Françoise come l’imenottero di Fabre

Ma il giorno che ero sceso in cucina mentre mio padre consultava il consiglio di famiglia sull’incontro con Legrandin, era uno di quelli in cui la Carità di Giotto, molto sofferente per avere da poco partorito, non poteva lasciare il letto; Françoise, rimasta senza aiuto, era in ritardo. Quando arrivai giù, lei era intenta, nel retrocucina che dava sul cortile, ad ammazzare un pollo che, con la sua resistenza disperata e del tutto naturale, ma accompagnata da Françoise mentre, fuori di sé, cercava di bucargli il collo sotto l’orecchio, con urli di “bestiaccia! bestiaccia!”, metteva la santa dolcezza e l’unzione della nostra domestica un po’ meno in luce di quanto non avrebbe fatto, durante il pranzo dell’indomani, con la sua pelle ricamata d’oro come una pianeta e il suo sugo prezioso uscito goccia a goccia da un ciborio. Quando fu morto, Françoise raccolse il sangue, che colava senza spegnere il suo rancore, ebbe ancora un soprassalto di collera e contemplando il cadavere del suo nemico disse un’ultima volta: “Bestiaccia!”. Risalii tutto tremante; avrei voluto che Françoise venisse messa subito alla porta. Ma chi mi avrebbe preparato delle boules così calde, del caffè così profumato, e anche…quei polli?… E come me, in realtà, l’avevano dovuto fare tutti, quel calcolo vile. Infatti mia zia Léonie sapeva – mentre io ancora l’ignoravo – che Françoise, pronta a dare la vita senza un lamento per la figlia e i nipoti, con altre creature era di una durezza singolare. Malgrado ciò mia zia l’aveva tenuta perché, se conosceva la sua crudeltà, apprezzava il suo servizio. Io mi accorsi a poco a poco che la dolcezza, la compunzione, le virtù di Françoise nascondevano tragedie da retrocucina, così come la storia va scoprendo che i regni di Re e Regine rappresentati con le mani giunte nelle vetrate delle chiese furono segnati da sanguinosi incidenti. Mi resi conto che, a parte quelli che componevano la sua parentela, gli esseri umani tanto più eccitavano la sua compassione con le loro sventure quanto più erano lontani da lei. I torrenti di lacrime che versava, leggendo il giornale, sulle disgrazie degli sconosciuti si prosciugavano ben presto se poteva raffigurarsi con una qualche precisione la persona della vittima. Una delle notti che seguirono il parto, la sguattera fu colta da coliche atroci: la mamma udì i suoi lamenti, si alzò e svegliò Françoise la quale, insensibile, dichiarò che tutte quelle grida erano una commedia, che la sguattera voleva “fare la signora”. Il medico, temendo una di queste crisi, aveva messo un segno in un libro di medicina che avevamo in casa, alla pagina dove esse erano descritte e dove ci aveva detto di leggere le indicazioni per le prime cure. Mia madre mandò Françoise a cercare il libro raccomandandole di non perdere il segno. Dopo un’ora Françoise non era ancora di ritorno; mia madre, indignata, pensò che si fosse rimessa a dormire e mi disse di andare a vedere io stesso in biblioteca. Vi trovai Françoise che, avendo voluto guardare cosa ci fosse alla pagina segnata, stava leggendo la descrizione clinica della crisi e, poiché ora si trattava di una malattia-tipo che lei non conosceva, ci singhiozzava sopra. A ogni sintomo doloroso menzionato dall’autore del trattato, esclamava: “Ah, Vergine santa, è mai possibile che il buon Dio voglia far soffrire così un’infelice creatura umana? Ah, povera disgraziata!”.

Ma non appena, chiamata da me, fu di nuovo al capezzale della Carità di Giotto, le sue lacrime cessarono subito di scorrere; non ritrovò più né quella gradevole sensazione di commozione e di pietà che conosceva così bene e che la lettura dei giornali le aveva tante volte procurata, né altri piaceri della medesima famiglia, nel fastidio e nell’irritazione d’essersi alzata nel cuore della notte a causa della sguattera; e, alla vista delle stesse sofferenze la cui descrizione l’aveva fatta piangere, non reagì che con brontolii di malumore o addirittura con atroci sarcasmi, dicendo, quando pensò che ce ne fossimo andati e non potessimo sentirla: “Bastava non fare quello che porta per forza a questo punto! ma già, le sarà piaciuto! e allora non faccia tante storie, adesso! Certo che un giovanotto dev’essere abbandonato dal buon Dio per andare con una roba simile…Ah, è proprio come diceva, nel suo modo di parlare, la mia povera mamma:

Chi del culo d’un cane s’innamora

si crede che è una rosa”.

