69. “E questo è il mio viso stravolto. Un viso che non sapeva di poter essere bello.” “Verità, non prestarmi troppa attenzione. Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.”

“Li amavo.
Ma dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e nulla è più facile che vedere la morte.”

WISLAWA SZYMBORSKA, Uno spasso, in Ogni caso, Milano, Scheiwiller 2009, traduzione di Pietro Marchesani (fonte web)

Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se mai fossero esistiti.

Ora rammento con chiarezza:
la gente al vedermi si fermava a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e nulla è più facile che vedere la morte.
Mi spiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –

È andata come dicevo io.
Solo che non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.

 

“So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.”

WISLAWA SZYMBORSKA, Sotto una piccola stella, in Ogni caso, Milano, Scheiwiller 2009, traduzione di Pietro Marchesani (fonte web)

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.

Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.

Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito
parole patetiche, e poi fatico per farle sembrare leggere.

ciliegio all'alba

il ciliegio e i colori del mattino:
alterar-sé con ciò che ci circonda, essendo e diventando;
la vita non è né una perdita, né una promessa, è un continuo accadere;
grazie

(rendersi conto del male che si fa
e saper chiedere scusa:
doni divini)

(Il mio sorriso: la maschera delle mie ferite.
Wislawa Szymborska)

67. vocabolario, luogo dove le parole sono e diventano

Devoto-Oli…
ah sì, quel gentile signore, il signor Devoto-Oli che ha così poco di pio, nato in una Firenze degli anni sessanta, e cresciuto dal coltissimo aio Le Monnier.
Che eleganza e che pazienza! Tanti si avvicinavano a lui, ricco di parole; lo interpellavano a volte con pigrizia e stanchezza, altre con furore ed entusiasmo.
I lemmi, lui aveva i lemmi, precisava, ché già parola è un passo successivo, è altra cosa; lui così preciso, così impeccabilmente denotante, diceva lui; salvo poi ricredersi e cambiare o aggiornare certi significati di certi lemmi che il signor Uso -l’intrigante creativo potentissimo signor Uso, già da un certo Manzoni decretato come Padrone e Signore della Lingua- a volte addirittura stravolgeva, sedotto spesso anche da una affascinante e seducente femmina, dalla lunga e fluente capigliatura, una incantevole sirena di nome Connotazione…
Oh, come resisteva il signor Devoto-Oli ai canti di Connotazione, come si legava all’albero dell’etimologia, come si aggrappava all’Attestato Uso che diacronicamente e tranquillamente aveva attraversato i secoli giungendo fin lì intatto; fin lì, di fronte alla risata smargiassa di Uso, che gli diceva “adesso il significato è cambiato”, oppure “c’è una nuova parola”, aggiungendo “lo dico io, Uso” a mo’ di punto e a capo.
Il gentile, colto signor Devoto, professor Oli, che dopo essere stato cresciuto da un integerrimo maestro qual era Le Monnier, passò a lavorare per una frizzante signora Mondadori, moderna manager editoriale, e da quella Firenze dove tutti passavano a lavar i panni e le parole in Arno, si trasferì a Milano, dove ogni tanto era visto aggirarsi per navigli, tra nebbie ed echi in cui lui cercava un lemma indissolubile, incorruttibile, che non si disperdesse, che resistesse indenne nel suo significato originario agli assalti del Tempo delle Mode delle Connotazioni e di Uso; un lemma a cui aggrapparsi per non estinguersi nella trasformazione imperante; per avere la certezza di saper “mantenere” la parola, lui, distinto signore d’altri tempi, quando la parola valeva come la vita.
Camminava col volto rivolto indietro, a cercare quello che pensava si fosse  perso, mentre a due passi davanti a lui, il Signor Uso dava il passo e la strada, signore del presente, signore dell’accoglienza, signore della capacità di saper creare sempre parole che valgano come la vita.

[… quella cosa strana di correlare divenire e perfettibilità,
in modo da opporre essere a divenire … ]

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66. l’esistenza come “una grande luce che fosse lucciola di un’altra” e cuori, piante, arcobaleni e mele: guide per una brevità chiamata vita

Canzoncina del primo desiderio
Federico Garcia Lorca

Nel mattino verde
Volevo essere
Cuore.

Volevo essere cuore.
Cuore.

E nella sera matura
Volevo essere usignolo.
Usignolo.

(Anima,
fatti color d’arancia.
Anima,
fatti color d’amore)

Nel mattino ancor vivo
io volevo essere io.
Cuore.

E nella sera ormai scesa
Volevo essere la mia voce.
Usignolo.

Anima,
fatti color d’arancia!
Anima,
fatti color d’amore!

 

Desiderio
Federico Garcia Lorca

Solo il tuo cuore acceso
e niente più.

Il mio paradiso un campo
senza usignolo
né lire,
con un ruscelletto
e una piccola fonte.

Senza la carezza del vento
sulla fronda,
senza la stella che vuole
essere foglia.

Una grande luce
che fosse
lucciola
di un’altra,
in un campo di
sguardi interrotti.

Una luminosa quiete
dove i nostri baci,
nei sonori
dell’eco,
si aprirebbero lontano.

E il tuo cuore acceso,
null’altro.

 

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Peanuts - pt_c150428.tif

9788858135099_0_0_624_75Come le piante navigano intorno al mondo, come portano la vita su isole sterili, come sono state in grado di crescere in luoghi inaccessibili e inospitali,
come riescono a viaggiare attraverso il tempo,
come convincono gli animali a farsi trasportare ovunque.

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Arcobaleno
Ardengo Soffici

L’uomo più fortunato è colui che sa vivere
nella contingenza al pari dei fiori.

Inzuppa 7 pennelli nel tuo cuore di 36 anni
finiti ieri 7 aprile
e rallumina il viso disfatto delle antiche stagioni.

Tu hai cavalcato la vita come le sirene nichelate
dei caroselli da fiera in giro,
da una città all’altra di filosofia in delirio,
d’amore in passione di regalità in miseria:
Non c’è chiesa, cinematografo, redazione o
taverna che tu non conosca;
tu hai dormito nel letto d’ogni famiglia.

Ci sarebbe da fare un carnevale
di tutti i dolori
dimenticati con l’ombrello nei caffè d’Europa,
partiti tra il fumo coi fazzoletti negli sleeping-cars
diretti al nord al sud
paesi ore.

Ci sono delle voci che accompagnan
dapertutto come la luna e i cani;
ma anche il fischio di una ciminiera
che rimescola i colori del mattino
e dei sogni
non si dimentica nè il profumo di certe notti
affogate nelle ascelle di topazio.

Queste fredde giunchiglie che ho sulla tavola
accanto all’inchiostro
eran dipinte sui muri della camera n.19 nell’Hotel
des Anglais a Rouen
un treno passeggiava sul quai notturno
sotto la nostra finestra
decapitando i riflessi delle lanterne versicolori
tra le botti del vino di Sicilia
e la Senna era un giardino di bandiere infiammate.

Non c’è più tempo:
lo spazio
è un verme crepuscolare che si raggricchia
in una goccia di fosforo
ogni cosa è presente:
come nel 1902 tu sei a Parigi in una soffitta,
coperto da 35 centimetri quadri di cielo
liquefatto nel vetro dell’abbaino;
la Ville t’offre ancora ogni mattina
il bouquet fiorito dello Square de Cluny;
dal boulevard Saint-Germain scoppiante
di trams e d’autobus,
arriva la sera a queste campagne
la voce briaca della giornalaia
di rue de la Harpe:
«Pari-curses», « l’Intransigeant» «La Presse».
Il negozio di Chaussures Raoul fa
sempre concorrenza alle stelle:
e mi accarezzo le mani
tutte intrise dei liquori del tramonto
come quando pensavo al suicidio
vicino alla casa di Rigoletto.

Sì caro!
L’uomo più fortunato è colui che sa vivere
nella contingenza al pari dei fiori.

Guarda il signore che passa
e accende il sigaro orgoglioso della sua forza virile
ricuperata nelle quarte pagine dei quotidiani,
o quel soldato di cavalleria galoppante
nell’indaco della caserma
con una ciocchetta di lillà fra i denti.

L’eternità splende in un volo di mosca.
Metti l’uno accanto all’altro i colori dei tuoi occhi;
disegna il tuo arco
la storia è fuggevole come un saluto alla stazione;
e l’automobile tricolore del sole batte sempre più invano
il suo record fra i vecchi macchinari del cosmo.

Tu ti ricordi insieme ad un bacio seminato nel buio,
una vetrina di libraio tedesco Avenue de l’Opéra,
e la capra che brucava le ginestre
sulle ruine della scala del palazzo di Dario a Persepoli.
Basta guardarsi intorno
e scriver come si sogna
per rianimare il volto della nostra gioia.

Ricordo tutti i climi che si sono carezzati
alla mia pelle d’amore,
tutti i paesi e civiltà
raggianti al mio desiderio:
nevi,
mari gialli,
gongs,
carovane;
il carminio di Bomay e l’oro bruciato dell’Iran
ne porto un geroglifico sull’ala nera.
Anima girasole il fenomeno converge
in questo centro di danza;
ma il canto più bello è ancora quello dei sensi nudi.

Silenzio musica meridiana,
qui e nel mondo poesia circolare
l’oggi si sposa col sempre
nel diadema dell’iride che s’alza.
Siedo alla mia tavola e fumo e guardo:
ecco una foglia giovane
che trilla nel verziere di faccia,
i bianchi colombi volteggiano per l’aria
come lettere d’amore buttate dalla finestra.

Conosco il simbolo la cifra il legame
elettrico,
la simpatia delle cose lontane;
ma ci vorrebbero della frutta
delle luci e delle moltitudini
per tendere il festone miracolo di questa pasqua.
Il giorno si sprofonda
nella conca scarlatta dell’estate;
e non ci son più parole
per il ponte di fuoco e di gemme.

Giovinezza tu passerai
come tutto finisce al teatro,
Tant pis! Mi farò allora un vestito
favoloso di vecchie affiches.

 

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65. kairos … buon compleanno

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Abito nella possibilità –
una casa più bella della prosa –
più ricca di finestre –
e superiore – per porte –

con stanze come cedri –
impenetrabili all’occhio –
e per tetto indistruttibile
gli spioventi del cielo –

per visitatori – i più belli –
per lavoro – questo:
divaricare le mie mani sottili
per raccogliere il paradiso –

                                                                                                                                                          Ceanothus__Concha__434b2e56                                                                                                                                                                                                                                                                                                        Fiorire – è il fine – chi passa un fiore
con uno sguardo distratto
stenterà a sospettare
le minime circostanze

coinvolte in quel luminoso fenomeno
costruito in modo così intricato
poi offerto come una farfalla
al mezzogiorno –

Colmare il bocciolo – combattere il verme –
ottenere quanta rugiada gli spetta –
regolare il calore – eludere il vento –
sfuggire all’ape ladruncola

non deludere la natura grande
che l’attende proprio quel giorno –
essere un fiore, è profonda
responsabilità –

Emily Dickinson, Poesie, Mondadori 1995, p. 243 e p. 327

 

800px-Kairos-Relief_von_Lysippos,_Kopie_in_TrogirScultura di Kairos, opera di  Lisippo

https://it.wikipedia.org/wiki/Kairos

http://www.treccani.it/enciclopedia/kairos/

http://www.treccani.it/enciclopedia/kairos_%28Enciclopedia-Italiana%29/

 

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64. Roberto Lerici “Prima che il vuoto tutti ci divori, che venga, venga presto, il tempo in cui ci si innamori.”

Non suonare quel che c’è lì,
suona quello che non c’è”
Miles Davis

 

Roberto Lerici, Quest’amore
Scritta per Gigi Proietti nel 1978, ne esistono versioni con piccole varianti. Elegante, meravigliosa con la sua forza drammatica e il suo pathos sociale che richiama un impianto anarchico-libertario: innamorarsi è anche un comportamento di rilevanza collettiva.

Quest’amore, quest’amore, quest’amore.
Quest’amore malato, denutrito,
fatto di parole smozzicate;
quest’amore usato, digerito,
buttato in pasto al popolo ignorante,
come fosse una cosa interessante;
quest’amore corrotto dalla noia
dei grandi amatori della storia,
masticato da cento letterati,
vomitato da principi prelati;
quest’amore che accoglie, che perdona,
fatto per gente dalla bocca buona,
è un amore di fradicia letizia,
che assolve tutto, pure l’ingiustizia;
quest’amore sciancato, deficiente,
sbattuto sulla faccia della gente
come l’osso al cane disperato;
quest’amore scarnito, rosicchiato,
coi suoi stracci di corpo denudato;
quest’amore di cui si parla, tanto
celebrato con tutte le grancasse,
quest’amore è disceso tra le masse,
elargito per grazia del potere
perché tutti ne possano godere.
È un amore deforme, malandato,
generato dal vecchio capitale,
fra le cosce del mondo occidentale.
Per quest’amore è meglio non cantare,
perché non c’è una musica che tenga
e questa mia canzone sgangherata
non so nemmeno cosa la sostenga.
Avessi almeno la grazia più scollata,
di una puttana sola, disperata,
piuttosto che la facile mania,
il fascino merdoso, di questa borghesia.
Ma quell’amore che era una certezza,
s’è assopito con l’ultima carezza,
ha piegato pian piano le sue foglie,
rinunciando, per ora, alle sue voglie.
L’anima mia per questo s’è ammalata,
non sogna più e resta addormentata.
Prima che il vuoto tutti ci divori,
che venga, venga presto,
il tempo in cui ci si innamori.

https://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Lerici_(editore)

 

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A criação de Deus

 

63. Franco Arminio, poeta e paesologo “Una volta mentre le accarezzavo la schiena ho pensato in modo così semplice da sentire il grande capogiro dell’universo.”

