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Sandokan o la fine della avventura
Nell'immaginario collettivo di una certa generazione, la scena in cui Kabir Bedi-Sandokan salta e con il coltello kriss taglia la pancia alla tigre di fronte agli occhi incantati della Perla di Labuan è indimenticabile. Così come la sigla firmata dagli Oliver Onions, al secolo Guido e Maurizio De Angelis, rimarrà per sempre nella memoria: basta un piccolo accenno per far scattare il coro entusiasta.
Il fatto è che quello sceneggiato Tv, diretto con mano sicura da Sergio Sollima nel 1974, accese la fantasia di tutti, in particolare di chi, come il sottoscritto, veleggiava fiero verso i dieci anni. La stessa magia che il maestro Emilio Salgari, genio indiscusso delle lettere, sapeva infondere con i suoi romanzi d'avventura , tornava infatti quasi rafforzata nello splendore del colore televisivo e nei volti di Bedi, Carole André, Adolfo Celi (cattivissimo) e Philippe Leroy (indimenticabile Yanez).
Il povero Salgari, è noto, non fece mai viaggi tra i pirati delle Malesia o nei Caraibi del Corsaro nero. Tra Verona, Torino e Genova visse un'esistenza grigia, oppresso da debiti e depressioni fino a che non riuscì a suicidarsi. Ma tra il salotto e la camera da letto, tra la cucina e una passeggiata, inventava, sognava, scriveva alcuni tra i più bei romanzi che in troppi si ostinano a considerare per ragazzi.
Proprio alle suggestioni di Sandokan hanno attinto i pisani Sacchi di Sabbia per dar vita ad uno "spettacolo da camera" di grande ironia. Se Aldo Trionfo, nel 1970, aveva scelto un salottino primi Novecento, tra panni da stirare e numerosa prole da accudire per raccontare gli ardori della Tigre di Mompracem, la "camera" adottata nell'allestimento dei Sacchi di Sabbia è, più o meno, una cucina: attorno ad un tavolo si raccolgono i quattro personaggi che, indossato il grembiule, iniziano a raccontare-vivere le intricate gesta del pirata malese.
Perno dell'azione è l'ortaggio, in tutte le sue declinazioni: carote-soldatini, sedani-foresta, pomodori rosso sangue, patate-bombe, prezzemolo ornamentale. E poi cucchiai di legno come spade, grattugie come cannoni, una bacinella piena d'acqua per il mare del Borneo, scottex per cannocchiali, e ancora sacchetti di carta, coltellini, tritatutto...
Il racconto si affaccia alla mente degli spettatori, per poi esplodere con una frenesia folle che contagia. Il gruppo, che si definisce tosco-napoletano, dal suo esordio gioca impunemente tutte le carte della commedia, e trova in Giovanni Guerrieri uno stralunato alfiere, qui un Sandokan donchisciottesco che forse non crede a quel che fa. Accanto a lui, Giulia Gallo si muta da mesta narratrice in una Perla di Labuan che è un'erinni nevrotica, mentre Gabriele Carli ed Enzo Illiano si alternano nei mille altri personaggi della vicenda.
E allora si ride alle invenzioni continue e surreali, in un gioco che riattiva ricordi e nostalgie. Il problema, semmai - e lo facevano notare alcuni spettatori - e che le "nuove generazioni" hanno dimenticano non solo Salgari, ma anche Kabir Bedi e lo sceneggiato, con buona pace di Sandokan e dei suoi tigrotti. Il rischio, quindi, è che il gioco della memoria funzioni a metà, che la madeleine della Tigre di Mompracem non evochi nulla: in questi anni accelerati, futili e violenti, Salgari è finito in soffitta, insieme - povero lui - a tremori d'amore di Liala.
La questione certo non deve preoccupare gli attori in scena, che per quanto decisamente efficaci, dovranno piuttosto limare gli snodi di narrazione, un po' sottotono e meccanici. Visto nell'ambito di Short Theatr3, al Teatro India di Roma, questo Sandokan o la fine della avventura ha riscosso caloroso successo.
di andrea porcheddu
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No te conoce el toro ni la higuera,
ni caballos ni hormias de tu casa.
No te conoce el niño ni la tarde
porque te has muerto para siempre.
No te conoce el lomo de la piedra,
ni el raso negro donde te destrozas.
No te conoce tu recuerdo mudo
porque te has muerto para siempre.
El Otoño vendrá con caracolas,
uva de niebla y montes agrupados,
pero nadie querrá mirar tus ojos
porque te has muerto para siempre.
Porque te has muerto para siempre,
como todos los muertos de la Tierra,
como todos los muertos que se olvidan
en un montón de perros apagados.
No te conoce nadie. No. Pero yo te canto.
Yo canto para luego tu perfil y tu gracia.
La madurez insigne de tu conocimiento.
Tu apetencia de muerte y el gusto de
su boca.
La tristeza que tuvo tu valiente alegría.
Tardará mucho tiempo en nacer,
si es que nace,
un andaluz tan claro, tan rico de aventura.
Yo canto su elegancia con palabras que
gimen
y recuerdo una brisa triste por los
olivos.
Di
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