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Carlo Lavagna: "Nel corpo di Arianna il rapporto tra identità e potere" da cinecittànews

Post n°12551 pubblicato il 07 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Michela Greco04/09/2015
Il film, alle Giornate degli Autori, sarà in sala il 24 con Istituto Luce-Cinecittà
VENEZIA – "Sono sempre stato attratto da ciò che non si riesce a definire, e l'ermafroditismo coglie in flagrante proprio questo territorio di mezzo e ci permette di interrogarci sul rapporto che intercorre tra normalità e potere". Così Carlo Lavagna, regista e produttore di documentari, spot e corti, presenta il suo esordio nel lungometraggio di finzione Arianna, al Lido nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori. Un'opera su un tema insolito ma molto attuale, che fotografa una ragazzina adolescente nel momento in cui scopre la sua vera identità sessuale. La Arianna del titolo, interpretata dalla debuttante Ondina Quadri (figlia del montatore e regista Jacopo), è una diciannovenne acerba dagli occhi di ghiaccio che si ritrova sola nel casale di infanzia sul lago e ne approfitta per esplorare il suo corpo e la sua sessualità, scoprendo qualcosa che i genitori (Massimo Popolizio e Valentina Carnelutti) hanno scelto per lei quando era troppo piccola per ricordarsene. Prodotto da Ring Film con Rai Cinema e in associazione con Ang Film, Asmara Films ed Essentia, Arianna sarà distribuito da Istituto Luce-Cinecittà dal 24 settembre

Lavagna, come mai ha scelto questo tema e questo modo di affrontarlo? 
Tutto è partito da una reminiscenza di quando ero piccolissimo, avrò avuto 10 anni: facevo spesso il sogno di essere donna e questo naturalmente mi confondeva. Più tardi mi ha indotto a pormi delle domande esistenziali che avevano in sé delle sfumature erotiche e identitarie, domande che mi sono portato dietro tutta la vita. Quando da adulto sono andato a vivere negli Stati Uniti sono venuto in contatto con un'associazione di intersessuali e ho trovato tutto talmente interessante da volerci fare un documentario, che poi negli anni e dopo mille elaborazioni è diventato un film. 

La scelta della protagonista è stata decisiva, come è avvenuta?
 
Ero in cerca dell'attrice quando qualcuno mi ha suggerito di prendere in considerazione Ondina, che è figlia del mio amico Jacopo Quadri. Quando l'ho vista ho pensato subito che fosse la ragazza giusta, anche se rimuginavo sull'opportunità di limare in lei alcuni atteggiamenti. Immaginavo di dover prendere una ragazza e di doverla accompagnare verso una trasformazione, verso l'ambiguità, invece con Ondina ho dovuto fare l'inverso, visti i suoi modi un po' mascolini. Alla fine Ondina si è fusa con la ricerca di femminilità. 

L'attrice è stata molto coraggiosa, ci sono scene delicate di nudo nel film, come le avete affrontate? 
Ero un po' inquieto su questo, e prima di girare ho detto chiaramente a Ondina che sarebbe stato necessario che si esponesse perché nel film la nudità aveva un ruolo determinante, non era una pruderie... ma ho subito capito che non c'era bisogno che mi preoccupassi, mi ha risposto semplicemente "E che problema c'è?".

Arianna affronta anche il modo che ha la società di confrontarsi con gli ermafroditi...
Sì, anche se spero che parlando di questo tema specifico si riesca a comunicare anche altro, ovvero la necessità di essere liberi di cercare la propria vera identità e di sfuggire alle definizioni. Ma in effetti c'è un discorso sul potere e sul modo pratico in cui storicamente sono stati affrontati questi casi. Spesso l'atteggiamento dei medici non è adeguato, vedono l'ermafroditismo come un problema fisico di chi deve correggere qualcosa sul suo corpo, e se poi si aggiungono altri significati di ordine morale ci sono ripercussioni anche sulla struttura sociale. Se ad esempio la Chiesa diceva che queste persone devono essere messe al rogo o uccise, si aveva di fronte un pericolo chiaro da cui si poteva sfuggire, oggi invece dalla chirurgia estetica che viene fatta "per il tuo bene" non puoi difenderti.