 

Franco Arminio, Resteranno i canti, Bompiani 2018 (fonte web)

Parliamo al buio

Parliamo al buio, l’unica luce sono i suoi occhi, i miei sono quasi sempre chiusi. Mi guarda, mi tocca le mani, accarezza il mio gatto. Quasi ogni sera arriva un po’ di neve, la giornata con gli altri finisce alle quattro del pomeriggio, non c’è più bisogno di uscire. Io prima di lei non avevo mai incontrato un essere umano capace di vedermi. Erano stati capaci di odiarmi e di amarmi, ma mai di vedermi. È bello vivere con una che ti vede. Da quando ho conosciuto lei ho smesso di spiare il mio corpo, non mi guardo più, ho tolto dalla casa anche gli specchi. Con lei ho smesso anche la mia attitudine al lamento, alla recriminazione. La mia vita è finalmente vuota e insignificante. Non devo dimostrare più niente a nessuno. Io e lei non facciamo niente. Lei racconta, io ascolto, lei mi guarda, io mi faccio guardare. Ogni tanto la guardo anche io, le accarezzo i capelli, guardo i suoi seni e poi torno con gli occhi chiusi, sento la casa, sento il tempo che passa insieme a lei, sento che l’universo sa tutto di noi, ci lascia fare, sento quello che sono e tutte le anime che ho passato, sento i miei primi respiri, aspetto i suoi gesti e i suoi gesti arrivano.
Non ci tocchiamo molto, ci limitiamo a guardarci e ad ascoltare i suoni, le storie che vengono dai nostri corpi. I nostri corpi suonano o raccontano mentre ci guardiamo, i nostri corpi stanno alla luce o in penombra, distesi o in piedi o seduti, quello che accade è sempre diverso anche se facciamo sempre la stessa cosa, teniamo il tempo tra le braccia e cerchiamo di non farlo cadere. Capita spesso di avere grandi pensieri mentre la guardo e anche lei mi dice di avere grandi pensieri mentre mi guarda. A volte questi pensieri li diciamo ad alta voce e s’incrociano tra loro e vanno per strade strane, i pensieri fatti col corpo in amore sono diversi dai pensieri che vengono quando leggiamo un giornale. Una volta mentre le accarezzavo la schiena ho pensato in modo così semplice da sentire il grande capogiro dell’universo. Lei mi porta in un mondo in cui c’è un solo attimo e in questo attimo il mondo si apre, si chiude, si offre, si nasconde, mi fa sentire le piante della casa, mi fa toccare il soffitto, fa scendere le nuvole nel camino, mi fa seguire una formica, mi mette nella sua testa e vedo il mondo da lì. Ora c’è il sole, sto mangiando la luce che entra dalla finestra, sto accarezzando l’erba che è fuori, nessuno sa che noi siamo qui, ora lei mi sta baciando, ora la sua lingua incolla le vertebre, non sono più un uomo a frammenti, non sono più una cosa sparsa in una terra rotta, sono nel mio fiato, sento le mie mani, piango, rido, divento una mollica di pane offerta a un passero, le mie ossa si sono rimpicciolite, stanno scomparendo, lo scheletro non mi serve, io devo solo piangere e ridere per il resto dei miei giorni, io devo solo vedere, ora ho gli occhi sulla pianta dei piedi, ora finalmente so dove cammino, e se apro le braccia tocco sempre qualcosa, il mio corpo ha smesso di girare a vuoto.

sono belle le parole d’amore;
se non abbiamo qualcuno
che ce le dica 
o a cui dirle,
leggiamole,
almeno una volta giorno 🙂
ci aprono il mondo intorno

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elle   j’elle
https://www.youtube.com/watch?v=U8MAw12u1pA

62. “Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n’è stato un altro uguale al mondo. L’identità è solo nella nostra anima […]”

viaggiare è l’esperienza più evidente e concreta del divenire nell’incontro

Io chi sono? E chi sono mentre, quando e dove sono? Quale volto mi rappresenta? Ci sono momenti e luoghi in cui io sono di più? Inizio ad essere? Finisco di essere? Sono io che cambio con il tempo o è il tempo che cambia con me? Time is out of jont, dice Shakespeare. E continua:”O cursed spite. That ever I was born set it right.” “Nay, come, let’s go together”, conclude. Ed è la cosa più bella che possiamo dirci, noi e il tempo. Siamo sempre in viaggio, camminamando. Ogni volto è un attimo dentro un’eternità.

“[…] Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n’è stato un altro uguale al mondo. L’identità è solo nella nostra anima  (l’identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. […]” F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli 1987, p. 34

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61. viaggi … post in progress

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il primo passo dentro la cucina della casa natale, pochissimi centimetri su un pavimento di mattonelle 10 x 10

3 km circa, la prima volta a casa della nonna Ada e degli zii

200 metri circa da casa all’asilo, il primo giorno di asilo

la lunghezza del mio braccio di bimba piccola piccola che prende il primo libro dalle mani dello zio Nello

i km da casa a Roma, a casa della zia Agnese

300 m circa da casa a scuola, il primo giorno della scuola elementare

300 m circa fatti di corsa saltellando o a piccoli passi, lo spazio della piazzetta e della piazza della chiesa per giocare a tutti giochi

200 metri circa da casa fino a un campo a raccogliere il finocchio, la totale fiducia di mia madre che dice “attenta a non confonderlo con la cicuta, lo distingui dall’odore”

10 km circa da casa a scuola, il primo giorno delle scuole medie

5 metri dal banco della classe di prima media fino all’armadietto della biblioteca di classe

90 km circa da casa a Ladispoli, i mitici viaggi verso il mare, stipati nella Fiat Cinquecento L

2 km da casa alle Fonti del Tione, per il ristoro del mio silenzio dentro il suono dell’acqua che scorre

5 metri davanti alla commissione dell’esame di maturità, a prendermi le strette di mano dei professori

200 metri da casa mia a casa di un pericolo

130 km circa da casa a Fabriano, il primo amore

i centimetri da viso a viso per il  primo bacio per il primo abbraccio

centinaia di km a piedi da casa mia a casa mia, tra passeggiate trekking camminate

l’ultimo passo, ancora ignoto

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60. i mondi del grazie

LA TRILOGIA DEGLI ANTENATI DI CALVINO TRA IL CAMMINARE E IL FERMARSI – SPUNTI PER CORPO E LETTERATURA COME NIENTE FOSSE 🙂
Il mio camminare è un atto connotato da una serie di fantasiosi movimenti tesi a restare in piedi procedendo in avanti con l’aiuto dei bastoni: questo da quando l’ortopedico dice “provi a camminare”. Il mio camminare ha in comune con il camminare denotato dal vocabolario il procedere in avanti e il restare in piedi, il resto è un’accozzaglia di sforzi sostenuti dai bastoni e dalla parte destra del corpo, parte già di suo problematica e che già in questa fase comincia a far sentire doloretti.
Ed ecco che mi ripasso mentalmente quella meraviglia del Visconte Dimezzato di Calvino e mi chiedo se la mia parte destra è un po’ sul cattivo, come quella del Visconte Medardo di Terralba, o è la parte buona. Insomma, il dramma di noi esseri umani, divisi, ancora mai completi si rimembra nella mia schiena e nella mia cervicale in attesa che arrivino anche per me i buoni monaci che salvano la parte mancante e il dottor Trelawney che la riattacchi.
In sostanza, una buona completezza, come si converrebbe alla vita.
Dopo qualche giorno di impegno, sforzi e piccoli ma costanti miglioramenti del piede sinistro, la parte destra crolla. Bisogna fermarsi, implementare antiinfiammatori e antidolorifici e fare solo la fisioterapia, resa peraltro piacevole da un fisioterapista 24enne bello come un fotomodello e serio e bravo e che, quando entra a casa mia, illumina tutto con il suo viso sorridente.
Fermarsi, smettere di fare anche quei pochi passi non è una esperienza rinforzante: sono i momenti in cui più facilmente si può pensare a Il Barone Rampante, il giovane Cosimo Piovasco di Rondò, e al suo modo di risolvere una lite con il padre andando a vivere sugli alberi, senza più ridiscenderne, e volando via alla fine con una mongolfiera. Oppure viene facile pensare a quel Cammino di Santiago che ho programmato di percorrere fin da quando non solo non andava di moda ma era sconosciuto ai più.
Insomma, doversi fermare spinge a pensare al movimento, a fare cose, sicché non può non fare capolino anche Il Cavaliere Inesistente, il giovane e valoroso e idealista Agilulfo, ma fatto di sola armatura e dedito ad assolvere alle regole e ai protocolli della cavalleria: il rappresentante di un fare che è solo obbedienza, la metafora cioè dei robottini che siamo diventati e fa pensare a cos’è e com’è il nostro fare.
È buffo, ma quando si sono trascorse infanzia adolescenza giovinezza ed età matura a leggere di letteratura, la letteratura appare da tutte le parti della vita. Anche da un piede bifratturato, e dalla schiena e dalla cervicale andati in tilt, e dal camminare e dal fermarsi.
E aiuta come la miglior mano tesa e disponibile e graziosa che ci sia.

 

RINGRAZIAMENTI – SICCOME SI DICE CHE FA PIU’ RUMORE UN ALBERO CHE CADE CHE MIGLIAIA CHE CRESCONO, ADESSO DICO CHE RUMORE FANNO QUEGLI ALBERI CHE CRESCONO
Voglio ringraziare tutte le persone e le forme viventi che mi sono state vicine in vario modo, e che lo sono ancora, in questo periodo di disagio.
Guglielmo che si è fermato diverse volte da me in questo periodo, accollandosi incombenze di vario tipo, dal cucinare all’aiutarmi a fare gli esercizi di riabilitazione ad accudire la casa e molto altro.
Mia sorella Stefania che, insieme a suo marito Rocco, è accorsa dopo due giorni ad aiutarmi e a portarmi una carrozzina che mi ha aiutato a muovermi per casa; Stefania è poi venuta successivamente anche qualche giorno per darmi una mano; ci siamo sentite ogni giorno e lei mi incoraggia sempre.
I miei genitori che, pur non essendo indipendenti nel muoversi, hanno trovato il modo di farmi avere cibo, aiuti, compagnia telefonica.
Benedetta, per la sua disponibilità.
Antonella, che è venuta sin dalla prima sera a tenermi compagnia ed è venuta molte altre volte; da subito si è prodigata, insieme a Manfredo, per farmi avere il secondo paio di bastoni e vari contenitori per il ghiaccio in modo da poterli alternare ininterrottamente nelle ventiquattr’ore; si è prestata per diversi favori importanti; mi chiama e mi manda messaggi.
Domenico, fratello di Manfredo, mi ha fatto avere tramite suo fratello un deambulatore e mi ha tenuto giornalmente compagnia al telefono -abitando molto distante e non potendo venire qui – e abbiamo parlato a lungo di cose molto interessanti.
Il mio parroco don Francois è passato a trovarmi diverse volte e, non potendo io muovermi, ha organizzato a casa mia anche una riunione importante in cui ero coinvolta e che altrimenti avrei perso.
Giulia, che è stata a farmi compagnia diverse volte e mi invia messaggi di sostegno, di affetto, di cura.
Giuliano, che è venuto a trovarmi e che mi telefona spesso.
Massimiliano, che è passato due volte e mi ha aiutato a trascorrere due bellissimi pomeriggi; inoltre si è sempre tenuto informato tramite messaggi del mio stato di salute, sollevando l’umore con simpatiche battute.
Valentina, che si è interessata con messaggi anche in pieno periodo molto impegnativo per lei.
Roberta, che mi ha portato una squisita torta di mele, e che è passata a trovarmi diverse volte e che mi chiama o mi manda messaggi per sapere.
Lucia, venticinquenne figlia dei miei amici Totti e Catia, oltre a venirmi a trovare, è stata con me anche un’intera giornata: dalla mattina al tardo pomeriggio all’ospedale dove dovevo fare esami per altri motivi, con una pausa pranzo in cui ci ha raggiunte sua madre Catia.
Catia e Totti, che sono passati a trovarmi, che si sono fermati, che inviano messaggi e telefonano.
Giulia, la professoressa che si interessa e che mi sollecita a rientrare al lavoro per collaborare a comuni progetti.
Emanuele, tramite il quale ho iniziato la mia attività di volontariato, mi ha chiamato e mi è venuto a trovare per propormi un’altra bellissima collaborazione nel volontariato con i minori stranieri non accompagnati.
Antonietta, che mi chiama, o ci colleghiamo con skype oppure ci messaggiamo. A lei devo un grazie particolare anche per altri motivi.
Il mio amico-fratello Stefano che si informa con regolarità sul mio stato di salute attraverso messaggi e mi fa sorridere con la sua ironia.
Anna Maria che mi telefona per sapere come sto e come procede.
Olimpia che il secondo giorno si è offerta di portarmi il pranzo, e poi mi è venuta a trovare e si informa con messaggi.
Tullio, un signore che aiuta i miei nei loro spostamenti quando non posso farlo io, mi ha accompagnata alle fisioterapie, è andato a fare le prenotazioni per le visite di controllo e mi ci ha accompagnato; ed è tuttora disponibile.
Giacomo, il mio ventiquattrenne e bellissimo fisioterapista, che svolge con serietà il suo lavoro, a tal punto da contattare lui personalmente il mio medico di base e l’ortopedico vedendo che il piede e la schiena e la cervicale a un certo punto hanno cominciato a dare bei problemini.
Wilma che, sentita al telefono, si è interessata alla mia salute.
I miei vicini che, quando ho provato a camminare nei dintorni, si sono interessati e hanno dato disponibilità totale ad aiutarmi.
Tutte le persone che mi hanno lasciato messaggi e saluti su fb, sotto i post in cui ho parlato delle fratture.
Due micette, una rossa e una bianca, non mie purtroppo, hanno fatto della mia casa una loro seconda, riempiendomi di tenerezze e compagnia.  Un micetto che, invece, si è fermato, e mi ha scelta come compagna di vita; e so che lui non mi tradirà né mi lascerà. Insieme a loro, le cicale e i grilli per i giorni e le serate di agosto e settembre, tutti gli uccelli coi loro canti corroboranti, le farfalle le lumache e i ragnetti.
Gli alberi, di cui ho visto il progressivo seccarsi delle foglie a causa della siccità, e la poderosa forza che emanano nonostante tutto.
La natura tutta di cui mi sento parte e da cui traggo esempi di vitalità e ripresa e forza.
I libri, compagni di bellezza del pensiero e dell’immaginazione umana.
Internet, fonte di informazione e possibilità di contatti.
Il silenzio, dentro cui mi ritrovo e mi curo.

