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Messaggi del 11/09/2015

 

Valeria Golino: donna napoletana forte e fragile da cinecittànews

Post n°12576 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Stefano Stefanutto Rosa11/09/2015
L'attrice parla del personaggio protagonista assoluto del quarto italiano in Concorso, Per amor vostro di Giuseppe Gaudino, film onirico e a tratti visionario, ricco di inserti grafici
VENEZIA. “Ma a me chi m’aiuta, chi mi dà la forza di andare avanti… Io sto sempre in equilibrio, non voglio più l’equilibrio”. Così dice in due momenti diversi Valeria Golino, cioè Anna, la protagonista assoluta del quarto film italiano in Concorso. L’onirico e a tratti visionario, ricco di inserti grafici e di tanta musica popolare napoletana ma anche delle famose voci del Quartetto Cetra, Per amor vostro di Giuseppe Gaudino, che torna a Venezia dove nel 1997 aveva presentato sempre in Concorso Giro di lune tra terra e mare.
Anna è infatti una donna nel contempo forte e fragile. E’ stata una bambina coraggiosa ma ora che è adulta ha lasciato i sogni, ha accettato che la sua vera natura colorata diventasse tutta in bianco e nero. Il mondo di Napoli che ruota intorno a lei è grigio, tranne il mare, quel mare che ha paura di guardare dalla finestra di casa perché per lei è un oracolo.
Anna per amore dei tre figli, di cui uno sordomuto, non si ribella a un marito violento e coinvolto nella criminalità (Massimiliano Gallo), anzi tenta di non vedere quel che avviene in famiglia. E per amore degli altri accetta di farsi carico di problemi e situazioni insostenibili, come un fratello problematico (Massimo De Matteo) o il collega licenziato (Salvatore Cantalupo). La compensa apparentemente l'insolito lavoro che svolge in uno studio televisivo e che da precario diventa fisso. E’ una suggeritrice apprezzata e professionale che prepara i cosiddetti ‘gobbi’ per una soap opera interpretata da un primo attore, Michele/Adriano Giannini, pieno di sé e galante. Anna ne è affascinata e questo incontro sembrerebbe l’occasione per ritrovare se stessa e liberarsi del marito. 

“Con quel bianco e nero dovevamo raccontare un’emozione, non un fatto vero, perciò stare più sospesi, non concreti anche se poi la concretezza alla fine si vede, un sentimento, qualcosa di impalpabile, tutto è stato utilizzato per dare chiarezza a questa nebulosa”, dice Gaudino. 
Per amor vostro, in sala con le Officine UBU dal 17 settembre, è una storia tutta al femminile “che ha conosciuto varie vicissitudini, che rischiava di non essere realizzato, poi un po’ alla volta una serie di produttori si sono aggregati al progetto e Valeria Golino ha portato un partner francese”, spiega Dario Formisano che ha prodotto il film con Eskimo, insieme con Gaetano Di Vaio di Figli del Bronx, Gaundri, Buena Onda (di Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Viola Prestieri), Bea Production Company, Minerva Pictures Group con Les films de Tournelles, Rai Cinema e MiBAC.

Valeria Golino, Napoli, sua città natale, torna nella ancora una volta nella sua carriera artistica?
Ho girato 2 film importanti in questa città, dove sono cresciuta da bambina, La guerra di Mario e La kryptonite nella borsa, in cui c’era anche Massimiliano Gallo, ma la Napoli di questo film è un’altra Napoli, quella di Gaudino. Sono entrata in un immaginario di cui Napoli si fa veicolo perfetto, perché è una città recipiente dell’immaginazione, può accogliere tutto e il contrario di tutto e te lo rilancia come fosse una palla. Napoli è un luogo estremamente immaginifico tant’è che ogni volta che appare in un film è diversa. La Napoli di Beppe è un girone dantesco, una città brutta, bella, un luogo assolutamente astratto.

