppie di sposi una quantità di idromele (un liquore al miele) sufficiente per un mese. Si pensava che tale bevanda garantisse fertilità. Tale usanza si ritrova anche nell’antica Roma, dove il miele si offriva agli sposi novelli per circa un mese continuato. Anche nel medioevo, quando una ragazza si sposava portava con sé del miele, come auspicio e simbolo di ricchezza.

Il primo mese che la coppia passava insieme veniva chiamata “Luna di miele” proprio per riferimento a questo miele e al fatto che la donna fosse considerata lunare, perché la durata del ciclo femminile è come quella delle fasi lunari.

La certezza che l’espressione “luna di miele” sia di origini antiche, ma anche universale, si ha per la presenza di tale espressione in molte altre lingue, come: francese “lune de miel”, spagnolo “luna de miel”, inglese “honeymoon”, gallese “mis mèl”, arabo “shahr el ‘assal” che, tradotte letteralmente, significano tutte "mese di miele”.

Perché proprio questa “luna” deve essere fatta di “miele”?

Il miele, fra gli alimenti, è il più dolce e calorico e nello stesso tempo tollerato dai diabetici; è una sostanza prodotta dalle api di consistenza sciropposa densa e contiene il 79% di zuccheri come il fruttosio (70 – 80 %), mentre possiede pochissimo saccarosio.

Alcuni testi, come il “Oxford Dictionary” considerano, per similitudine, la dolcezza del miele  alla dolcezza del primo periodo successivo al matrimonio, sottolineando il fatto che l'espressione lascia intendere che solo la prima "luna" sarà di "miele", ovvero che l’intensa felicità nel matrimonio dura poco, dopo inizia il rutine normale della vita quotidiana.

In Sicilia, con l’inizio della civiltà del benessere e del consumismo degli anni ’50 – 60, “gli sposini” subito dopo la cerimonia partono per il loro “viaggio di nozze”. Un viaggio che deve servire come diversivo e come un momento di riposo successivo allo stress nuziale. Anche questo viaggio viene chiamato  “luna di miele”.

Già nelle sacre scritture si afferma che ad un novello sposo non dovrebbe essere assegnato alcun compito gravoso poiché il suo dovere principale è rendere felice la moglie.

VITO MARINO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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