CHE SUONO HA IL RUMORE DI UNA FORESTA CHE CRESCE?

 lo stesso degli abbracci delle carezze del fare l’amore dei baci dei sorrisi

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59. “ragazza svegliati andiamo sulla spiaggia a spogliare l’aurora”

ragazza svegliati
fra poco il gallo
salirà sul muro
della notte
ragazza svegliati
andiamo
sulla spiaggia
a spogliare l’aurora
la luna ha un’ala
ferita arranca
tra le colline
su altavilla
gocciola sangue
le luci si sciupano
come candele
il vento dell’ovest
raschia nell’orcio
una mota sola
carico di sabbia
mugghia
sulle scogliere
ragazza svegliati
andiamo sulla spiaggia
a spogliare l’aurora
l’angelo ha nascosto
tra le sue vesti
il fuoco rosso
di un verso

Emilio Paolo Taormina, Crome e biscrome

IL CUORE DI MIO PADRE E L’UNIVERSO
Dalle macchine del pronto soccorso vedo per la prima volta il cuore di mio padre. Ho accompagnato il mio babbo tante altre volte, ma non avevo mai visto prima il suo “muscolo cardiaco”.Lo vedo battere e ne sento il suono, dalla macchina sembra provenire una musica moderna, molto ritmata. Ascolto il ritmo vitale di chi mi ha dato la vita e mi sembra che l’intero universo si renda chiaro, mentre altrettanto chiara mi appare la necessità di quello che con parola ignara chiamo mistero. Un cuore che batte da 92 anni e che ha racchiuso in sé tenerezze e affetti, protetti anche dalla dura scorza di una timidezza e dell’essere un uomo.
Per la prima volta vedo il cuore di mio padre, a lungo. In sottofondo le voci del pronto soccorso e i silenzi di chi aspetta, pazienti e parenti.
Batte instancabile quel cuore da cui sono nata.
Penso come sarebbe bello se tutti quanti avessimo la curiosità di conoscerci, il desiderio di amarci, la voglia tenace di portare con noi le vite che abbiamo conosciuto. Conoscere, e non giudicare e disprezzare. Conoscerci uguali e diversi come stelle smaglianti di un unico cielo.
Il cuore di mio padre e l’universo. Ho detto a entrambi, sottovoce: “piacere di conoscerti, sono tua figlia”. (19 febbraio 2017)

“credo di avere quattro ali motrici … mmmhhh, sì, non può essere altrimenti … sì, quattro ali motrici …”

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58. alla scoperta di …? andar per Indie e scoprire l’America … lo sbaglio e il caso come strumenti di creazione …

“L’errore ci porta sul cammino dell’accettazione, dell’esplorazione e della mutua correzione nella consapevolezza di non voler fare di ognuno di noi una macchina banale che adotta risposte sempre prevedibili e nella scoperta che ci può e deve essere una sicurezza che si basa non già sul preconfezionamento di risposte banali, bensì sulla meraviglia de “il mondo è così e mi sorprende.””
Paolo Perticari, Alla prova dell’inatteso, Armando Editore, 2012, p. 78

“Sbagliando s’impara, è un vecchio proverbio.
Il nuovo potrebbe dire che sbagliando s’inventa.”

Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, 1983, p. 36

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UMBERTO ECO, Che bell’errore!, l’Espresso, 31 marzo 1985 (la prima “La Bustina di Minerva”, le celebri rubriche ospitate nell’ultima pagina de l’Espresso)

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Sto iniziando una rubrica. Mi è accaduto altre volte e ho sempre avuto la forza di smettere nel giro di un anno. L’appuntamento settimanale corrode. Questa volta forse smetterò prima, provo soltanto, per far piacere al Direttore, uomo potentissimo e vendicativo, e in vena di novità.
L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare. Valentino Bompiani scriveva (e forse scrive ancora) le idee che gli passavano per la testa sul retro delle scatole di raffinatissime sigarette turche. Credo conservi migliaia di ritagli di scatole nei suoi archivi, e molte delle sue iniziative editoriali sono cominciate così. Dal numero delle schede accumulate felicemente, direi che il fumo non fa male.
Ritengo sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. A Lovanio non hanno ancora finito di decifrare tutto quello che ha scritto, e il rettore di quella università, che deve stanziare i fondi per la ricerca su quei crittogrammi, mi diceva tra il preoccupato e il faceto che un uomo che ha scritto tanti foglietti (credo siano centomila) non può sempre aver scritto delle cose sensate. Però le cose che ha pubblicate sono piene di senso. Questo significa che l’umanità pensante si divide tra chi si limita ai Minerva e chi poi coordina questi appunti in un discorso organico. Lì vengono i nodi al pettine.
Per intanto bustine: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che ci ha attraversato la mente in autostrada mentre si frenava per non finire in coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi si vedrà.
*   *   *
Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare lontano con una idea sbagliata. Anzi, con un pacchetto di idee tutte sbagliate: sbagliato il calcolo delle dimensioni della terra, sbagliato il credito dato a certi cartografi, sbagliato il progetto di redenzione dei selvaggi asiatici, sbagliato persino l’investimento economico. Povero Cristoforo finito poi così tristemente. Eppure, la sua scoperta ha rivoluzionato il nostro millennio.
Per questo genere di scoperte, fatte per sbaglio, gli inglesi hanno un termine che non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. È curioso che il termine si formi nel lessico inglese, a causa della storia dei tre principi di Serendip scritta nel Settecento da Horace Walpole. Perché di fatto la storia di questi tre principi, che trovano qualcosa cercando qualcosa d’altro, viene da una antica novella persiana, poi tradotta in italiano nel Rinascimento, poi passata alle altre culture europee, come anche ci ripeteva Carlo Ginzburg nel suo famoso saggio sul paradigma indiziario.

Il fatto è che tutte le grandi scoperte avvengono per una certa qual forma di serendipità. E non sto solo pensando a Madame Curie che lascia la pecblenda sul comodino per disattenzione, o allo sciagurato Bertoldo il Nero che cerca la polvere di proiezione e scopre la polvere da sparo. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il filologo, o il detective) invece di seguire le vie normali di ragionamento si diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare – se fosse vera – i fatti curiosi a cui con le leggi esistenti non si riesce a dare spiegazione. Ma questa legge inedita non viene fuori al primo colpo: si va per così dire per farfalle, si passeggia con la mente in territori altrui. In fondo il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che Colombo ha fatto per sbaglio: «Visto che non trovo una risposta a questo problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto extravagante?».
Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano fecondi. In fondo anche scrivere sulle bustine di Minerva può avere la stessa funzione. Dipende naturalmente se ci scrive Kant o se ci scrivo io (a cui Luis Pancorbo ha attribuito una volta l’angoscioso pensiero: «I can’t be Kant»).
Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di aver ragione. È mica vero quel che ci raccomandavano i genitori: «Prima di parlare pensa!». Pensa, certo, ma pensa anche ad altro. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue.

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Gianni RodariGrammatica della fantasia, Einaudi, 1983

[…]
Un giorno, nei Frammenti di Novalis (1772-1801), trovai quello che dice: “Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare. Era molto bello.  (cap.1, p.3)
Da un lapsus può nascere una storia, non è una novità. Se, battendo a macchina un articolo, mi capita di scrivere «Lamponia» per «Lapponia», ecco scoperto un nuovo paese profumato e boschereccio: sarebbe un peccato espellerlo dalle mappe del possibile con l’apposita gomma; meglio esplorarlo, da turisti della fantasia.
Se un bambino scrive nel suo quaderno «l’ago di Garda», ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguirne l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo «ago» importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia. La luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso? … (cap. 9, p. 34)
[…]
Una volta, a un bambino che aveva scritto – errore insolito – “cassa” per “casa”, suggerii di inventare la storia di un uomo che abitava in una cassa. Altri bambini si buttarono sul tema. Ne uscirono molte storie: c’era un uomo che abitava in una cassa da morto, un altro era così piccolo che gli bastava una cassetta per la verdura per dormirci, finiva al mercato tra broccoli e carote, qualcuno pretendeva di comprarlo un tanto al chilo.
Un “libbro” con due b sarà soltanto un libro più pesante degli altri, o un libro sbagliato, o un libro specialissimo?
Una “rivoltela” con una sola l sparerà pallottole, piumini o violette? (cap. 9, p.35)
[…]
“acqua”  e “acua” (senza la q) rimangono parenti strettissimi: il significato del secondo si può soltanto desumere dal significato del primo. È una “malattia” del primo significato. Ciò risultata chiaro dall’ esempio “cuore”  e “quore”: il “quore” è senz’ ombra di dubbio un “cuore  malato”. Ha bisogno di vitamina C.”  (cap. 9, p.36)

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In attesa di condividere in questo blog la descrizione del mondo che Platone fa fare a Socrate (sono diverse pagine: pp.193-208 e ci vuole un bel po’ a copiarle, tra una cosa e l’altra da fare in questa mutevole vita, ma sono a buon punto 🙂 ), tratta da PLATONE, Fedone, traduzione, introduzione e commento di Giovanni Reale, Editrice la Scuola, 1971 (eh sì, libro studiato alla scuola superiore!), ecco una bella citazione:
“Il fallimento di un’ipotesi è il culmine della conoscenza”
Warren McCulloch
(fonte web)
e un consiglio di lettura 🙂
FRANCO LA CECLA, Il malinteso. Anropologia dell’incontro, Laterza 2009
https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedalibro&isbn=9788842089025

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in fondo, questo blog decostruito, fatto di pezzetti è dedicato a tutte quelle persone e a tutti gli esseri viventi e non viventi (essere non vivente? 🙂 per intenderci, il “regno minerale”) che hanno sofferto e soffrono per le conseguenze nefaste subite da ogni  OSROCSID ben costruito con tutti i “poiché” e i “dunque” necessari;OSROCSID certo, inconfutabile, apodittico, fermo, inoppugnabile e che si  presenta come l’ OCINU OREV
…. amiamo, invece, parole ed espressioni come “finora”,”che ne pensi?”, “approfondiamo”, “so di non sapere” … amiamo le visioni prospettiche,  la capacità di vedere le conseguenze a lungo termine, la sublime capacità di sapersi mettere in discussione …

conosciamo l’Effetto Dunning-Kruger? eccolo qua, giusto per ricordare un po’ la modestia intellettuale …
https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_Dunning-Kruger

ecco quindi le decostruzioni, i pezzettini, le citazioni … chi può, davvero, costruire un DISCORSO e, ancor più, un ordine del discorso? finora lo ha fatto chi si è autoriferito e autoproclamato, recintato dentro accademie, fatto tacere, anche con la violenza, altri possibili o già esistenti discorsi … forse un passo avanti è dato dal co-costruire? dall’ascolto? dalla presa in carico delle differenze? dalla crescita sul piano umano? non ci siamo mai allenati a questo: abbiamo saputo fare bene le guerre, e le paci erano esiti del potere … può essere, la storia, la narrazione dei silenzi, delle idee messe a tacere … un semplice strumento è vedere la nascita e la morte delle parole: a quale sistema serve quella che nasce; a quale sistema non serve più quella che muore …
… essere di passaggio, essere in cammino, significa lasciare tracce, è sua natura … 
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57. del mutare della (muta) conoscenza

EVGENIJ ALEKSANDROVIC EVTUSENKO, Uomini, in Poesie, Roma, Newton Compton 1972

Non esistono al mondo uomini non interessanti.
I loro destini sono come le storie dei pianeti.

Ognuno ha la sua particolarità
e non ha un pianeta che gli sia simile.

E se uno viveva inosservato
e amava questa sua insignificanza,

proprio per la sua insignificanza
egli era interessante tra gli uomini.

Ognuno ha il suo segreto mondo personale.
In quel mondo c’è l’attimo felice.

C’è in quel mondo l’ora più terribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.

Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,

e il primo bacio e la prima battaglia.
Tutto questo egli porta con sé …

Rimangono certo i libri, i ponti,
le macchine, le tele dei pittori.

Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.

È la legge d’un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi.

Ricordiamo gli uomini, terrestri e peccatori,
ma che sapevamo in fondo di loro?

Che sappiamo dei fratelli nostri, degli amici?
Di colei che sola ci appartiene?

E del nostro stesso padre
tutto sapendo non sappiamo nulla.

Gli uomini se ne vanno e non tornano più.
Non risorgono i loro mondi segreti.

E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.
(1961)

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Venezia, Biennale 2013, installazione di Rashad Alakbarov
Venezia, Biennale 2013, installazione di Rashad Alakbarov

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56. “Ci sono certe idee falsissime, che una volta messe in circolazione fanno moltissimo “mostro in prima pagina”, e da quel momento il mostro è troppo affascinante (e vende troppo bene) per liquidarlo.” … “Ma se dipende solo da te, non accettare il vuoto.”

 

Umberto Eco, Lo sapete che nessuno ha mai detto che la Terra è piatta?, in La Bustina di Minerva, L’Espresso  17 gennaio 1993

Si è appena concluso l’anno colombiano, ma provate a domandare a qualcuno che cosa Colombo volesse dimostrare quando voleva “buscar” il Levante per il Ponente, e che cosa gli astronomi di Salamanca si ostinavano a negare. Molti vi diranno che Colombo voleva mostrare che la terra è sferica, e quei dissennati sostenevano invece che era piatta, e che appena passate le colonne d’Ercole le navi sarebbero cadute oltre il bordo del disco terrestre.
Se non trovate persone che ripetono questa fanfaluca, consolatevi, ma sappiate che Jeffrey Burton Russell spulciando una serie amplissima di libri di testo per le scuole americane, anche di libri di livello universitario, ha registrato una impressionante sopravvivenza di tale diceria (di questo ‘Inventing the fiat earth’ Bompiani ci promette una traduzione).
Colombo non aveva bisogno di provare che la terra fosse una sfera perché nessuno ne dubitava. Anzi i dotti di Salamanca, per sostenere l’impossibilità dell’impresa, si rifacevano a calcoli sulle dimensioni del pianeta che erano più precisi dei suoi, e lui per poter partire aveva rubato sul peso. Naturalmente nessuna delle due parti sospettava che ci fosse un’America di mezzo.
Se rivelate che ai tempi di Colombo la terra era tranquillamente tonda, vi si obietterà che però la credevano piatta nel Medioevo. Chiedete allora come faceva Dante a penetrare nell’imbuto inferno e uscire dall’altra parte, e il vostro contendente vi dirà che però prima di lui tutti appartenevano al Club dei Piatti. Se domandate come aveva fatto Tolomeo, nel secondo secolo dopo Cristo, a dividere il globo in trecentosessanta gradi di meridiano, e Eratostene, nel terzo avanti Cristo, a calcolare con buona approssimazione la lunghezza dell’equatore, vi si dirà che va bene, ma Aristotele, Platone, i Presocratici… Ebbene, no. Pitagora, Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Aristarco e Archimede appartenevano al Club dei Tondi. Uniche eccezioni, forse, Leucippo e Democrito. Proprio Democrito, così scientifico-materialista? Come diceva mia nonna, studiano tanto e poi sono più bestie degli altri.
Ma molti studiosi, che cercano a tutti i. costi gli appartenenti al Club dei Piatti, hanno a questo punto l’argomento di riserva: con l’avvento del cristianesimo si sono rifiutate le teorie pagane per privilegiare una lettura letterale della Bibbia, dove si dice talora che la terra è come una tenda o un tabernacolo (dimenticando cosi per secoli l’astronomia classica). Invece no. Caso mai i padri della Chiesa, Agostino in testa, ragionavano così: la Bibbia parla anche per metafore e non si pronuncia sulla forma della terra, che probabilmente è sferica, ma non è discutendo di queste cose che si salva l’anima, e quindi lasciamo perdere. Persino negli anni bui un personaggio credulo e fantasioso come Isidoro di Siviglia, malgrado qualche accenno ambiguo, a un certo punto calcola la lunghezza equatoriale in ottantamila stadi. E dunque.
Ma allora nessun cristiano ha detto che la terra era piatta? Si, Lattanzio (terzo-quarto secolo), che era invelenito contro ogni idea pagana, e nel sesto secolo un bizantino, Cosma Indicopleuste, la cui “Topografia cristiana” sarebbe potuta diventare il manuale ufficiale del Club dei Piatti, se il Medioevo occidentale l’avesse conosciuto. Ma la prima traduzione latina di questa specie di Menocchio appare solo nel 1706, e solo allora tutti esultarono perché finalmente si era dimostrato che Padri e Dottori appartenevano al Club dei Piatti. E allora come nasce la leggenda?
Nasce in ambiente copernicano, perché la Chiesa negava l’eliocentrismo (questo sì) ed era polemicamente fruttuoso far di ogni erba un fascio. E poi viene diffusa da uomini di scienza dell’Ottocento in polemica contro gli antidarwinisti protestanti e cattolici. Tutti parlano per sentito dire, ma persino un uomo colto come Andrew Dickson White, nella sua ‘Storia della scienza contro la teologie (1896), pur sapendo benissimo che al Club dei Tondi appartenevano Origene, Ambrogio, Agostino, Alberto Magno, San Tommaso e compagnia bella, lo ammette a denti stretti, ma dice che per sostenerlo avevano dovuto lottare contro il pensiero teologico dominante. E loro chi erano, se non il pensiero teologico dominante?
A me la storia raccontata da Russell pare molto istruttiva, e non tanto perché assolve i miei amati medievali da un peccato che non avevano commesso, ma perché mette in scena la dinamica della diceria. Ci sono certe idee falsissime, che una volta messe in circolazione fanno moltissimo “mostro in prima pagina”, e da quel momento il mostro è troppo affascinante (e vende troppo bene) per liquidarlo. E le smentite in corpo otto affaticano la vista.
(fonte web)

 

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“Capisco la solitudine meglio di chiunque altro al mondo, ecco perché rispondo alle lettere e quando mi parli della pochezza delle gente che ti circonda ricordo i momenti e i posti che non donavano vita.
Devi proprio rimanere li? Bisognerebbe fare uno sforzo coraggioso per lasciare i posti vuoti o solitari. 
La vita è troppo preziosa.
Guardando al passato mi rendo conto che siamo noi a creare il nostro destino e i suoi aspetti negativi con la nostra passività.
Non dovremmo mai accettare la povertà della vita.
So che è difficile affrontare l’ignoto, trovarsi un altro lavoro, o un altro modo di vivere.
Ma se dipende solo da te, non accettare il vuoto.”
Anais Nin –Inverno 1958-1959, Lettera a…., in Diario VI: 1955-1966, Bompiani, 2016

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54. “e ammesso che la milonga fosse una canzone” … :-)

🙂  EROTIC SONG   🙂 EROTIC TIME 🙂

Alle prese con una verde milonga
Il musicista si diverte e si estenua
E mi avrai verde milonga che sei stata scritta per me
Per la mia sensibilità per le mie scarpe lucidate
Per il mio tempo per il mio gusto
Per tutta la mia stanchezza e la mia mia guittezza
Mi avrai verde milonga inquieta che mi strappi un sorriso
Di tregua ad ogni accordo mentre mentre fai dannare le mie dita
Io sono qui sono venuto a suonare sono venuto ad amare
E di nascosto a danzare
E ammesso che la milonga fosse una canzone
Ebbene io, io l’ho svegliata e l’ho guidata a un ritmo più lento
Così la milonga rivelava di sé molto più,
Molto più di quanto apparisse la sua origine d’Africa
La sua eleganza di zebra, il suo essere di frontiera
Una verde frontiera
Una verde frontiera tra il suonare e l’amare
Verde spettacolo in corsa da inseguire
Da inseguire sempre, da inseguire ancora
Fino ai laghi bianchi del silenzio fin che Athaualpa
O qualche altro dio non ti dica descansate niño
Che continuo io ah io sono qui
Sono venuto a suonare, sono venuto a danzare
E di nascosto ad amare

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53. “sogna ragazzo sogna” … sogniamo insieme, non lasciamo solo questo nostro mondo

https://www.artribune.com/editoria/grafica-illustrazione/2019/01/il-piccolo-naufrago-con-la-pagella-in-tasca-dal-libro-di-un-medico-legale-alla-vignetta-di-makkox/

La-vignetta-di-Makkox-sul-migrante-ragazzino-e-la-sua-pagella

http://www.vita.it/it/article/2019/01/30/bergonzoni-migranti-e-tempo-di-una-chiamata-allamore/150519/?fbclid=IwAR0DG-dS-meMLw03UB8zL4rsEGXTp-34VuLoVsldETVfEdHqnZwOwUgj4Kw

 

CONTRIBUTO ALLA STATISTICA
Wislawa Szymborska

Su cento persone:

che ne sanno sempre più degli altri
– cinquantadue;

insicuri a ogni passo
– quasi tutti gli altri;

pronti ad aiutare,
purché la cosa non duri molto
– ben quarantanove;

buoni sempre,
perché non sanno fare altrimenti
– quattro, be’, forse cinque;

propensi ad ammirare senza invidia
– diciotto;

viventi con la continua paura
di qualcuno o qualcosa
– settantasette;

dotati per la felicità,
– al massimo non più di venti;

innocui singolarmente,
che imbarbariscono nella folla
– di sicuro più della metà;

crudeli,
se costretti dalle circostanze
– è meglio non saperlo
neppure approssimativamente;

quelli col senno di poi
– non molti di più
di quelli col senno di prima;

che dalla vita prendono solo cose
– quaranta,
anche se vorrei sbagliarmi;

ripiegati, dolenti
e senza torcia nel buio
– ottantatré
prima o poi;

degni di compassione
– novantanove;

mortali
– cento su cento.
Numero al momento invariato.

(Wisława Szymborska, da Discorso all’ufficio oggetti smarriti, trad. it. di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano, pp. 146-147.)

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52. “pochi hanno l’orecchio e l’ubbidienza delle radici che a gennaio dormono”

Forse un angelo parla a tutti, eppure
in quel supremo istante pochi ascoltano,
pochi hanno l’orecchio e l’ubbidienza
delle radici che a gennaio dormono.
Dal profondo una voce bisbiglia,
giunge un brivido ai rami più lontani.
Nessuno se ne accorge ma è partita
a buie ondate un’altra primavera.
(Maria Luisa Spaziani, Giovanna d’Arco, 1990)

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Cosmo o incisione Flammarion“, artista sconosciuto, la prima nota stampa apparve in C. FLAMMARION, L’atmosphère, meteorologie populaire, 1888
https://it.wikipedia.org/wiki/Camille_Flammarion

51. “Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla …”