Come ha affrontato la scrittura a tratti visionaria di Gaudino?
Le scene visionarie e fantasmagoriche erano descritte nella sceneggiatura. Le ho assorbite mentre giravamo, ma le ho capite appieno una volta girate. L’immaginazione di Beppe è talmente un’altra cosa che solo vedendola sullo schermo te ne rendi conto, come nel caso delle scene dell’autobus con i passeggeri bagnati dall’acqua. Beppe del resto porta a compimento il suo progetto creativo nel montaggio, con un lavoro di costruzione simile a quello di un artigiano.

Non deve essere stato facile interpretare il personaggio di Anna così schiacciata e compressa dalla dura vita quotidiana.
Sono una donna fragile, 'capasciacqua', che però è tante altre cose insieme che convivono e poi esplodono. Anna è una donna buona, che cerca di tenere insieme tutto fino a un certo punto, e che per i figli, con la predilezione per Arturo sordomuto, trova il cambiamento.

Che cosa le ha chiesto Gaudino in scena?
Entrare in quello che noi attori abbiamo denominato “il Beppe pensiero”, non lo si può fare in un solo modo. Di volta in volta come Anna mi ci sono adattata a capire quel che accadeva. Beppe non voleva che noi avessimo dei preconcetti, delle certezze. Sapevo che succedevano tante cose e ho cercato di teorizzare il meno possibile. Mentre ero sul set ero vigile e attenta, ero dentro e anche un po’ fuori il film, ma non sempre capivo quello che stavo facendo. E ora col senno di poi credo che sia stato meglio così.

Insomma è stato un film impegnativo?
Abbiamo avuto il grande privilegio come attori di girare in sequenza, ma all’interno di questo ordine degli eventi il regista scompaginava tutto. Appena c’erano delle certezze lui subito arrivava con i dubbi.

Come è stato apprendere la lingua dei segni?
Quando impari una lingua, un dialetto o la lingua dei segni quello che conta non è impararla bene in assoluto, ma apprenderla in modo giusto per il personaggio. Il personaggio di Anna vive un rapporto privilegiato con il figlio, perciò volevo imparare a fondo la lingua dei segni, ma è talmente ricca che alla fine ho cercato di impararla abbastanza  per far sembrare che io madre l’avevo imparata per amore. 

Una lingua che è estenuante ricerca di comunicazione con il figlio.
Perciò volevo che fosse soprattutto emotiva, anche per aggiungere al mio personaggio e al film un’atmosfera che quella lingua contiene. Per un attore avere la possibilità di sospendere la parola, di recitare solo con i gesti e le espressioni del viso è un’occasione in più. 

Che cosa le ha dato il suo personaggio?
Livide e mazzate (ride) se penso al rapporto con il marito/Massimiliano Gallo. Se avessi risposto 2 o 3 mesi fa avrei risposto che Anna mi aveva reso molto fragile perché ero scontenta di me, mi sembrava di non aver dato al regista quello che avrei voluto. Ora invece provo vera contentezza di far vedere questo film che abbiamo girato contro tutto e tutti. Questo team di persone si è impegnato a realizzare il progetto nonostante le tante porte chiuse trovate, a cominciare dalle location.

Che cosa c’è di Valeria nel personaggio di Anna?
Quando il personaggio che interpreti è così complesso e contraddittorio è inevitabile portare qualcosa di tuo. Accade che cominci ad essere tutte e due, ma ti accorgi delle aderenza tra te e Anna solo strada facendo.

Ha dato la sua adesione alla marcia delle donne e degli uomini scalzi in solidarietà con i migranti?
Abbiamo aderito tutti, sono stata anche fotografata senza scarpe. Purtroppo non potrò esserci fisicamente perché oggi impegnata con il film.