 
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Amos Gitai: con l'uccisione di Rabin finì il processo di pace

Post n°12550 pubblicato il 07 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Stefano Stefanutto Rosa07/09/2015
Rabin, The Last Day (in Concorso) ricostruisce l'assassinio e il clima di violenza in cui maturò. "Aveva capito che Israele è anche la terra dei palestinesi e va trovata una convivenza tra i popoli"
VENEZIA. Prima di iniziare l’incontro con la stampa, Amos Gitai chiede a tutti i giornalisti di alzarsi e di rispettare un minuto di silenzio per l’ultima vittima e le tantissime altre del conflitto israelo-palestinese. Quella guerra che Yitzhak Rabin, il premier laburista, aveva caparbiamente provato a disinnescare, imboccando con gli Accordi Oslo la via della pace e della convivenza tra due popoli, dando vita sia all’Autorità Nazionale Palestinese e al suo controllo su parti della Striscia di Gaza e in Cisgiordania, sia alla rinuncia della violenza e al riconoscimento ufficiale di Israele da parte di Yasser Arafat.
A 20 anni dall’uccisione del Premio Nobel per la pace, il 4 novembre 1995, Gitai con Rabin, The Last Day(in Concorso), film politico essenziale, senza sbavature e potente, ci dà un’interpretazione documentata di quel tragico evento, a partire dai documenti originali della Commissione d’inchiesta. Ci aiuta anche a comprendere i rischi che corre la società laica israeliana con il diffondersi di violenti movimenti religiosi ortodossi, e quale sia l’unica pace possibile.

Un’inchiesta approfondita, lunga due ore mezza, sull’assassinio di Rabin, che si compone di materiali di repertorio (l’ultimo  comizio di Rabin e l’attentato, le interviste a Simon Peres e alla vedova Rabin, le contestazioni alla Knesset, gli incidenti con i coloni, le manifestazioni contro gli accordi di Oslo) e parti di finzione (il lavoro della Commissione d’inchiesta, la riunione del gruppo religioso estremista, l’interrogatorio dell’assassino, il 25enne Yigal Amir).
Un atto d’accusa a quella parte del Paese che si nutre delle teorie dei gruppi religiosi oltranzisti e dei leader politici di destra. Soprattutto l’affondo è nei confronti dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, esponente del partito conservatore Likud e principale rappresentante dell'ala nazionalista, che ha ricoperto una prima volta l’incarico di primo ministro 8 mesi dopo l’uccisione di Rabin ed è tuttora alla guida di Israele, con l’appoggio decisivo delle formazioni ultraortodosse, dopo le elezioni del maggio 2015 e con l’impegno che “uno Stato palestinese non nascerà mai”.

Lei Gitai ha conosciuto Rabin?
L’ho intervistato  e conosciuto a Gerusalemme, un uomo sincero anche duro, che parlava in modo diretto. Ai suoi funerali i confini si sono fusi, tutti i leader medio-orientali sono venuti a Gerusalemme, non a Tel Aviv. Rabin aveva capito che Israele è anche la terra dei palestinesi e che va trovato un modus vivendi, una convivenza tra i due popoli. Certo non tutte le persone in Medio Oriente hanno buone intenzioni, ma Rabin era sincero. 10 anni prima che Sharon si ritirasse dalla Striscia di Gaza, Rabin affermava, nell’intervista ripresa dal film, che non si può fare la pace in modo unilaterale, ma di considerare gli altri, i palestinesi, con i loro problemi.

Il finale del suo film ci dice che l’uccisione di Rabin è stato lo spartiacque per la storia del suo paese.
Le ultime battute recitate dal giudice sono la parte conclusiva della relazione della Commissione d’inchiesta Shamgar che aveva comunque un mandato limitato: quello di verificare i fallimenti operativi e organizzativi nei sistemi di sicurezza che vigilavano sulla persona di Rabin. Tuttavia in una mezza pagina si fa riferimento al fatto che quelle pallottole hanno cambiato il destino di Israele. Non è un caso che oggi stiamo toccando il fondo.

Perché non ha funzionato il sistema di sicurezza a protezione della persona di Rabin?
Non saprei. Oliver Stone nel suo film sull’uccisione del presidente Kennedy avanza l’idea del complotto. Non credo che questo valga per la morte di Rabin, non parlerei di cospirazione. Piuttosto del proposito di destabilizzare un leader eletto democraticamente, una persona integra, con una campagna d’aggressione nei suoi confronti.