MARGUERITE YOURCENAR, Novelle orientali, Rizzoli 1983, PP. 131-135

LA TRISTEZZA DI CORNELIUS BERG
Cornelius Berg, dopo il suo ritorno ad Amsterdam, abitava alla locanda. Le cambiava sovente, sloggiando quando bisognava pagare, dipingendo talvolta ancora piccoli ritratti, quadretti di genere su commissione, e qua e là qualche nudo per un amatore. Lungo le strade sperava nella fortuna di un’insegna. La sua mano tremava, disgraziatamente; doveva sostituire le lenti con altre sempre più forti; quel vino, di cui l’Italia gli aveva dato il gusto, guastava, con il tabacco, quella sicurezza di tocco che gli restava e che era ancora il suo vanto. Si indispettiva, rifiutava di consegnare l’opera, comprometteva tutto con ritocchi e raschiamenti, finiva per non lavorare più.
Passava ore e ore al fondo delle taverne fumose come la coscienza di un ubriaco, dove certi antichi allievi di Rembrandt, suoi condiscepoli un tempo, sperando che raccontasse i suoi viaggi gli pagavano da bere. Ma il paese polveroso dove Cornelius aveva lasciato i pennelli e le sacche di colori risultava meno preciso nella sua memoria di quanto non fosse stato nei suoi progetti futuri; e non trovava più, come al suo tempo giovane, quelle grasse facezie che facevano singhiozzare di risate le serve. Chi si ricordava il vociferante Cornelius di un tempo si stupiva ora di ritrovarlo così taciturno; soltanto l’ubriachezza gli restituiva la lingua, e allora teneva certi discorsi incomprensibili. Se ne stava seduto con il viso verso la parete e il cappello sugli occhi per non vedere il pubblico che, diceva, lo disgustava. Cornelius, vecchio pittore di ritratti, che a lungo aveva abitato in una soffitta di Roma, per tutta la vita aveva fin troppo scrutato i volti umani; se ne distoglieva ora con irritata indifferenza; arrivava a dire che non gli piaceva dipingere animali perché gli animali somigliano troppo all’uomo.
Man mano che si dissipava quel poco di talento che aveva posseduto, pareva che gli si sostituisse il genio. Si sedeva davanti al cavalletto, nella sua mansarda in disordine, si posava accanto un bel frutto raro che costava parecchio e che bisognava affrettarsi a riprodurre sulla tela prima che quella pelle brillante perdesse ogni freschezza, oppure un semplice paiolo, qualche buccia. Una luce gialla invadeva la camera; la pioggia lavava umilmente i vetri; l’umidità regnava ovunque. L’elemento umido tendeva sotto forma di linfa la sfera grumosa dell’arancia, gonfiava gli assiti che gemevano un po’, appannava il rame del vaso. Ma presto lui riponeva i pennelli; le sue dita intorpidite , un tempo così pronte a dipingere su ordinazione certe Veneri coricate e certi Gesù dalla barba bionda intenti a benedire bambini nudi e donne paludate, rinunciavano a riprodurre sulla tela quella doppia colata umida e luminosa che impregnava le cose e offuscava il cielo. Toccando gli oggetti che non dipingeva più, le sue mani deformate esprimevano tutta la sollecitudine della tenerezza. Nella triste strada d’Amsterdam, sognava campagne tremule di rugiada , più belle delle rive crepuscolari dell’Anio, ma deserte, troppo sacre per l’uomo. Quel vecchio che la miseria sembrava gonfiare, pareva affetto da una idropisia del cuore. Cornelius Berg, raffazzonando qua e là qualche opera meschina, con i suoi segni eguagliava Rembrandt.
Non aveva riannodato i rapporti con i pochi parenti che gli restavano. Alcuni non l’avevano riconosciuto; altri fingevano d’ignorarlo. L’unico che lo salutasse ancora era il vecchio Sindaco di Haarlem.
Per tutta una primavera lavorò in quella piccola città chiara e pulita, dov’era stato incaricato di dipingere false architetture in legno sul muro della chiesa. La sera, finito il lavoro, non gli dispiaceva entrare da quel vecchio dolcemente istupidito dalla routine di un’esistenza monotona, che se ne viveva da solo, abbandonato alle cure ovattate di una fantesca, che dell’arte non sapeva un bel nulla. Cornelius spingeva l’esile barriera di legno pitturato;nel giardinetto accanto al canale, l’appassionato di tulipani l’aspettava in mezzo ai fiori. Cornelius non riusciva a prendere troppo interesse per quegli inestimabili bulbi, ma era bravissimo nel distinguere i minimi particolari delle forme, le minime sfumature delle tinte, e sapeva che il vecchio Sindaco non lo invitava che per avere un parere su una nuova varietà. Nessuno avrebbe saputo disegnare con precise parole l’infinita diversità dei bianchi, degli azzurri, dei rosa e dei lilla. Gracili, rigidi, i calici patrizi sorgevano dal suolo grasso e nero: un odore acquatico, che salva dalla terra, era il solo a fluttuare su quelle fioriture senza profumo. Il vecchio Sindaco si prendeva un vaso sulle ginocchia, e stringendo lo stelo fra le due dita, come se lo prendesse per la vita, faceva silenziosamente ammirare quella delicata meraviglia. Si scambiavano ben poche prole: Cornelius Berg esprimeva il suo parere annuendo.
Quel giorno il Sindaco era felice per un successo più raro degli altri: il fiore, bianco e violaceo, aveva quasi le striature di un ireos. Lo considerava, lo rigirava da tutte le parti, e poi disse, appoggiandolo a terra:
– Dio è un grande pittore.
Cornelius Berg non rispose. Il pacifico vecchio riprese:
– Dio è il pittore dell’universo.
Cornelius Berg guardava ora il fiore e ora il canale. Quell’opaco specchio plumbeo non rifletteva che aiuole, muretti di mattoni e la liscivia delle massaie, ma il vecchio vagabondo stanco ci contemplava dentro, vagamente, l’intiera sua vita. Rivedeva certi particolari di fisionomie colte nel corso dei suoi lunghi viaggi, l’Oriente sordido, il Sud sbracato, ed espressioni di avarizia, d’idiozia o di ferocia osservate sotto tanti bellissimi cieli, i tuguri miserabili, le malattie vergognose, le risse a coltellate sulla soglia delle taverne, il viso secco degli usurai e il bel corpo rotondo del suo modello, Federico Gerritsdochter, steso sul tavolo anatomico della scuola di medicina di Friburgo. Poi sopravvenne un altro ricordo. A Costantinopoli, dove aveva dipinto qualche ritratto di Sultano per l’ambasciatore delle Province Unite, lui aveva avuto l’occasione di ammirare un altro giardino di tulipani, orgoglio e gioia di pascià che contava sul pittore per immortalare , nella sua breve perfezione, il suo harem floreale. All’interno di un cortile di marmo palpitava l‘adunata dei tulipani che sembravano frusciare con i loro colori smaglianti o teneri. Su una vasca, un uccello cantava; le punte dei cipressi bucavano il cielo pallidamente azzurro. Ma lo schiavo che per ordine del padrone mostrava allo straniero quelle meraviglie era guercio, e sull’occhio recentemente perduto si affollavano le mosche. Cornelius Berg ebbe un lungo sospiro. Poi, togliendosi gli occhiali:
– Dio è il pittore dell’universo.
E con amarezza, a voce bassa:
– Che sciagura, signor Sindaco, che Dio non si sia limitato alla pittura di paesaggi.

Dal post-scriptum dell’Autrice
Questa ristampa delle Novelle orientali, nonostante le numerosissime correzioni puramente stilistiche, le lascia sostanzialmente com’erano al momento della loro prima apparizione in libreria nel 1938. 
[…]
Infine, La tristezza di Cornelius Berg (I tulipani di Cornelius Berg, nel vecchio testo) era stato concepito come conclusione di un romanzo che fino a ora è incompiuto. Non è affatto orientale, se si eccettuano due brevi allusioni a un viaggio dell’Artista in Asia Minore (e una è perfino un’aggiunta recente), e tutto sommato questa storia non sembra appartenere allo stesso genere delle precedenti. Ma non ho resistito al desiderio di contrapporre simmetricamente al grande pittore cinese, perduto e salvato all’interno della sua opera, questo oscuro contemporaneo di Rembrandt che medita con malinconia sulla propria.
(la Yourcenar, scrivendo del “grande pittore cinese” si riferisce alla novella dal titolo “Come Wang-Fo fu salvato“, anch’essa contenuta nelle Novelle orientali. [nota di navigaria])

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A criação de Deus

50. limen e limes e la benedizione degli animali del 17 gennaio

Era comunque difficile dire se fosse un limen o un limes. Se fosse inclusa la possibilità che quelle forme non umane potessero attraversare la soglia del sacro o se dovessero restare per sempre fuori, nella piazza.

Era il 17 gennaio, il giorno di Sant’Antonio Abate e c’era l’usanza di benedire gli animali.
Ero piccola piccola e quel giorno a me sembrava magico. La piazza davanti alla chiesa si riempiva di asini agnelli cani gatti mucche galline maiali oche caprette: ogni animale che era utile nelle campagne o che viveva insieme agli umani veniva portato a prendere quella benedizione. Anche i non credenti erano lì, a capo chino, col cappello in una mano, timorosi e un po’ spaesati, ma erano lì.
Che meravigliose differenze di forme, che corpi diversi! Li guardavo incantata come fosse la prima volta che li vedevo. Mi sembrava di stare dentro un momento della creazione del mondo. Guardavo incuriosita gli animali muoversi con piccoli movimenti, ma stavano in silenzio, percependo chissà cosa.
Forse la  bellezza della benedizione. Perché benedire è una gran bella cosa. Bene-dire, quante volte lo facciamo al giorno? Dire bene, dire il bene, indirizzare le nostre parole al bene e dentro il bene: che fantastici momenti di connessione. Forse gli animali lo sentivano, e tacevano in attesa della grazia delle parole bene-dicenti.

L’incanto del momento era aumentato dal fatto che il sacerdote e noi che avevamo partecipato alla messa uscivamo dalla chiesa e ci fermavamo appena fuori il portale.  Noi, gli umani appena usciti dalla chiesa e gli animali nella piazza, potevamo sembrare due eserciti schierati le cui armi e le cui divise erano per l’uno paramenti sacri e per l’altro multiformi nudità.
Provavo tanta tenerezza per tutti quegli animali fermi nella piazza.
Io ero piccola, con facilità li immaginavo dentro la chiesa, insieme a noi, in un canto completo di tutte le voci del creato aperte verso il loro creatore. Ero piccola, e Dio per me era buono, e se qualche volta si arrabbiava, poteva farlo, perché tanto c’era Gesù che s’era arrabbiato una sola volta, e caso mai poi c’era la Madonna che lei, davvero, non si era arrabbiata mai. E allora, tra me, chiedevo a tutti e tre se si poteva far entrare in chiesa gli animali, anche perché, a dirla tutta, la scena così com’era non mi sembrava proprio cristiana mentre invece per me, piccola piccola, la scena degli animali in chiesa lo diventava.
Da adolescente avrei saputo che Tommaso Moro coniò il termine ‘utopia’ giocando e includendo il duplice senso di outopia-non luogo ed eutopia-bene luogo, dando al termine il significato di ‘luogo bene che non esiste’. Avrei dedotto, sempre da adolescente, che invece il nostro modo di pensare pensava più possibili le distopie, e le realizzava pure.
Invece in quei momenti magici, io piccola piccola sapevo che il ‘luogo bene’ esiste, anzi che ne esistono molti e uno di essi sarebbe stato la nostra chiesa piena delle creature viventi in quella zona. Amavo così tanto il termine “creatura”, io ero felice, piccola piccola com’ero, di sentirmi creata e voluta da un amore grande e di sapere che per tutti era così.
Ecco perché in quella piazza così divisa sentivo anche un forte senso di sospensione temporale e spaziale, perché c’era un’attesa. La piazza piena di animali, il sacerdote appena fuori la porta della chiesa, i chierichetti, gli incensi, l’aspersorio, i gesti, le parole, i silenzi: tutto in pieno inverno, quando le coltivazioni erano ferme, le riserve cominciavano a scarseggiare e la primavera appariva lontana.
Aspettavo o di entrare tutti in chiesa o che quella piazza diventasse spazio sacro. Già lo era, bisognava soltanto accorgersene, e trattarla come tale, uno spazio sacro, uno spazio comune per l’interezza dell’essere.

Era limen, ma veniva resa limes, sebbene in qualche modo si sapesse che invece poteva essere un limen e che ci invitava, tutti insieme, a varcare le soglie delle separazioni, ognuno col proprio essere al mondo, ringraziando ogni alterità dell’arricchimento che può portare alle altre vite. Probabilmente allora vinceva la paura di perdere potere e vinceva la difesa dello spazio sacro inteso come spazio irraggiungibile e invalicabile -il limes-, invece che ispiratore di nuovi comportamenti per poter entrare a farne parte -il limen-.

Ogni limes che diventa limen è una conquista dell’intero sistema, della collaborazione di ogni agente di quel sistema. Non avviene con le lotte, con la vittoria di alcuni su altri, non c’è guerra e contrapposizione in questo cammino. E’ una crescita e, come tale, necessita della maturità collettiva, di forte consapevolezza e responsabilità. E si esprime anche con i bene-dire.

E’ una delle benedizioni più grandi quando “noi” ci bene-diciamo reciprocamente.

(17 gennaio 2016)

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49. “ti stringo a me come se ci fosse un po’ di giustizia nel mio cuore e io te la potessi dare con il corpo”

E qualunque cosa io faccia
si tramuterà per sempre in ciò che ho fatto.
Wislawa Szymborska, Una vita all’istante

Un Bacino Piccolo Piccolo sulla spalla mentre la aiuta ad alzarsi dalla sedia.
“Lo hai sentito il bacino che ti ho dato?” E poi gliene dà un altro sulla guancia, mentre è già in piedi.
“Lo vedi tesoro mio come sono ridotta?”
“Una mamma è sempre una mamma. E’ una mamma quando fa le cose ed è una mamma quando non può più farle.” E vede l’espressione triste su quel volto pallido e stanco.
“Sentito che bella cosa che ti ho detto?” dice Figlia per scherzare un po’.
“Sì. Grazie.” risponde Mamma accennando un sorriso mentre si siede su un’altra sedia dopo tre faticosi passi.
Babbo guarda attento tutto il breve percorso.
L’aria di gennaio è limpida, là fuori qualcuno dice che sta preparando qualcosa per l’inizio del Carnevale.
“E’ Sant’Antonio Abate, ti ricordi come festeggiavano quando eri piccola?” chiede Figlia a Mamma.
“Si festeggiava proprio il giorno del Santo. Dopo la Messa il prete usciva dalla chiesa e benediva gli animali che le persone avevano portato nella piazza. Tanti, tanti animali. Veniva un prete dalla Rocca, viaggiava su un asino e portava dei panetti piccoli che distribuiva alle persone e agli animali, si chiamava il pane di Sant’Antonio, era buono. Adesso la benedizione degli animali si fa la domenica. Era una bella festa, guai a mancare alla benedizione, il nonno si sarebbe anche arrabbiato. Eh …” e sospira e tace.
“A me piaceva tantissimo quella festa.” dice Figlia. “Mi sembrava di stare dentro un mondo magico quando uscivo dalla messa e trovavo la piazza piena di animali che si muovevano e facevano i loro versi. Era un mondo ricco variegato multiforme che veniva a farsi fare del bene. Una bellissima festa del mondo contadino.”
“Ma proprio tanti animali, di tutti i tipi. Mucche, asini, galline, gatti, maiali, conigli … tutta la piazza piena … ” dice Babbo.
Gennaio si rischiara un po’della nuova luce che ha già allungato le giornate. E’ una luce trasparente di tramontana dove è facile si spengano le parole e nascano silenzi.
Figlia vive Momenti Di Poesia Insieme A Babbo E Mamma. Nonostante Tutto. Ancora risuonano in lei parole comportamenti inattesi e cattivi che Persone anche amate le hanno seminato nella pelle nel cuore, ma tutta la Vita sta allargando la sua fitta trama per farle vedere nuove dolcezze, nuove poesie. La sua mano ancora accarezza i capelli le anime i volti lontani e il respiro ancora si ferma per un attimo dentro sorrisi che erano sembrati preziosi e sinceri. Ma Qui Accadono Miracoli e non vuole distrarsi. Adesso è Nuovo Mondo dentro un Vecchio Mondo. Babbo e Mamma non sono le figure dentro cui avrebbe dovuto seppellire la sua vita, come qualcuno aveva detto, Babbo e Mamma sono Splendida Vita Passata al Setaccio E Che Regala La Parte Più Fine E Preziosa. Figlia vorrebbe condividere quest’oro con chi ama,  ma può condividerlo solo con chi la ama.
Allora si fa raccontare da Mamma le Poesie Che Lei Mentalmente Compone E Che Non Vuole Scrivere, mentre Babbo osserva in silenzio attento a che tutto vada bene.
Ci vuole poco perché tutto vada bene, è più impegnativo far andare male le cose.
A Figlia Piace Il Poco, l’Essenziale, il Passo Indietro, Fare Un Piccolo Silenzioso Bene Ogni Giorno. Stare in Pace.
A Figlia piace come dice il poeta Antonio Gamoneda.