 
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Gianluca e Massimiliano De Serio: echi di una comunità cancellata

Post n°12575 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Andrea Guglielmino11/09/2015
Fuori Concorso a Venezia 72 'I ricordi del fiume' di Gianluca e Massimiliano De Serio, un documentario sul Platz, la più grande baraccopoli d’Europa in cui vivevano oltre mille persone.
E’ situata sugli argini del fiume Stura, a Torino. Un dedalo di legno, lamiere, baracche, ma anche chiese, bar e luoghi d’aggregazione che sorge su una montagna di immondizia, e continuerà a vivere nel film dopo che il percorso di sgombero finanziato da fondi pubblici e gestito da una cordata di realtà territoriali avrà cancellato per sempre l’intero insediamento. Un coro di voci che i due autori hanno cercato di mantenere più spontanee possibile, lavorando sulla fiducia e sulla prospettiva di memoria. 

Come avete pensato a questo progetto e perché avete scelto di trattare proprio questo tema? 

 Il Platz sorge a duecento metri da casa nostra, e avevamo già girato lì alcune scene del nostro film di fiction, Sette opere di misericordia. Abbiamo sentito la necessità di oltrepassare la boscaglia della baraccopoli, e dopo aver conosciuto alcuni abitanti del posto ci siamo resi conto che stava diventando un simbolo di una realtà con grande rilevanza mediatica, politica e anche elettorale. A febbraio 2014 stava per partire il grande progetto di demolizione che avrebbe cancellato la baraccopoli per sempre. Appena ricevuta questa notizia il desiderio di affrontare quella realtà si è fatto urgente. 

Con che metodo avete lavorato? Come siete riusciti a mantenere la naturalezza delle reazioni dei vostri interlocutori davanti alla telecamera? 


Abbiamo chiaramente lavorato di anticipo, c’è stato un primo approccio molto semplice, se vogliamo. Siamo andati lì di sera, con le telecamere e i microfoni, e una troupe di quattro persone, e abbiamo detto “vediamo cosa succede”. Ci siamo presentati spiegando alla comunità che eravamo lì per fare un film, insomma la sincerità è stata una carta vincente. Hanno capito che non eravamo giornalisti in cerca di scoop, una tv,  o chissà cos’altro. E il fatto che ci fossimo introdotti di sera per loro è stato un segno di fiducia, dato che spesso sono evitati, temuti, visti male. E questa fiducia ce l’hanno restituita. Gli abbiamo detto: vogliamo restituire dei frammenti delle vostre vite. Tra poco questo luogo non ci sarà più e vorremmo che fosse ricordato, da voi e da chi vedrà il film. La spontaneità fa parte del nostro metodo, anche nell’autorappresentazione. E’ chiaro che chiunque di fronte a una camera tende ad autorappresentarsi. Noi siamo diventati presto invisibili, senza però l’illusione dell’invisibilità. 

Quanto ci è voluto per realizzare il tutto? 

Quasi due anni, è stato un processo lungo. Abbiamo dovuto approcciarci a loro che non hanno una grande conoscenza, o comunque ce l’hanno molto mediata, della propaganda elettorale che li riguarda, dell’immagine e delle parole che si applicano a loro all’esterno. Non è solo un campo Rom, il Platz, ma una vera baraccopoli. Ci abitano rumeni, moldavi e anche italiani, tutti molto poveri. 

Quanti, in tutto?   

C’erano censite milleduecento persone, con tutti i dubbi del caso, tra nascite, morti e partenze. Tra l’altro erano persone che avevamo incontrato più volte nel nostro quartiere, con passeggini o carrette piene di oggetti e vestiti, materassi ed elettrodomestici, camminando lungo lo Stura. Sappiamo che presto diventerà un luogo di fantasmi, quindi abbiamo sentito l’esigenza di valicare il limite e iniziare a comunicarci. 

Com’è la situazione, attualmente? 