Se, quando il nipotino aveva un leggero raffreddore di testa, lei si metteva in strada di notte, anche malata, invece di andarsene a letto, per controllare che non avesse bisogno di niente, facendo quattro leghe a piedi prima di giorno in modo d’essere di ritorno per il lavoro, in compenso quello stesso amore per i suoi e il desiderio di assicurare le future grandezze del suo parentado si traducevano, nella sua politica verso gli altri domestici, in una massima costante: fare in modo che nessuno di loro mettesse mai radici in casa di mia zia, che lei, d’altronde, per una sorta di orgoglio, non lasciava avvicinare da chicchessia, preferendo, quando si sentiva poco bene lei stessa, alzarsi dal letto per darle la sua acqua di Vichy pur di non consentire alla sguattera l’accesso alla stanza della padrona. E come l’imenottero studiato da Fabre, la vespa scarificatrice, che per assicurare ai piccoli, dopo la sua morte, della carne fresca da mangiare, chiama l’anatomia in aiuto della crudeltà e, catturato qualche ragno o punteruolo, gli trafigge con una sapienza e un’abilità meravigliose il centro nervoso da cui dipende il movimento delle zampe, ma non le altre funzioni vitali, in modo che l’insetto paralizzato, accanto al quale depone le proprie uova, fornisca alle larve, quando si schiuderanno, una preda docile, inoffensiva, incapace di fuga o di resistenza, ma non ancora frollata, Françoise escogitava, per assecondare la sua pervicace volontà di rendere la casa insostenibile da parte di qualsiasi domestico, degli accorgimenti così sottili e così spietati che, parecchi anni dopo, scoprimmo che se quell’estate avevamo mangiato asparagi quasi quotidianamente, era stato perché il loro odore provocava alla povera sguattera incaricata di pulirli delle crisi d’asma d’una tale violenza che, alla fine, fu costretta ad andarsene.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 148-149-150-151

Stéphane Heuet

Françoise come l’imenottero di Fabreultima modifica: 2023-09-12T12:30:45+02:00da ellen_blue

15 pensieri riguardo “Françoise come l’imenottero di Fabre”

  1. Eccolo il terrificante inciso sulla vespa scarnificatrice. “Terrificante” per la capacità di Proust di inserire l’inciso in un periodo senza che il lettore si perda tutto il discorso e, magari, deve rileggerlo daccapo. Ne compresi la grandezza quando Baricco, magnificando Proust, accompagnò per mano lo spettatore fino a poi leggerlo.

  2. È ufficiale, sei in amore anche tu 🙂 tranquillo, non sono gelosa. Scherzi a parte, in questo caso è come scivolare in un imbuto, tutto viene da sé con una naturalezza che lascia sgomenti. E sì, me lo ricordo anch’io quel Baricco…secondo te, è riuscito ad invogliare qualcuno a leggere la Recherche?

  3. Sicuramente c’è riuscito, ma la Recherche è una guerra tra la voglia e la volontà. Una scalata che se conti le pagine che hai letto e quelle da leggere ancora, ti fa cambiare sport. [A meno che non trovi un angelo che te la legge] 🙂

  4. Le mie ali ringraziano 🙂
    Secondo me, tu sei un tipo alla Baricco, tenuto conto dell’abilita’ narrativa che hai quando scrivi. Quindi ti faccio questa domanda: se ci sono intorno a te più persone, riesci a catturare la loro attenzione indipendentemente dall’argomento?

  5. No, sono diverso da Baricco. In campo narrativo, lui, come te, ha un bagaglio enorme. Per raccontarle, non dovete inventarvele le storie. Sono piacevolmente di compagnia 🙂

  6. Lascia perdere il bagaglio culturale (che neppure io ho), intendevo dire: ti viene naturale affabulare gli astanti? credo che tu mi abbia risposto con quel “Sono piacevolmente di compagnia”.
    🙂

  7. Ecco, distratto dall’imenottero m’è sfuggita questa:

    “Chi del culo d’un cane s’innamora
    si crede che è una rosa”.

    Sarebbe stato delittuoso lasciarla passare nell’indifferenza, Marcel. Immagino sia un vecchio proverbio francese. Merito tuo averlo riportato a galla. Adoro la saggezza dei vecchi proverbi.

  8. “Me ne racconterai un’altra?”, mi disse con la dolcezza che fa rima con quella brezza con la quale uscivamo a guardar le stelle. Malgrado il punto interrogativo, la sua non era una domanda perché sapeva che, anche se non me l’avesse chiesto, l’avrei comunque fatto. In effetti anche se mi avesse detto “non smettere.”, col punto e non quello di domanda, sarebbe stata altrettanto dolce. Forse, anche di più perché lei è così.
    Ricordo che, dopo la prima volta che uscimmo a guardar le stelle, me lo chiedeva anche se non c’era brezza perché, la prima volta, mentre lei le guardava soltanto, io, indicandole, cominciai anche a contarle: “due, tre, quattro…” e così via.
    “Che fai? Non dirmi che vuoi contarle tutte”, mi chiese sorridendo.
    “Perché no… ecco, mi hai fatto perdere il conto…” e, sempre indicandole, ripresi a contarle: “due, tre, quattro…”
    “Non per interromperti, ma perché cominci sempre dal due?”, mi chiese.

    La volta successiva che uscimmo a guardare le stelle: “Che c’è? Stasera non le conti?”, mi chiese appoggiando la testa alla mia spalla.
    Ed io, sempre indicandole: “Una, due, tre, cinque…”
    “Eheh fanculati, scemo”.

  9. Pensavo, se tra qualche anno dovessimo ripercorrere le mie e le tue strade, potremmo temere d’essere stati schizofrenici, perché risalire alle connessioni sarebbe impossibile. 🙂
    Comunque non ho pensato che avessi sbagliato blog ma che fosse stata una scelta.

    1. Non era una scelta, avevo aperto qua poi mi sono alzato per fumare e quando sono tornato, convinto di essere di là, ho commentato qua. Quasi quasi, senz’aspettare qualche anno, se cominciassi a riflettere sulla mia schizofrenia sin da adesso, mi porterei avanti col lavoro :))

      1. p.s.: appunto, la schizofrenia! Non ho detto che avevo aperto qua perché, guardando l’immagine di testa del tuo blog è evidente, rispetto a quelli che chiacchierano soltanto di sicurezza, quanto i francesi se ne preoccupassero già 3 o 2 secoli fa. Parlo delle antenne parafulmini su quegli alberghi.

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