Il mio modo d’amarti è semplice:
ti stringo a me
come se ci fosse un po’ di giustizia nel mio cuore
e io te la potessi dare con il corpo.

Quando ti scompiglio i capelli
qualcosa di bello si forma nelle mie mani.

E quasi non so di più. Io desidero solo
stare con te in pace e stare in pace
con un dovere sconosciuto
che talvolta pesa anche nel mio cuore.

ti stringo a me
come se ci fosse un po’ di giustizia nel mio cuore
e io te la potessi dare con il corpo
e li abbraccia quei due miracoli, Babbo e Mamma che non possono fare più nulla di quello che prima hanno fatto nel mondo e che sanno fare nuove bellissime cose adesso nel cuore di chi li avvicina.
Sono belle le Benedizioni date agli Animali.
Sono belle le Benedizioni date alle Parti Di Noi Che Meno Amiamo.
Bene-dire è Trasformare,  è  Guarire, proprio come fa la Vita.

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Una vita all’istante

Una vita all’istante.
Spettacolo senza prove.
Corpo senza modifiche.
Testa senza riflessione.

Non conosco la parte che recito.
So solo che è la mia, non mutabile.

Il soggetto della pièce
va indovinato direttamente in scena.

Mal preparata all’onore di vivere,
reggo a fatica il ritmo imposto dell’azione.
Improvviso, benché detesti improvvisare.
Inciampo a ogni passo nella mia ignoranza.
Il mio modo di fare sa di provinciale.
I miei istinti hanno del dilettante.
L’agitazione, che mi scusa, tanto più mi umilia.
Sento come crudeli le attenuanti.

Parole e impulsi non revocabili,
stelle non calcolate,
il carattere come un cappotto abbottonato in corsa –
ecco gli esiti penosi di tale fulmineità.

Poter provare prima, almeno un mercoledì,
o replicare ancora una volta, almeno un giovedì!
Ma qui già sopraggiunge il venerdì
con un copione che non conosco.
Mi chiedo se sia giusto
(con voce rauca,
perché neanche l’ho potuta schiarire tra le quinte).

Illusorio pensare che sia solo un esame superficiale,
fatto in un locale provvisorio. No.
Sto sulla scena e vedo quant’è solida.
Mi colpisce la precisione di ogni attrezzo.
Il girevole è già in funzione da tempo.
Anche le nebulose più lontane sono state accese.
Oh, non ho dubbi che questa sia la prima.
E qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto.

WISLAWA SZIMBORSKA, La gioia di scrivere, Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi 2009, traduzione di Pietro Marchesani

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http://www.festivaldelmedioevo.it/portal/i-maiali-con-un-santo-in-paradiso/?fbclid=IwAR1sXtyCfojQkk6YAYv7s05vqB9arFgt5T0E6l15p4VTjujcRSPy7xtMp1s

 

48. “Quanto siamo ancora “figli” di quell’epoca, condizionati da quelle mappe della storia? E quanto invece abbiamo vissuto una rottura, l’ingresso in un’era nuova, che ci trasporta verso orizzonti sconosciuti?”

FEDERICO RAMPINI, Quando inizia la nostra storia. Le grandi svolte del passato che hanno disegnato il mondo in cui viviamo, Mondadori 2018
dal cap. IX, 1450 (Gutenberg), 1492 (Colombo), 1648 (Pace di Vestfalia): le tre date della “modernità”, pp. 356-358

“Il mondo moderno, come lo intendiamo noi, si è venuto a formare in queste tre date. Sono tre eventi-chiave essenziali per capire gli sviluppi successivi, e anche per distinguere “quanto sia nuovo il nuovo”: se oggi  la nostra Età del Caos è figlia di una rottura epocale rispetto alla modernità, o se si inserisce nella continuità e fa parte dei frequenti corsi e ricorsi della storia.
Johannes Gutenberg, con la sua tecnologia tipografica, consente il salto nell’era della stampa, dell’alfabetizzazione, della riproduzione dei libri; agevola quella Riforma protestante dalle enormi conseguenze politiche dell’Occidente; sia il Rinascimento sia l’Illuminismo si nutrono di libri, che nel Medioevo erano delle rarità custodite nei monasteri. L’impatto della stampa sulla riforma è talmente immediato che spesso Gutenberg e Martin Lutero vengono studiati insieme. Non è un caso che il grande sociologo tedesco Max Weber associa il capitalismo all’etica calvinista e puritana: sono di ceppo protestane i due imperi capitalisti che si alternano negli ultimi secoli, l’inglese e l’americano.
L’impresa di Cristoforo Colombo (poi di altri esploratori-conquistatori) è resa possibile anch’essa da Gutenberg, vista l’importanza dei libri di geografia stampati a quell’epoca. A sua volta, la cosiddetta “scoperta” dell’America ha diramazioni verso la globalizzazione non solo mercantile ma anche biologica, l’unificazione dell’ecosfera, con conseguenze molto più vaste e sorprendenti di quanto si creda, per esempio con nuove epidemie o lo stravolgimento delle nostre abitudini alimentarie millenarie. Considerare il Rinascimento dal punto di vista dell’impatto di Gutenberg-Colombo impone di ricordare che anche quella fu un’Età del Caos, con le stesse insicurezze che viviamo oggi e una risposta simile: il populismo. Segue una lunga instabilità, le guerre tra i fondamentalismi religiosi (perlopiù cristiani). Qualcuno accosta i populisti come Trump e Grillo a frate Savonarola (vedremo chi, e perché).
A quel Caos, il Trattato di Vestfalia cerca di porre fine nel 1648. E la pace di Vestfalia -fragile- ci lascia in eredità un “formato”, lo Stato-nazione come attore delle relazioni internazionali, dentro il quale torniamo a cercare protezione e rifugio nel nostro turbolento presente.
Quanto siamo ancora “figli” di quell’epoca, condizionati da quelle mappe della storia? E quanto invece abbiamo vissuto una rottura, l’ingresso in un’era nuova, che ci trasporta verso orizzonti sconosciuti? E’ giusto, per esempio, teorizzare che Internet e i social media hanno creato un universo completamente inedito? L’intelligenza artificiale applicata alle comunicazioni di massa, da Google e Facebook, segna una rottura, un passaggio di civiltà, con lo stesso potenziale dirompente che ebbe la stampa di Gutenberg cinque secoli prima?
E ancora: quanto il nostro corpo, la nostra salute e la nostra longevità, la flora e la fauna dell’ambiente in cui viviamo sono condizionati dalla globalizzazione agroalimentare e batteriologica scatenata inconsapevolmente dalle grandi scoperte di Cristoforo Colombo  & C.? Quanto invece siamo entrati in un’epoca di manipolazione genetica senza precedenti nella storia umana?
E’ ingenuo o presuntuoso supporre di conoscere già la risposta. Intanto bisogna partire da una conoscenza delle mappe della nostra storia passata, prima di poter decifrare il presente o immaginare il futuro.”

A criação de Deus800px-Europe_map_1648mappa dell’Europa nel 1648, Pace di Vestfalia

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47. chi può dire quando finisce il mare

IMPARARE A SALUTARE

QUI
Il cielo è grigio e bianco, colmo di pioggia, e se pioverà lo deciderà il lieve sussurro delle cose che cambiano.Intanto nulla scende dalle nuvole e la terra è secca e soffre. Le piante iniziano a volgere le foglie verso il basso, come accade in estate, ma è inverno, ed è freddo.
Il cielo sembra di cartapesta, ha un impercettibile mutare di toni dal bianco al grigio chiaro, dal grigio chiaro al bianco, in un’incertezza che diventa certezza dell’aridità invernale, nonostante questo sia un posto di mare.
Ella guarda al cielo attraverso i vetri di una finestra su cui si è addensato un leggero vapore che, alla luce del tramonto, sembra una tenda di perline lucenti. Piccole gocce si staccano dalla massa lieve e trasparente e tracciano minuscole strade liquide sulla superficie traslucida.
Dell’acqua bolle in una pentola, e il suo borbottio sommesso è l’unico suono che si diffonde nella stanza.
Il padre di Ella è morto quindici giorni fa e ora riposa sotto un cumulo di terra. “Straniera”. Ella dice “Terra straniera”.
E’ stata l’acqua a portarlo via, lui come tanti altri; ma il suo corpo è stato tratto a riva e lì è rimasto alcune ore sotto un telo, e lei è rimasta accanto a lui. E il telo si muoveva al tocco del vento, mentre suo padre rimaneva per sempre immobile, affondato nella sabbia muta.
Adesso è sepolto nel cimitero del piccolo paese di mare; una donna, Ada, ha ceduto il suo posto allo sconosciuto, ha detto che ne comprerà un altro per sé.
Ada vive nella prima casa che si incontra venendo dalla spiaggia, e ha visto Ella, seduta vicino al corpo di suo padre, aggiustare il telo bianco ogni volta che si muoveva al tocco del vento. L’ha vista ricoprire così tante volte quel corpo amato col quale aveva viaggiato la vita e l’ultimo cammino. Così tante volte quella ragazzina ha aggiustato il telo bianco che Ada ne ha avuto pena e le ha offerto quello che poteva, una tomba e la sua casa.
In due hanno lavato il corpo per l’una conosciuto, per l’altra straniero; perché l’acqua di mare che lo aveva inghiottito non è acqua con cui camminare verso l’Eterno, così ha detto Ada. In due hanno seguito la cassa di legno chiaro, semplice, muta anch’essa come ad Ella sembrano adesso mute tutte le cose.
Ada ha detto ad Ella di non preoccuparsi, che può restare nella sua casa finché i documenti saranno a posto.
“Mi conoscono, sanno che possono fidarsi.”
E adesso Ella è qui, ma non sa dire dove sia questo “qui”, e cosa sia, e se ci sia davvero un “qui” da dare come punto di riferimento a qualcuno, così, tanto per far capire che è da qualche parte, viva.
Non le sa dire bene le cose, Ella; non sa nemmeno spiegare l’origine del suo nome, straniero nel suo Paese e, invece, noto nel Paese straniero dove si trova adesso. Ada ha infatti compreso bene il suo nome, le ha detto che il suo nome è una parola nella lingua di questo Paese in cui è approdata, e che però è una parola che non viene usata da tempo, e che vuol dire “lei”, è come dire “donna”. Ada conosce la lingua di Ella, è stata diversi anni in giro per i Paesi del Mediterraneo a svolgere il suo lavoro di giornalista e poi si è fermata in questo posto di mare, per scrivere un libro, ma per fermarsi per sempre.
Con le sue lunghe dita Ella traccia il suo nome sul vapore, un dito per ogni lettera, e decine di gocce si muovono veloci sul vetro, verso il basso, e il nome dopo un po’ scompare nell’acqua.