Fino a dieci giorni fa c’erano rimaste una ventina di baracche. C’è stato un incendio che ne ha distrutte alcune. Con una ripresa a volo d’uccello ora vedremmo solo detriti e assi spaccate con qualche nastro arancione. La zona è quasi completamente distrutte. Il problema è che ci sono ancora molte persone che abitavano lì che non sanno cosa fare, perché non sono risultate beneficiarie di una casa. 

L’amministrazione ha provato ad affrontare il problema? 

Delle famiglie sono state rimpatriate in Romania, e alcune – non tutte – hanno beneficiato di un aiuto economico. Le abbiamo seguite e siamo stati in Romania, per una nostra esigenza di completezza, ma abbiamo deciso di non inserire queste immagini nel film. Ci sono quasi 260 ore di girato complessivo. Potremmo farne un altro film. Altre famiglie sono state messe in casa con un accomodamento sociale e un affitto minimo, che dovrebbe poi man mano andare a scemare man mano che si rendono autonome, ma molte non ce la fanno e il loro destino resta comunque precario, perchP hanno casa ma non lavorano e vivono ancora di elemosina. 

Qual è stato il criterio del censimento? Come hanno scelto? 

Si è lavorato nell’emergenza, per far colpo sull’opinione pubblica. La convivenza era certamente difficile, il luogo era inquinato con questi continui fuochi notturni e la popolazione del quartiere mal sopportava questo ‘buco nero’ nella città. Inoltre il terreno era in mano a privati. Il tutto è stato giustificato dalle autorità come una necessità di bonifica del terreno. Naturalmente c’è anche una questione politica. L’obiettivo è ‘superare il campo rom’, ma non lo puoi fare in un anno. E’ impossibile in un lasso di tempo così breve risolvere la situazione di millecinquecento persone in stato di totale indigenza. Anche il censimento è stato fatto in due giorni. Molti in quel momento non erano presenti, e sono stati esclusi anche se avevano bambini in età scolastica o persone anziane e malate a carico. Sono rientrati e hanno trovato il caos. In più l’operazione è stata comunicata in maniera estremamente frettolosa e frammentaria. 

C’è un che di etno-antropologico nel modo accurato in cui raccogliete le testimonianze, anche dal punto di vista musicale. I canti, le preghiere… 

E’ una comunità molto musicale e non solo per la presenza di molti musicisti. Anche di valore, tra l’altro. C’era un anziano che aveva una tessera di riconoscimento come musicista tradizionale, non fosse stato rom magari avrebbe pubblicato dei dischi. E comunque come ha detto lei anche i canti religiosi, la musica diegetica, e poi radio, tv e telefonini. Si esprimono molto con le note. Abbiamo anche partecipato a delle loro feste e ballato con loro.

Cos’altro avete imparato, di loro? 

Che in realtà la comunità sono molte comunità. C’è stress nella baraccopoli e situazioni diverse tra loro. Ci sono i più tradizionali e le schegge impazzite, in cerca di fortuna. Chiaramente c’è una lontananza culturale tra la nostra società e la loro, diventano facilmente un capro espiatorio in un contesto fragile come il nostro. Su questo gioca tantissimo una cattiva politica che invece di farsi portatrice di progresso e umanità alimenta questa distanza. Noi cerchiamo di creare un ponte, anche se fragile e sbilenco. Come le assi di legno che separano la città dalla baraccopoli. Il lavoro andrebbe fatto a lungo termine, non parlando alla pancia e nemmeno alla testa delle persone, ma all’anima e al cuore. Invece per ragioni elettorali che vanno come il vento si cavalca la paura. Ci sono anche secoli e secoli di discriminazioni alle spalle e ci vorrebbero altrettanti secoli per poterle sanare. Certo la via che si sta scegliendo non è la migliore. Pensiamo che il nostro mestiere possa essere utile, contribuendo a invertire la rotta. 

Su quali punti si potrebbe fare leva? 