Il film non ci dice che fine ha fatto l’assassino di Rabin, come mai?
Non ho messo al centro Yigal Amir, per non farne un mito, è stato solo uno strumento di quella campagna messa in piedi contro Rabin da altri. Lo stato israeliano è stata pietoso con lui, lo ha trattato con tenerezza, ha avuto un figlio e tra 5 anni verrà rilasciato.

Come è riuscito a conciliare il materiale d’archivio con quello di finzione?
Non è stata una sfida facile, la difficoltà era proprio come trattare questo materiale esistente. Rabin aveva una sorta di aura, di carisma. Abitava in un appartamento modesto, di 90 metri quadrati, era una persona correlata alla sua dimensione di primo ministro di un paese fragile. E’ al tempo stesso il centro e il buco nero della mia pellicola.

Il film si conclude in modo emblematico al presente, con i manifesti di Netanyahu alle ultime elezioni del marzo 2015, da lui vinte.
Il film oscilla tra il passato e l’oggi, c’è una connessione tra queste due fasi storiche, ed è stata una sfida complessa. Prima ci siamo concentrati sui documenti esistenti e poi sulla parte di finzione.

Fa un certo effetto vedere sui tavoli le armi accanto ai testi sacri religiosi sui tavoli degli insediamenti dei coloni israeliani.
Eppure Israele è il risultato di un progetto politico, non certo religioso. E’ la conclusione di un lunga vicenda storica che, dopo secoli di sofferenza per gli ebrei, ha portato alla nascita di un piccolo stato. Un progetto che deve accomodare la realtà e i politici a questo si devono attenere, rendendo stabile la presenza di Israele, riconoscendo gli altri, non ignorandoli. A differenza del progetto religioso che scivola nel delirio e nel fanatismo.

Anche questa volta, come nei suoi precedenti film, ha coinvolto gli interpreti nella fase di sceneggiatura?
Si tratta di un’opera più ristretta, nella quale volevo attenermi ai fatti. Non ho concesso ai miei fantastici attori quella libertà o possibilità di improvvisare. Certo li ho considerati persone che possono avere opinioni diverse dalla mia. Il cinema è come l’architettura non si può fare da soli, è il risultato di un lavoro collettivo.

Dal film emerge l’immagine di una società israeliana divisa, quasi a rischio di guerra civile. Non c’è questo pericolo?Semmai l’aspetto più preoccupante è lo slittamento dei diritti civili, del rispetto delle donne. Israele rischia oggi di ghettizzarsi, di chiudersi al mondo e ci sono forze sociali e politiche che spingono in questa direzione.

Alla fine che paese è Israele?
Un paese schizofrenico come l’Italia. Voi vi siete liberati di un uomo politico kitsch e corrotto, ma vi sono anche italiani sofisticati e intelligenti. Così da noi troviamo israeliani brutali e volgari e persone di cultura e impegnate. Non dimentichiamoci che quel vostro ex presidente del Consiglio e l’attuale nostro erano amici.

Lei come vede il futuro del suo paese?
Non rivelo un mistero, dicendo che non viviamo un bel momento. La cultura, il cinema devono parlare a voce alta, certo non cambieremo la realtà come tragicamente una pistola è riuscita a fare. Ma questo è il compito di noi artisti.

 
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Ascanio Celestini: "In Viva la sposa un'umanità che vive ai margini e rivendica il suo posto"

Post n°12549 pubblicato il 07 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Michela Greco06/09/2015
Interpretato dal regista con Salvatore Striano e Alba Rohrwacher, Viva la sposa è alle Giornate degli autori
VENEZIA - "Come sono contento ora di essere diventato un burattino di legno", dice Nicola/Ascanio Celestini, novello Pinocchio, all'inizio di Viva la sposa, favola di un'umanità sospesa che si muove tra le strade e i bar delQuadraro, a Roma. Interpretato dal regista con Salvatore StrianoAlba Rohrwacher e Veronica Cruciani, il film arriva alle Giornate degli Autori cinque anni dopo l'esperienza in concorso di Celestini alla Mostra con La pecora nera, ed è prodotto, tra gli altri, dai fratelli Dardenne