LI’
Da qualche parte, lontano, c’è una donna anziana. Ella non sa in quale direzione guardare per poterla immaginare meglio, ma guarda girando un po’ su se stessa, muovendo gli occhi di qua e di là, e ascoltando il suo cuore.
Da qualche parte, lontano, c’è sua nonna, che l’ha cresciuta dopo la morte di sua madre. Un’incursione di militari aveva messo a fuoco il suo quartiere e la sua mamma era rimasta sotto le macerie. Ella, il padre e la nonna si erano salvati perché erano fuori dal paese. Ella aveva pochi mesi, non ricorda sua madre; quando la pensa c’è uno spazio bianco nella sua mente che, come il cielo di oggi promette pioggia, così lui promette suoni, risate, un volto, ma tutto rimane inespresso, e qualcosa è secco nel cuore di Ella. Per ricordare sua madre, pronuncia il proprio nome in ogni modo possibile, vicino a tutte le cose e alle persone che incontra; il nome che la sua mamma ha pensato per lei, così strano per tutti, e chissà perché lo aveva pensato così. Quando lo pronuncia, le sembra di camminare insieme a lei, le mani unite, come non ricorda di aver fatto, e non l’ha fatto mai.
Sono state le mani di sua nonna a prenderla, a sorreggerla nei primi passi, ad afferrarla se stava per cadere, ad accarezzarla.
Sua nonna che le ha detto “Vai tu” quando hanno saputo che c’erano solo due posti su quel barcone. “Andate voi” ha detto sua nonna Abdar.
E adesso è lì, lontana, a sgranare il suo rosario fatto di piccole rose di legno, con il crocifisso e le maglie d’argento, un rosario prezioso, ricordo di famiglia. La nonna è nata in una famiglia ricca, da poco convertitasi al cristianesimo, tutti i componenti entusiasti della nuova fede che li faceva sentire vicini all’Occidente, all’Europa, ai Paesi che immaginavano evoluti e moderni.
Ma poi le guerre, e molti morti in famiglia, e la nonna era rimasta con la madre di Ella ancora piccola, solo loro due, a volersi riscattare dal dolore, da tutto; a mettere nelle preghiere ancora nuove ogni speranza, perché si può ancora sperare quando si ha un dio nuovo da cui tutto, tutto proviene.
Alcuni anni di tranquillità, la madre di Ella cresce, si sposa, nasce Ella. E di nuovo le guerre, i soldati, i colpi delle armi, i morti. La madre di Ella se ne va, e la nonna abbraccia la piccola, le dice: “Andiamo, andiamo insieme, ci sono io.”
E poi è venuto quel momento che non è la morte, a cui il suo cuore la sua pelle la sua resistenza erano abituati; quel momento in cui la nonna le ha detto “Vai!”; e ha detto “Andate. Io rimango.” E sono troppi i modi per lasciarsi, e pochi quelli per rimanere insieme.
“Andate”, perché lì non si vive più e non ci sono altri modi per dirlo che partire, cercare di salvarsi; perché la vita è la vita, e che stupenda vita nasce dalle crepe a cui si è sopravvissuti.
Così suo padre e lei hanno lasciato lì la nonna, nella sua casa piena di piccoli e grandi ricordi; la nonna bella e dolce che le raccontava le più belle favole dell’Oriente vicino al loro fuoco acceso nella notte, ad allontanare i brutti sogni con le parole magiche delle storie.
Ella ha ascoltato attenta tutte le storie della nonna e quelle della scuola e delle suore e di suo padre. Ha ascoltato tanto, ma parla poco, non sa dire bene le cose, o non vuole, chissà. Nel suo cuore è sicura che vorrebbe le parole di sua madre, le mancano e le aspetta, e allora guarda sempre il cielo per vedere se arrivano da lì. Perché, comunque, se arrivasse a sentire le parole di sua madre, sa che sarebbe un miracolo e in un miracolo le parole di sua madre potrebbero certamente scendere dal cielo, dalle foglie degli alberi, o salire dal mare e dalla terra; le cose mai viste e mai ascoltate possono avere ogni forma, arrivano nuove.

CHI
Risentire quella voce è un pezzetto che manca ad Ella; la voce che ha sentito, ma che non ricorda. Stare vicina al corpo della sua mamma è un altro pezzetto che le manca; il corpo che ha toccato, ma che non ricorda.
Ada parla, racconta di sé, per far sentire Ella tranquilla, protetta, affidata. Ada le dice che ha una figlia, si chiama Maria, vive in America, ma non si telefonano, non si scrivono da anni.
“Maria aveva ali grandi che l’hanno portata lontano, ma non erano sue. Maria era come Icaro, lo sai chi è Icaro?” chiede a Ella, che risponde no. Allora Maria racconta di Icaro e delle sue ali posticce, del suo desiderio di volare verso il sole; e poi di Dedalo e del labirinto. Chiede a Ella: “Ti piacciono queste storie?” Ella risponde di sì.
Sono sedute intorno al tavolo della cucina e mangiano una minestra calda. C’è ancora del vapore sui vetri della finestra e adesso che è notte sembra una tenda di tulle leggero.
“Stai tranquilla, cara” dice Ada a Ella. “Al Centro di accoglienza si stanno occupando di te. Non è la prima volta che ospito giovani donne o ragazzine come te. Vedrai, andrà tutto bene, ci sono persone serie qui. Domani parlerai con una dottoressa, è brava, la conosco da tempo. Si chiama Elena, era venuta qui per un periodo di volontariato e poi si è fermata. A volte mangiamo insieme, e allora viene anche un medico, un chirurgo, lui lavora per un’organizzazione umanitaria e si chiama Lucio. Ha 50 anni, è molto bravo anche lui. E’ lui che si è occupato di tuo padre, per questo noi abbiamo potuto lavare il suo corpo, Lucio pensa che queste cose sono importanti. Dice che bisogna imparare a salutarsi. Dice che buongiorno, ciao, buonanotte, come stai, addio, arrivederci e il silenzio non sono cose da niente.”
Poi Ada imita un po’ il medico quando afferma che: “Sono cose importanti, sono cose che curano. E se lo dico io… ”
E aggiunge:   “E vedessi come sorride quando dice così! Io penso che abbia ragione. E tu, Ella? Che pensi?”
“Sì, ha ragione” dice Ella. “Io ho imparato a salutare, per fortuna.” E poi tace. E forse ha sonno e forse pensa e forse spera; ha gli occhi lucidi, colmi di lacrime.
Ada fa silenzio e spazio a quelle lacrime. Le prime che vede brillare sulle guance di Ella.
Fuori scende una pioggia leggera dal cielo scuro.
Si sente il mare, è tranquillo.
Un’onda dietro un’altra, chi può dire quando finisce il mare.

(2015)
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Mappamondo Catalano Estense, 1450-1560 ca. Modena, 
Biblioteca Estense Universitaria

46. i_miei_luoghi_di_te @ i_tuoi_luoghi_di_me …quale corpo? … corpomondo …

” […] voi non desiderate mai davvero qualcuno o qualcosa. Voi desiderate sempre un insieme […] Proust l’ha detto e in modo bello: io non desidero una donna, io desidero anche il “paesaggio” che è contenuto in quella donna, un paesaggio che forse neanche conosco, ma che intuisco, e finché non ho sviluppato questo paesaggio che l’avviluppa io non sarò contento, cioè il mio desiderio non sarà compiuto, resterà insoddisfatto […]”
Gilles Deleuze, D come desiderio, da L’Abécédaire de Gilles Deleuze
(un programma televisivo prodotto e girato nel 1988
da Pierre-André Boutang)

Carte_du_Tendre

io sono una mappa una rappresentazione di me
variabile mappa variabile me
io ho luoghi dappertutto
luoghi nel mio corpo che come la terra cambia nei secoli dei miei anni nei secondi degli incontri di vento di pioggia di mani carezze schiaffi tradimenti fiumi in piena terremoti frane penetrazioni sorrisi
luoghi nella memoria luoghi del presente
c’eri non ci sei più c’ero ci sono ancora

avrei un corpo senza le parole gli sguardi gli abbracci i rifiuti che lo descrissero che lo descrivono?
sono nomi_nata ogni attimo nata_dai_nomi_che_ricevo

ogni parte di questo corpo ha una storia da raccontare che somiglia alle storie raccontate dalle mappe del sottosuolo
strati di incontri di resti di quegli incontri di gioie dolori abbandoni lacerazioni corse su spiagge camminate nei boschi parole amorose parole cattive parole di parole parole sulla pelle sulle labbra lasciate nella bocca succhiate succose amare prese rifiutate

i_miei_luoghi_di_te quelli che sfiori tocchi guardi nomini lasci da parte offendi violi quelli che tremano se ti penso quelli che tolgono il respiro se solo ricordo lì sopra di essi il tuo sguardo le tue mani il tuo arrivo il tuo abbandono il tuo ritorno il tuo stare nel mio corpo sostare rimanere viaggiare nel mio corpomondo nel mio corpoanima nel mio corpo

toponimi sono le tue parole e le mie esperienze

esiste un corpo senza nomi dopo la nascita del linguaggio?
esiste “il” corpo prima della nascita del linguaggio?

io sono ed è già una mappa disegnata dalla coscienza

esiste un corpo senza l’incontro con l’altro/a?

i_tuoi_luoghi_di_ me non se ne vanno li ho nelle dita nella bocca tra i capelli mi trema negli occhi la tua figura lontana che arriva che se ne va mi spinge alla parete il desiderio inappagato mi piega e mi spezza l’intimità di uno sguardo delle parole non dette dei baci della notte che dilata il corpo fino a te

corpi che migrano che attraversano confini che muoiono nelle guerre che affogano nei mari corpi rifiutati
corpi vestiti alla moda corpi alterati dalle chirurgie plastiche corpi nel dolore corpi che devono restare giovani corpi che invecchiano corpi rifiutati

corpi che sono storie biografie vite

corpi che sono io me che sono miei che sono nostri io che sono loro che ci incontriamo che ci sfioriamo che siamo lontani che non sappiamo nulla degli altri che ci sembra di sapere tutto degli altri che siamo gli altri che sono noi

quale corpo dice chi dice il corpo è mio?

corpo che vive per l’ossigeno l’acqua il cibo i pensieri il sapere le emozioni i sentimenti l’accudimento la cura l’amore

sono impegnata da e in un corpo che è nostro che è territorio che è dove

un corpo che è dove sei che è con chi sei come forma di coscienza insieme al chi sei

i nostri corpi io-noi abbiamo tutti i corpi del mondo
io-noi siamo

tusei

tu sei quindi io sono
interconnessioni
io sono quindi tu sei
responsabilità

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opera di Jim Warren

 

 

 

 

 

45. Così sono radicalmente curiosa, compagni miei creatori; / … visto che tocca a noi / costruire un Mondo Nuovo di zecca, / da dove cominciamo? / … squarciando / quell’allucinazione di massa / amara e raggrinzita / erroneamente chiamata realtà. /

 

L’ULTIMA POESIA DI RACHEL CORRIE,
PACIFISTA USA MORTA A GAZA NEL 2003

https://it.wikipedia.org/wiki/Rachel_Corrie

https://www.peacelink.it/storia/a/7418.html

Questo è un momento perfetto / è un momento perfetto per molte ragioni / ma soprattutto perché tu ed io / ci stiamo svegliando / dalla nostra complicità sonnambula, tonta, ciucciadito / con i maestri dell’illusione e della distruzione. /

Grazie a loro,da cui fluiscono queste benedizioni dolorose, / ci stiamo svegliando. /

Grazie a loro, da cui trasudano questi spaventosi insegnamenti, / ci stiamo svegliando./

Le loro guerre e torture, / i loro diavoli e confini, / estinzioni di specie / e malattie nuove di zecca, / il loro spiare e mentire / in nome del padre, / sterilizzando semi / e brevettando l’acqua, / rubando i nostri sogni e / cambiando i nostri nomi, / i loro  brillanti spot pubblicitari, / le loro continue prove generali / per la fine del mondo. /

Grazie a loro, da cui fluiscono queste benedizioni dolorose, / ci stiamo svegliando. /

Grazie a loro, da cui trasudano questi spaventosi insegnamenti, / ci stiamo svegliando. /

Le loro dolorose benedizioni / stanno squarciando / quell’allucinazione di massa / amara e raggrinzita / erroneamente chiamata realtà. /

Cominciano ad arrivare a valanga / notizie sull’autentica casa dell’anima, / infiltrandosi nei nostri sogni a occhi aperti / sempre più lucidi. /

L’eternità selvaggia matura e succosa / ci inonda. /

I nostri alleati / dall’altra parte del velo / ci raggiungono a sciame. /

Ci stiamo svegliando. /

E come il cielo e la terra si incontrano, / come il sogno e la veglia si mescolano, / come il paradiso e gli inferi si intersecano, / notiamo il il fatto esilarante e scioccante / che tocca a noi decidere / -tocca a noi decidere, a me e a te- / come costruire un mondo nuovo di zecca. / Non in qualche lontano futuro o luogo distante, / ma proprio qui e ora. /

Siamo sull’orlo di un precipizio, / danziamo proprio sul bordo, / e non possiamo permettere a questi folli che governano un mondo morente / di  portare avanti i loro sortilegi. /

Dobbiamo insorgere e combattere la loro logica malata; / sfidare, resistere e fermare la loro tragica magia; / scatenare la nostra ira sacrosanta e fargliela sentire. /

Ma aver la meglio sui morti viventi non è sufficiente. / Protestare contro i mostri in doppiopetto non è sufficiente. / Non possiamo permettere di essere consumati dall’ira – / non possiamo essere  ossessionati e posseduti da lamenti. / I nostri dolci corpi animali / hanno bisogno di felicità turbolente. / La nostra stupefacente immaginazione / ha bisogno di nutrirsi di compiti / che stimolino il nostro diletto. /

Abbiamo bisogno di verità allo stato selvaggio, / una bellezza insurrezionale / che ecciti la nostra curiosità, / una bontà oltraggiosa / che ci porti a compiere / atti eroici di appassionata compassione, / un amore ingegnoso / che ci trasformi senza tregua, / una libertà astuta / che non sia mai permanente / ma da afferrare e reinventare ogni giorno, / e di una giustizia-totalmente-seria-ma-sempre-ridente / che progetti e sogni / come diminuire la sofferenza / e accrescere la gioia / di ogni essere senziente. /

Così sono radicalmente curiosa, compagni miei creatori; / sul serio in delirio: / visto che tocca a noi / costruire un Mondo Nuovo di zecca, / da dove cominciamo? /