Guardate il film. Ci sono gesti, discorsi e parole che parlano di argomenti universali: la vita, la morte, l’amore, ma anche cose più terrene come il cibo e il nutrimento. Sono problemi che appartengono a tutti. Lì possiamo trovarci e ritrovarci. Senza la pretesa di un’identificazione narrativa classica. Lo sguardo dei loro bambini è lo stesso dei nostri. 

Il documentario ha una durata considerevole. 140 minuti. Puntate alla sala? 

Sì, forse dovremo anche asciugarlo. Uscirà a gennaio 2016. Sicuramente faremo una proiezione a Torino per i protagonisti, alcuni ci chiamano ancora, anche dalla Romania.

 
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Intervista a Paolo Borgognone "Capire la Russia da una nuova prospettiva" da la nuovaprovincia.it

Post n°12574 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Paolo Borgognone

Paolo, a febbraio di quest’anno è uscito il tuo quinto libro, Capire la Russia, dedicato alle correnti di pensiero e alla sociologia politica della Russia postsovietica. Come nasce l’idea di questo volume?
Capire la Russia è il frutto di un lavoro ormai quasi ventennale di studi e ricerche da me intraprese al fine di analizzare la cosiddetta “struttura russa”, o inconscio collettivo dei popoli d’Eurasia, presentando al pubblico italiano ed europeo (il libro è infatti in fase di traduzione in lingua tedesca) la Russia da un punto di vista che ripudia l’eurocentrismo liberaldemocratico dominante. Capire la Russia ha infatti l’ambizione di rappresentare l’immenso Continente-Nazione eurasiatico facendo riferimento a una prospettiva che elude e finanche si scontra con il senso comune della media intellettualità occidentale, totalmente addomesticata al liberalismo postmoderno come religione identitaria obbligatoria delle nuove, quando alienate e “sradicate”, moltitudini globali.

Nel libro, ovviamente, hai dedicato ampio spazio alla figura politica di Vladimir Putin, attuale presidente russo. Come definiresti la cultura politica alla base del sistema di potere nella Russia odierna?
Vladimir Putin e il gruppo dirigente facente capo al partito di governo, o “del potere”, Russia Unita, definiscono il loro agire politico come improntato al conservatorismo e al pragmatismo, al di là e al di fuori degli schemi dicotomici eurocentrici. Personalmente, ho più volte affermato che Russia Unita è un partito politico popolar-patriottico, a vocazione presidenziale, con valori politici di destra e un programma economico “di centro”, liberista per quanto riguarda il settore dell’economia concernente la piccola e media impresa, statalista sul fronte del controllo pubblico dei grandi assets nazionali. 

In Italia i media, generalmente ostili a Putin, tributano ampio spazio all’opposizione liberale al suo governo. Nel libro tu affermi invece che quest’opposizione, in realtà in Russia conta poco…
I liberali filoccidentali in Russia valgono tra l’1 e il 5 per cento dei voti ma sui media generalisti italiani, e occidentali più nel complesso, sono sovraesposti come se rappresentassero veramente una forza politica di massa. Questo perché i liberali “russi” incarnano una sorta di appendice, radicata nei settori cosmopoliti della classe media moscovita e pietroburghese, della forma mentis eurocentrica di cui sopra… Ma la sterminata (e produttiva) provincia russa esprime un tessuto sociale e politico totalmente diverso, improntato al patriottismo e all’attenzione pubblica per i valori della tradizione spirituale cristiano-ortodossa. Naturalmente ho schematizzato un po’ per motivi di spazio, ma sono convinto della validità della tesi dicotomica centro/periferia per indagare le dinamiche socio-politiche interne alla Russia.

