Françoise

In effetti Françoise, da anni al suo servizio e più che certa che un giorno sarebbe venuta in pianta stabile a casa nostra, trascurava un po’ la zia durante i mesi nei quali c’eravamo noi. Nella mia infanzia, prima che cominciassimo ad andare a Combray, quando zia Léonie passava ancora l’inverno a Parigi da sua madre, c’era stato un periodo in cui conoscevo così poco Françoise che il 1° gennaio, prima di entrare in casa della prozia, la mamma mi metteva in mano una moneta da cinque franchi e mi diceva: “Soprattutto non sbagliare persona. Prima di darla, aspetta di sentirmi dire: “Buongiorno Françoise”; intanto ti sfiorerò il braccio”. Avevamo appena messo piede nella buia anticamera della zia e già scorgevamo nell’ombra, sotto le pieghe d’una cuffia abbagliante, rigida e fragile come fosse di zucchero filato, i mulinelli concentrici di un anticipato sorriso di riconoscenza. Era Françoise, immobile ed eretta nel vano della piccola porta del corridoio come una statua di santa nella sua nicchia. Poi, abituatici un poco a quelle tenebre da cappella, distinguevamo nel suo viso l’amore disinteressato per il genere umano, il rispetto commosso per le classi elevate che la speranza delle mance esaltava nelle più nobili regioni del suo cuore. La mamma mi pizzicava con forza il braccio e diceva ad alta voce: “Buongiorno, Françoise”. A quel segnale le mie dita s’aprivano e sganciavano la moneta che trovava a riceverla una mano imbarazzata, ma tesa. Da quando andavamo a Combray, invece, non c’era persona che io conoscessi meglio di Françoise; eravamo i suoi prediletti, aveva per noi – almeno i primi anni – la stessa considerazione che riservava alla zia, ma accompagnata da un’inclinazione più viva, giacché al prestigio di far parte della famiglia (verso i legami invisibili che la circolazione di un medesimo sangue crea tra i diversi membri d’una famiglia lei nutriva il rispetto d’un tragico greco) aggiungevamo il fascino di non essere i suoi padroni abituali. […] La zia si rassegnava a privarsene un poco durante la nostra permanenza, sapendo quanto mia madre apprezzasse il servizio di quella donna così intelligente e attiva, non meno bella alle cinque del mattino nella sua cucina, sotto la sua cuffia la cui pieghettatura fissa e splendente sembrava di biscuit, che quando si recava alla messa grande; capace di far tutto bene, di lavorare come un cavallo, stesse o non stesse bene, ma zitta zitta, con l’aria di non far nulla, unica fra le donne della zia, quando la mamma chiedeva dell’acqua calda o del caffè, a portarglieli davvero bollenti; una di quelle persone di servizio che, in una casa, appaiono di primo acchito le meno gradevoli all’estraneo, forse perché non si preoccupano di ingraziarselo né gli prestano particolari premure, sapendo benissimo di non averne alcun bisogno e che si smetterebbe di invitarlo pur di non privarsi del loro servizio; e alle quali, in compenso, i padroni tengono di più, avendo sperimentato le loro reali capacità e non dando alcun peso a quella gradevolezza superficiale, a quel chiacchiericcio servile che fa buona impressione a un visitatore, ma che nasconde spesso un’ineducabile nullità.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 65-66-67

Françoiseultima modifica: 2023-08-22T12:23:32+02:00da ellen_blue

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