Quali verità allo stato selvaggio / pensiamo di piantare al cuore / della nostra creazione? / Quali storie saranno i nostri pro-memoria? / quali domande ci alimenteranno? /

Eccotene una: / nel Mondo Nuovo / saprai con tutto te stesso / che la vita è pazzamente innamorata di te- / la vita è selvaggiamente e innocentemente innamorata di te. /

Nel Nuovo Mondo / saprai al di là di ogni dubbio / che migliaia di alleati nascosti / stanno dandosi da fare per farti diventare / quella bellissima curiosa creatura / cui sei destinato per nascita. /

Ma poi arriva la domanda fatale: / l’amore con cui la vita eternamente ti inonda / non è stato corrisposto al suo meglio, / ma c’è ancora modo per mostrarsi più espansivi. / Se la vita è selvaggiamente e innocentemente innamorata di te, / sei pronto a cominciare ad amare la vita così come essa ti ama? /

Nel Mondo Nuovo, lo farai. /

Nel Mondo Nuovo, / rigetterai la paranoia con tutta l’intelligenza del tuo cuore. / E abbraccerai la Pronoia, che è l’opposto della paranoia. / Pronoia è il vago sospetto / che tutto il mondo vivente / sta cospirando per inondarti di felicità turbolente. / Pronoia è la concezione emergente / che la vita è una cospirazione / per liberarti dell’ignoranza, / e riempirti d’amore, / e farti spirito risplendente. /

Compagni miei creatori, / voglio che sappiate che sono allergica ai dogmi. / Non ho fiducia in alcuna idea / che richieda fede assoluta. / Ci sono molte poche cose  / di cui sono del tutto certa. /

Ma sono assolutamente sicura / che la Pronoia descrive il mondo così com’è. / La Pronoia è più umida dell’acqua, / più vera dei fatti, / e più forte della morte. / Odora del fumo di cedro nella pioggia primaverile, / e se ora chiudi gli occhi, / ne  percepirai il tremulo scintillare / nel tuo morbido caldo corpo animale come un’aurora boreale. /

La roba dolce che appaga le tue voglie / non è chissà dove in qualche altro spazio  e tempo. / E’ proprio qui e ora. /

La Terra è ricolma di Paradiso. /

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44. Buon Anno Nuovo cari amici-viaggiatori di blog

49257791_10218347288421551_656400775265648640_nAndres Gamiochipi, Drawing Constellation III

Non c’era un altro mobile così grande nella stanza.
Né l’armadio a un’anta ampia ricoperta da uno specchio, né il letto a due piazze con grandi testiera e pediera in ferro.
Niente era grande come la foto di lui, appesa solitaria al centro della parete, e nient’altro su quella parete.
Nel resto della stanza c’erano coppie o più di cose. Accanto all’armadio, a sinistra, davanti alla finestra, il lavabo in metallo con lo specchio ovale, e brocca e conca poggiate sui due piani in marmo; a destra dell’armadio la cassapanca del corredo. Accanto al letto i comodini, e uno solo di essi con la lampada per la notte.
Nella parete opposta alla finestra, la gigantografia di lui a mezzobusto, illuminata tutto il giorno dalla luce esterna. Lui, vestito bene con l’abito della festa e un garofano all’occhiello; e un sorriso elegante, appena accennato ma convinto, e ormai eterno. E nient’altro su quella parete, come nessun altro nel cuore.
Lei ci aveva provato, una volta. Un uomo voleva sposarla. Lei ne parlò con la figlia di quattro anni, quasi a chiederle il permesso, forse aspettando il rifiuto che infatti arrivò puntuale, chissà da quale paura della bambina, alla quale veniva chiesta una decisione così grande dalla paura della madre. La paura, creatrice di nascondigli, di antri bui che sussurrano che non c’è mai via di uscita.
Così lei chiuse tutto il futuro dentro il no, pensando fosse un sì. E tutti pensarono fosse un sì. Le prigioni spesso appaiono come grandi scelte, ma lei non lo seppe mai, non volle saperlo: i sacrifici immani che ne seguirono erano solo la conferma di una serietà quotidiana, di una coerenza di vita che innalzava a eroismo ciò che non sapeva si chiamasse paura.
Cambiò molte case, lei. La prima dove visse da ragazza e da cui uscì per andare ad abitare nella casa di lui, con suoceri e cognati e cognate. Trenta passi che la fecero entrare in un mondo di grandi affetti. Quella è la casa dei ricordi, anche di noi che siamo venuti al mondo dopo e che non l’abbiamo abitata, ma solo visitata, piccolissimi nuovi rami di un albero che fu ferocemente potato dalla vita. Quella casa ci aspetta ancora, disabitata, abbandonata, io lo so; è lì per risentire l’odore di quel sangue che ancora scorre in noi, il suono delle voci che hanno quelle radici, le parole che possono raccontarla nel suo splendore di quegli anni, nella ricchezza di quella famiglia amorevole, numerosa e laboriosa.
Da quella casa di festa lei uscì dopo tanti anni, quando lui se ne era andato da tempo, in modo improvviso e violento; uscì dopo aver accudito tutti i famigliari di lui rimasti nella casa, lei che ne era diventata la vestale, la presenza di costante riferimento per tutti, il corpo già trasformato come un ramo d’inverno, la voce tramutata in un soffio caldo di primavera, un refolo raro solo per dire l’essenziale, un essenziale amorevole e null’altro, niente altro diceva se non parole amorevoli, rare ma amorevoli e basta.
Uscì insieme all’ultimo cognato rimasto per entrare in un’altra casa. E nella sua stanza la foto di lui aveva l’onore di un’intera parete. E così fu in un’altra casa, e poi in un’altra e in un’altra ancora, che fu quella dove la foto di lui era illuminata tutto il giorno dalla luce esterna.
Lei si spense lentamente, e la sua ultima casa fu la nostra, dove morì dimentica del mondo e spero dei dolori che la piegarono senza spezzarla, rendendo in tal modo ancor più  preziosi i suoi sorrisi e la sua generosità. Nella nostra casa aveva il letto prima nella mia cameretta quando veniva a trovarci, e poi nella camera dei miei genitori -una camera molto grande- dove trascorse gli ultimi suoi tempi, così da poter essere accudita come necessitava, cioè senza sosta. Ma, sebbene la camera fosse molto grande, non c’era spazio per la gigantografia di lui o, chissà, non pensammo di trovarlo.
Ero giovane quando lei morì, avevo da poco cominciato a ricostruire l’albero di cui ero un ramo, qualcosa da lei mi ero fatta raccontare: non sapevo niente dell’amore pur pensando di saperlo, soprattutto non sapevo di quanto col suo nome si nomini invece la paura; non pensai di portare la gigantografia di lui in quella camera, e l’avrei portata anche se già da allora avessi saputo che era per lei un rifugio e un nascondiglio, che lì aveva sepolto tutta la sua vita, anche se avessi saputo quanto un ricordo possa farsi prigione e sostituirsi al vivere. Ma non pensai di portarla, per imparare ad amare a volte ci vuole l’intera vita.
Lei morì in silenzio, a pareggiare forse l’urlo dentro cui morì lui; completamente scordata di sé e del mondo, così almeno sembrava, a pareggiare forse l’impegno quotidiano del suo cuore al ricordo e alla mancanza. Lei ha un nome suo proprio, e ha un nome di parentela ma, per quanto io ami i nomi dell’affetto famigliare – babbo mamma nonno nonna zio zia cugini – non la chiamo con nessuno di questi appellativi né col suo nome. Ne ha uno che apparteneva a loro due, che lui le aveva dato e con cui la chiamava, a volte serio a volte scherzoso e sempre innamorato: Signora, la chiamava Signora. E tale lei ha dimostrato di essere per il resto della sua vita dopo di lui, per quello che la sua consapevolezza le ha permesso di capire: al suo livello di coscienza visse una vita d’amore, non fece mai del male a nessuno, fu onesta, generosa e grande lavoratrice. Io sono sicura che se anche avesse compreso che aveva il dovere-diritto di vivere la sua vita in altro modo – e non in termini di espiazione e di annullamento come anche voleva la sua epoca per le vedove; non indirizzata dal dolore e dalla paura, di tutti e non solo della sua- lei comunque avrebbe percorso una strada d’amore, per  niente inorgoglita da una vita più tranquilla e serena, anzi, sarebbe stata esempio di come solo uscendo dalla paura si vive realmente l’amore. Ma la sua vita è arrivata fin lì, a dimostrare che anche dentro la paura e il dolore si può vivere senza fare del male, addirittura trasformando quel costante limite in un passo verso il suo stesso superamento. Ed è molto, moltissimo.
Io la ricordo nei suoi gesti, l’esito esterno di ciò che abbiamo nel cuore. Gesti di lavoro pesante, di dono, di accoglienza totale. La Signora.
E’ con lei che voglio augurare a chi passa in questo blog un Buon Anno Nuovo: lei ci ricorda che se siamo nel dolore e nella paura possiamo comunque agire in modo rispettoso delle altre vite; lei ed io sollecitiamo a non impostare la vita sui momenti di dolore e di paura; a mettere altro vicino alla gigantografia del passato; a lasciare andare le gigantografie, ad affacciarsi a vedere fuori dalla finestra da cui entra una luce, che nel dolore sembra solo fatta per illuminare la gigantografia del nostro cuore spezzato, ma che invece è luce che illumina ogni cosa.
Non si è Signora per caso.

Buon Anno Nuovo, cari amici-viaggiatori di blog.
Si può cambiare, si può fare qualcosa di nuovo. Si può diventare.

 

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43. “avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore” … “l’amore dimentico di sé è vero soltanto finché l’esigenza del Sé può essere messa in disparte”

“Perciò, per la nostra sedicente redenzione non dobbiamo usare l’Altro. L’Altro non è una scala per i nostri piedi. Dobbiamo piuttosto restare con noi stessi. Il bisogno di redenzione ama esprimersi attraverso un accresciuto bisogno d’amore con cui noi crediamo di rendere felici gli altri. Nel frattempo però siamo immersi fino al collo nella brama e nel desiderio di cambiare la nostra condizione, e a tale scopo amiamo l’Altro. Se avessimo già raggiunto il nostro scopo, l’Altro ci lascerebbe freddi. Però è vero che per la nostra redenzione abbiamo anche bisogno dell’Altro. Esso ci offrirà forse il suo aiuto spontaneamente, perché siamo in una condizione di malattia e di impotenza. L’amore per lui non è – e non deve essere – dimentico di sé. Sarebbe una menzogna. Giacché il suo scopo è la nostra redenzione. L’amore dimentico di sé è vero soltanto finché l’esigenza del Sé può essere messa in disparte.”
C. G. Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri 2010
https://it.wikipedia.org/wiki/Libro_Rosso_(Jung)

ADI HOLZERAdi Holzer, Schwierige Passage, 2002

 

Il pianto della scavatrice
I

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

scheggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri – in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e
feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
– sotto festoni di luci ormai sole –

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

Il pianto della scavatrice, in P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 2015)

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42. un fanciullo li guiderà … e il Verbo si fece carne

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.”
Vangelo Gv 1,14

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http://www.treccani.it/vocabolario/incarnare/

DIO   BENE-DICE   LA   VITA
https://www.youtube.com/watch?v=O6ViaWUCMLc

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Catacombe di Priscilla, Roma

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E        UN        FANCIULLO        LI        GUIDERA’
Isaia 11,8
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41. per quali motivi viaggiamo … “non saprei nient’altro di me se non sapessi di me che sono straniero”

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1 In quel tempo uscì un decreto da parte di Cesare Augusto, che ordinava il censimento di tutto l’impero. 2 Questo fu il primo censimento fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3 Tutti andavano a farsi registrare, ciascuno alla sua città.
4 Dalla Galilea, dalla città di Nazaret, anche Giuseppe salì in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme, perché era della casa e famiglia di Davide, 5 per farsi registrare con Maria, sua sposa, che era incinta.
Nuovo  Testamento, Vangelo di Luca, 2, 1-5

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http://letture-fiuggi.blogspot.com/2016/12/la-nascita-di-gesu.html

 

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LA GEOPOLITICA DEI LUOGHI SANTI – DIETRO LE MAPPE
https://www.arte.tv/it/videos/082241-013-A/religione-la-geopolitica-dei-luoghi-santi/?xtor=CS1-355&kwp_0=1076710&fbclid=IwAR1J00flNjyeGdK7WySpnO2TQoLUZKQvosjdOo_3qBVl_K5mwDobDjIMVjI

 

 

 

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SE NON SAPESSI CHE SONO FORESTIERO NON SAPREI NIENTE ALTRO DI ME. OVVERO: LA CONSAPEVOLEZZA DI ESSERE UN FORESTIERO E’ UNA CONDIZIONE PER COMPRENDERE QUALCOS’ALTRO DI ME E LA MIA CONOSCENZA DI ME STESSO (AUTOCONSAPEVOLEZZA) NON SI ESAURISCE NEL SAPERE CHE SONO FORESTIERO, MA PER GIUNGERE A CONOSCERE LE MIE IDENTITA’ NECESSITO PRIMA DI RICONOSCERE CHE SONO (ANCHE) FORESTIERO.
http://www.laricerca.loescher.it/istruzione/1813-non-so-niente-se-non-che-sono-straniero.html?fbclid=IwAR2-6lgqDj3wAcOjgXynE0buI4d6AKRMYiJUIKGdFVYP8kH7JXSjFwyBj50

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