Un’ultima domanda. Il tuo libro è stato molto apprezzato e recensito dai giornali e dalle riviste della destra e molto criticato dalla sinistra. Come ti spieghi questo cambio di paradigmi sull’asse destra/sinistra nei confronti della Russia?
La sinistra contemporanea è attardata su posizioni che guardano con favore a un’economia politica cosmopolitica dei “diritti di libertà individuali” mentre la destra “euroscettica” sembra essersi resa conto del fatto che, se si vuole ripristinare un minimo di sovranità, anche culturale, nei confronti dei diktat di Usa e Ue, occorre privilegiare un’economia politica di recupero dei diritti collettivi nazionali. La Russia “sovranista” di Putin, muovendosi in quest’ultima direzione, riscuote maggiore attenzione e consensi a destra, mentre la sinistra guarda con maggior favore al “globalista” Obama.

 
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GEORGE MARTIN HA FATTO UNO SPOILER SULLA LETTERA ROSA?

Post n°12573 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

da isolaillyion.it

di Stefano Marras il 27 agosto 2015
 
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Game of Thrones 6: Cos'è l'Acclamazione di Re dei Greyjoy? (SPOILER)

Post n°12572 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

da melty.it

Sembra ormai chiaro che in Game of Thrones 6 vedremo un momento molto importante per la famiglia Greyjoy, L'Acclamazione di Re. Di cosa si tratta? Leggi gli spoiler.

image: http://media.melty.it/article-2749058-ratio265_640-f1441376044/game-of-thrones-6-greyjoy-acclamazione-di.jpg

Un'immagine evocativa sull'Acclamazione di Re

image:

I Greyjoy rappresenteranno una parte di fondamentale importanza nelle dinamiche di Game of Thrones 6. La famiglia di Theon sarà approfondita in ogni sua parte e anche i fan della serie tv avranno modo di conoscere una famiglia che, nelle dinamiche dei libri di Martin, è stata via via sempre più approfondita. Gli ultimi spoiler dai set di Game of Thrones in Irlanda del Nord ci hanno mostrato parte di alcune scene parecchio importanti che coinvolgeranno le figure più importanti delle Isole di Ferro, con Theon che dovrebbe ricongiungersi molto presto con la sua famiglia. Una scena in particolare ha catturato l'attenzione degli spettatori e acceso l'entusiasmo dei lettori più accaniti. Stiamo parlando della cerimonia di Acclamazione di Re, una tradizione importantissima delle Isole di Ferro che ci verrà mostrata in uno degli episodi della nuova stagione. Di cosa si tratta? Perché Benioff e Weiss ce la mostreranno? Le righe che seguiranno conterranno possibili spoiler sulla prossima stagione. Se non volete sapere nulla su ciò che potrebbe succedere vi invitiamo caldamente a non andare oltre nella lettura. Nella storia dei Sette Regni l'Acclamazione è una tradizione degli abitanti delle Isole di Ferro con la quale si sceglie il re tra i capitani della navi lunghe presenti. Erano cerimonie storicamente molto importanti ma che, con il tempo, sono state abbandonate e si sono perse nella tradizione. L'ultima documentata è arrivata addirittura quattromila anni prima dell'inizio degli eventi delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.

 

La situazione cambierà radicalmente con un evento ben preciso che Martin ha raccontato ne Il Banchetto dei Corvi. Stiamo parlando della morte di Balon Greyjoy, il sovrano del territorio nonché padre di Theon. La sua morte lascerà un vuoto di potere enorme e sarà seguita dal ritorno del pirata Euron Greyjoy dalle sue scorribande nel mare. Questo ritorno, avvenuto un giorno dopo la morte di Balon, farà discutere molti. Per impedire che Euron reclami per se il trono Aeron, fratello minore del sovrano morto, deciderà di correre ai ripari e deciderà di indire una nuova Acclamazione di Re, sperando che questa dia la corona a suo fratello Victarion. Euron però riuscirà a conquistare numerosi sostenitori prima dell'acclamazione e avrà modo di incontrare anche i suoi fratelli e sua nipote Asha, anch'essa decisa a partecipare alla cerimonia. L'uomo racconterà di essere riuscito a catturare degli stregoni di Qarth durante le sue scorribande in giro per il mondo, facendo imbestialire i suoi parenti per le sue idee religiose molto particolari. Quella che Game of Thrones 6 ci mostrerà sarà probabilmente la cerimonia vera e propria cui parteciperanno alcune delle persone più importanti delle Isole di Ferro. Tra loro saranno presenti Lord Gylbert Farwynd, Erik Ironmaker, Lord Dunstan Drumm, Victarion Greyjoy, Asha Greyjoy e lo stesso Euron. Lo svolgimento della cerimonia sarà molto spettacolare e sfarzoso, con i candidati che si presenteranno uno ad uno con i loro doni e le loro promesse e i presenti che, per acclamazione, dovranno scegliere il loro re.