Il protagonista Nicola è un teatrante senza molti ingaggi che passa le giornate tra una sambuca e l'altra e un giorno si imbatte in Sasà (Salvatore Striano), che campa truffando le assicurazioni con finti incidenti. Inaspettatamente tra i due si crea un legame, che finirà per coinvolgere anche la prostituta Anna (Veronica Cruciani) e suo figlio Salvatore, e in qualche modo anche Sofia (Alba Rohrwacher), presenza/assenza nella vita di Nicola, mentre di tanto in tanto compare, come una visione, un'americana vestita da sposa (Mimmi Gunnarsson). Con il suo sguardo trasognato, Celestini mette in scena un'umanità che vive ai margini e che sembra destinata a subire, così come subisce Sasà quando viene arrestato e ammazzato di botte in questura. Una scena che ha scatenato le ire del sindacato di polizia Coisp, che qualche giorno fa ha diffuso una lettera piuttosto aggressiva contro il film di Celestini, che uscirà nelle sale con Parthènos.


Ha fatto molto rumore la lettera che le hanno mandato gli agenti del sindacato di polizia Coisp, attaccando il film per la scena della polizia violenta. Come risponde?
Mi hanno accusato di parlare degli assassini e non delle vittime, tutto questo perché avevo fatto delle letture su un ragazzino di 16 anni, Davide Bifolco, ucciso dai carabinieri al rione Traiano. Ma io non ho fatto un lavoro di inchiesta, ho registrato le voci del padre e della madre che mi parlavano di questo ragazzino da vivo, che non ha potuto diventare grande. C'è un destino che incombe su chi abita in luoghi dove si ingaggia una guerra tra fazioni, tra le quali a volte c'è anche lo Stato che, a rione Traiano è nelle vesti di un carabiniere che tira fuori la pistola... cosa che non succederebbe ai Parioli a Roma. Ma perché un ragazzino che non ha commesso reati ai Parioli torna a casa e al rione Traiano muore? Ho cercato le storie di queste persone quando erano vive per raccontare che facevano una vita normale. Giuseppe Uva faceva il muratore e aveva dei barboni per amici. Certo, viveva in modo marginale, ma possibile che non ci sia posto per uno che vive col suo bicchiere di vino alla stazione e non ti chiede nulla? Ho cercato di raccontare quella storia per dire che sono tutti esseri umani.

Come mai sono passati 5 anni dal suo precedente film?
In questi 5 anni ho scritto due libri e debuttato con due spettacoli teatrali, più uno in Francia e Belgio. Tra tutti gli impegni c'è stata l'elaborazione e la scrittura di questo film e l'iter per la produzione del film, che non è stato semplice e ha guardato fuori dai confini, in Francia e Belgio”.

Infatti tra i produttori ci sono i fratelli Dardenne, com'è andata?

Li avevo già contattati per La pecora nera ma era troppo tardi perché potessero entrare in produzione. Stavolta mi sono mosso prima e ho mandato la sceneggiatura per tempo, sapendo che conoscono alcune mie cose teatrali, visto che ho lavorato molto in Belgio e nel 2013 ho persino vinto il premio per il miglior spettacolo belga con un testo che ha debuttato a Liegi, la loro città. Loro due, però, non li conosco personalmente.

So che le storie del film sono nate dall'osservazione nei luoghi stessi in cui è ambientato...
Ho girato per il Quadraro in cerca di un luogo credibile, di elementi concreti intorno a cui costruire una storia. È stato un lavoro di ricerca sul campo per reperire storie e spunti che so che potrebbero sembrare surreali, ma che invece riguardano una realtà che, semplicemente, conosciamo poco. Io la conosco un po' meglio perché mio papà era del Quadraro e io abito a Morena, poco distante fuori città, e nei miei lunghi viaggi tra metro e bus, con relative pause nei bar, mi capita di ascoltare frammenti di conversazione che mi ispirano, oppure di vedere quel mondo in cui le persone sopravvivono con le piccole truffe.

Quindi è ispirato anche a episodi reali?
Quello che muore all'inizio del mio film è ispirato a un signore che morì nel mio quartiere quando ero ragazzo: girava in bici e aveva fatto talmente tanti incidenti per far campare la famiglia con le truffe alle assicurazioni che ormai era tutto ricucito, sembrava Frankenstein, e noi ci stupivamo sempre che fosse ancora vivo. Infatti poi è morto. Sono suggerimenti narrativi, a una persona che scrive non basta l'immaginazione per creare cose così.

