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Un cortometraggio in bianco e nero interpretato da me che potete vedere nei miei video. e lasciare commenti e critiche...
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Venere e Adone
Con un poemetto erotico pastorale - Venere e Adone
- ha inizio il grande viaggio di un William Shakespeare giovanissimo
dentro l'animo umano. Una poesia incalzante, febbrile per raccontarci
l'innamoramento totale, il desiderio senza freni della dea dell'amore
per il bel giovane Adone, più sensibile ai riti della caccia che non a
quelli della passione.
Composto nel 1593, il testo
si insinua con ricchezza di immagini e di parole cariche di simbologie
nell'esclusiva e tragica passione di Venere per il giovane - prima
recalcitrante e poi in fuga dall'abbraccio tentacolare della dea che ha
letteralmente perso la testa per lui -, destinato subito dopo a sicura
morte, colpito da un cinghiale a lungo inseguito, che ha avuto il torto
di anteporre alle promesse dell'amplesso divino. Una storia che, come
spesso succede nelle vicende d'amore, mescola assieme passione e morte,
desiderio e sangue che ci viene raccontata quasi in terza persona
quando non è Venere a riempire di sé tutta la scena mentre ad Adone non
è concessa alcuna parola quasi fosse un totem un po' scostante del
desiderio, estraneo alla lamentazione di una dea troppo umana.
Valter Malosti
che ne è il regista, l'interprete principale nonché l'unico parlante e
il traduttore di questo affascinante poema (lo spettacolo è coprodotto
dal Teatro di Dioniso e dallo Stabile di Torino), lo rappresenta nella
sala piccola delle Fonderie Limone di Moncalieri con un andamento lento
quasi sacrale. La scena è un paesaggio deserto dove si apre
improvvisamente un pertugio da cui escono, su di un carrello mobile, a
citazione della tragedia classica, Venere e Adone già avviluppati
nell'abbraccio fatale che segnerà la morte di lui e la disperazione di
lei.
Su quel piccolo palcoscenico mobile che
scorre su di una rotaia, Malosti interpreta Venere, anzi la incarna
giocando en travesti la propria parte, come la protagonista di una
tragedia popolare, di una Mamma Roma pasoliniana che ama un ragazzo di
vita. Senza mai giocare su di una facile esteriorità né su di un
realismo d'accatto, il travestimento femminile di Malosti è più
profondo e sottile: lo si intuisce dai semplici pantaloni di pelle, dal
volto appena truccato, ma soprattutto da un'assunzione interiore,
finemente ambigua, d'identità che ci spiazza e ci coinvolge. Adone
invece è muto ma il suo corpo flessuoso (lo interpretano
alternativamente i danzatori Yuri Ferrero e Daniele Trastu mentre le coreografie sono di Michela Lucenti),
riempie lo spazio con le sue evoluzioni, con i sussulti del corpo, che
rappresentano il tentativo di sfuggire al divorante abbraccio della
dea, che gli si rivolge con accento napoletano che la rende simile a
tante figura tragiche di un teatro come quello di Moscato e di
Ruccello, con il quale, forse, Malosti intende idealmente confrontarsi.
Il che non disturba ma anzi esalta la stilizzazione del racconto che
l'attore-regista sembra aver scelto come cifra del suo lavoro. Uno
spettacolo di forte impatto e di inquieta, poetica contemporaneità. Da
vedere.
di
maria grazia gregori
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No te conoce el toro ni la higuera,
ni caballos ni hormias de tu casa.
No te conoce el niño ni la tarde
porque te has muerto para siempre.
No te conoce el lomo de la piedra,
ni el raso negro donde te destrozas.
No te conoce tu recuerdo mudo
porque te has muerto para siempre.
El Otoño vendrá con caracolas,
uva de niebla y montes agrupados,
pero nadie querrá mirar tus ojos
porque te has muerto para siempre.
Porque te has muerto para siempre,
como todos los muertos de la Tierra,
como todos los muertos que se olvidan
en un montón de perros apagados.
No te conoce nadie. No. Pero yo te canto.
Yo canto para luego tu perfil y tu gracia.
La madurez insigne de tu conocimiento.
Tu apetencia de muerte y el gusto de
su boca.
La tristeza que tuvo tu valiente alegría.
Tardará mucho tiempo en nacer,
si es que nace,
un andaluz tan claro, tan rico de aventura.
Yo canto su elegancia con palabras que
gimen
y recuerdo una brisa triste por los
olivos.
Di
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Oye, hijo mío, el silencio.
Es un silencio ondulado,
un silencio,
donde resbalan valles y ecos
y que inclinan las frentes
hacia el suelo.
Federico García Lorca