Al centro di tutto però c'è il suo personaggio Nicola, un burattino di legno...
Il mio Nicola è come Pinocchio, un bambino che raramente ha paura e a cui non propongono di farlo mangiare senza prima farlo lavorare, ma è un bambino. Un bambino che non essendo nato non ha nemmeno i documenti. Mi hanno raccontato tempo fa la storia di un bambino di 9 anni 
arrivato sui barconi a Lampedusa che, pur conoscendo pochissimo l'italiano, è scappato da un centro e ha chiamato un'operatrice per dire che era arrivato da solo a Milano e voleva andare in Svezia. Questo è Pinocchio: un personaggio senza paura. Certi personaggi non pensano nemmeno di avere un destino, ma se non si interrogano sul destino, gli si può rivoltare contro.

Come ha composto il puzzle del cast?
Ho conosciuto Salvatore Striano perché l'ho visto in uno spettacolo in carcere, dove poi sono tornato per vedere il film dei fratelli Taviani. È stata una bella emozione perché era la prima proiezione che facevano a Rebibbia, con i detenuti che all'inizio ridevano ma poi sono rimasti in silenzio fino alla fine. L'ho scelto perché è un bravissimo attore, sa avere una recitazione forte ma che resta sempre nei margini della credibilità, e ha una voglia straordinaria di lavorare. Poi c'è Alba Rohrwacher, che ho conosciuto diversi anni fa grazie a Veronica Cruciani, anche lei nel cast del mio film, quando era appena uscita dal Centro Sperimentale e non aveva ancora mai fatto cinema.

La sposa che ogni tanto appare al Quadraro è la nostra illusione? Un'illusione evanescente?
Per me la sposa è una delle parti del film per cui ognuno trova la sua spiegazione. Un film non è un problema di matematica che può essere risolto in un solo modo, anzi credo che lo spettatore abbia bisogno di trovare da solo delle soluzioni. Per me quella sposa significa tante cose, ma non penso sia interessante che le dica io.

Come sta vivendo questo ritorno a Venezia, un "palcoscenico" comunque complicato?
Ho fatto il mio film, c'è poca differenza tra l'essere qui e il non esserci, secondo me, tranne per il fatto che qui posso incontrare delle persone e spiegare per quale motivo sono arrivato a questo punto. Ma è il film che conta. 

 
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Eddie Redmayne, omaggio alla prima transgender

Post n°12548 pubblicato il 07 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Cristiana Paternò05/09/2015
VENEZIA - C'è persino un glossario nei materiali stampa diThe Danish Girl, dove scopriamo la terminologia più appropriata per parlare della "transizione". Ad esempio l'intervento chirurgico è preferibile chiamarlo "riassegnazione sessuale" o "gender confirmation" piuttosto che cambio di sesso. E questa estrema delicatezza, questo rispetto assoluto, percorre tutto il film di Tom Hooper. Che riesce nel difficile compito di restituire, con linguaggio mainstream, la complessità psicologica e il dramma interiore di chi si sente nato in un corpo diverso rispetto alla sua identità sessuale profonda, una donna in un corpo maschile in questo caso. A maggior ragione nella seconda metà degli anni '20, pur nell'evoluta Danimarca. Il film, in concorso a Venezia 72, accolto molto bene dai giornalisti, si ispira alla storia vera di Einar Wegener, alias Lili Elbe, pioniera transgender, la prima persona che si sia sottoposta alla chirurgia - ancora del tutto sperimentale - per realizzare il suo sogno di avere un corpo femminile. All'inizio del film vediamo Einar, un pittore danese di paesaggi, assieme alla moglie Gerda, anch'essa pittrice: sono una coppia molto innamorata e complice che cerca di avere un bambino. E sarà proprio Gerda, quasi intuendo la vera natura del compagno, a "liberare" Lili, cominciando a dipingere il marito in abiti femminili. Il percorso sarà lungo e accidentato, fatto di ritrosia e imbarazzo, incomprensione e paure. Einar/Lili sarà anche bollata di schizofrenia dai medici non attrezzati a comprendere i suoi desideri e pronti a definirla un pervertito... 

Naturalmente il film, scritto da Lucinda Coxon, non esisterebbe senza Eddie Redmayne, un interprete dotato di grandi capacità di trasformismo (già messe alla prova nel ruolo dello scienziato Stephen Hawking in La teoria del tutto, che gli è valso l'Oscar). "Mi sembra che Eddie esprima meglio di altri una certa fluidità di genere, ha già recitato in vesti femminili, in Violet, anche se qui ci siamo concentrati più sulla transizione uomo-donna", spiega il regista, anche lui "oscarizzato" per Il discorso del re, a chi gli chiede perché non ha scelto un attore trans. Ma aggiunge: "L'accesso agli attori transgender è d'importanza chiave: nell'industria adesso c'è un problema in questo senso perché è un accesso ancora molto limitato. Credo si possa fare qualcosa di più perché ci sia un'apertura maggiore da questo punto di vista". In The Danish Girl ad esempio compare l'attrice trans Rebecca Hoot nel ruolo "simbolico" dell'infermiera di Lili. 
 
Redmayne, molto bello in vesti femminili, racconta di essere stato folgorato dalla sceneggiatura, "forse la migliore che abbia mai letto, sono rimasto colpito da questa storia d'amore così appassionata e coraggiosa, con Tom abbiamo parlato per anni del progetto, l'idea del trasformarsi non è molto semplice da mettere in pratica. Poter recitare la parte di Lili è stato un sogno che si è realizzato. Ma non credo di aver trasmesso l'estremo coraggio di questa donna". E parla della preparazione al ruolo: "Ho incontrato tante persone nella comunità transgender, la loro gentilezza, il loro sostegno, la loro disponibilità ad aiutarmi nell'affrontare questo percorso è stata straordinaria". L'attore ed ex modello inglese spiega di aver parlato con trans di generazioni diverse proprio per comprendere l'evoluzione. "In quel momento storico non esistevano esperienze precedenti ed è importante capire come il loro percorso si sia evoluto. Ho incontrato una coppia di Los Angeles che stava insieme da quando lei era un uomo, mi ha spiegato che avrebbe dato qualsiasi cosa per vivere vita autentica e quanto sia stato importante che il partner l'abbia sostenuta durante la transizione". 

In questo il personaggio di Gerda (la bravissima attrice svedese Alicia Vikander, vista in Ex machina) è fondamentale al percorso di Lili. "Gerda era una donna all'avanguardia - spiega l'interprete - un'artista, una donna che lavorava, ed è stata in grado di amare qualcuno più di se stessa. La cosa speciale è che il film ci racconta anche come imparare ad amare nuovamente se stessi, questi due personaggi sono antesignani di qualcosa che, ancora oggi, è difficile trovare". The Danish Girl si basa molto sul diario di Lili Elbe, pubblicato proprio da Gerda dopo la sua morte. Per Hooper il nucleo del film "non è la costruzione di una nuova identità ma l'emergere della vera identità. Con Eddie abbiamo parlato sin dall'inizio della necessità di interpretare una donna che piano piano si rivelava: come scoprire questa femminilità latente, in un percorso profondo. Lili ha avuto un coraggio straordinario nel saper ascoltare questa voce di insoddisfazione che la animava". Un percorso che trova il suo spazio attraverso la pittura: "La cosa straordinaria - conclude Hoooper - è come l'emergere di Lili scaturisca attraverso l'arte: attraverso il sentimento condiviso con la sua compagna pittrice riesce a compiere un cammino impensabile per la società e a diventare finalmente se stessa". E un pensiero va anche, sorprendentemente, ai profughi. "Il mio film - dice Hooper - parla dell'inclusione che è resa possibile dall'amore. Noi viviamo in mondo molto diviso, basta vedere cosa succede sulle nostre spiagge con gli sbarchi dei rifugiati e le tante vittime di questo esodo. Allora l'appello contro l'esclusione è più che mai attuale, ma l'unico antidoto all'esclusione è l'amore". 

The Danish Girl, che la giuria di Venezia 72 non potrà ignorare, uscirà in sala il 4 febbraio 2016 distribuito da Universal, giusto giusto nel periodo degli Oscar. 

 
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