 

Non sappiamo quanto in grande HBO farà le cose con questa cerimonia, ne quanti candidati deciderà di mostrare. Probabile che, come di consueto, venga attuata una certa semplificazione, magari limitando lo scontro ai soli Asha, Euron e Victarion, i tre Greyjoy che faranno parte della cerimonia. Quel che è certo sarà l'esito della contesa, con Euron che conquisterà il parere favorevole delle varia fazioni con promesse importantissime e davvero incredibili. Durante la cerimonia il pirata farà infatti risuonare il misterioso Corno di Drago, uno strumento che, secondo l'uomo, permette di piegare tutti i draghi al suo volere. Euron racconterà così di aver avuto modo di scoprire dove si trovano tre di queste creature e prometterà a tutti di usarle per conquistare tutto il continente occidentale, prendendo per se Il Trono di Spade e riportando all'antica gloria gli Uomini di Ferro A tutto questo unirà una serie infinita di doni dal valore inestimabile che spingeranno la gente ad acclamarlo ed eleggerlo nuovo re di ferro. Subito dopo la proclamazione Euron inizierà la sua opera di conquista di tutte le Isole di Ferro, piegando al suo volere con la forza e le umiliazioni tutti i suoi nemici. É probabile che la serie ci vada a mostrare anche i momenti successivi alla proclamazione, compresa la missione che vedrà Victarion partire alla ricerca di Daenerys a Meereenper portarla poi in sposa a Euron. Di questi eventi parleremo però in un altra sede. Continuate a seguire melty e la nostra pagina Game of Thrones – Il Trono di Spade Italia per nuove notizie e anticipazioni.


Scopri di più su http://www.melty.it/game-of-thrones-6-cos-e-l-acclamazione-di-re-dei-greyjoy-spoiler-a171349.html#CRvcOLetS7KmlKbe.99

 
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Il Trono di Spade: una nuova teoria legata alle origini di Jon Snow potrebbe cambiare tutto! [POSSIBILI SPOILER]

Post n°12571 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

da bestmovie

Sedetevi e mettetevi comodi, potreste rimanere scioccati!

Luca Ceccotti - 27/08/2015

 

Il Trono di Spade: una nuova teoria legata alle origini di Jon Snow potrebbe cambiare tutto! [POSSIBILI SPOILER]

Molti fan de Il Trono di Spade, l’immensa opera partorita dalla mente di G.R.R. Martin, avevano pensato di aver individuato il bandolo della matassa nella teoria preponderante legata alle vere origini di Jon Snow: Il bastardo Stark, infatti, almeno secondo forum e pagine più informate, appoggiate anche da indizi seminati nei romanzi e dall’importante feedback dei fan, sarebbe il figlio di Rhaegar Targaryen e di Lyanna Stark, sorella di Ned, nato nella Torre della Gioia dove Lyanna aveva trovato la morte. Ma oggi, una nuova, interessante e possibilmente sconvolgente teoria su Jon potrebbe cambiare le sorti della trama.

[POSSIBILI SPOILER!]

Tutto inizia da Lyanna Stark, che avrebbe in realtà partorito due gemelli. Esatto, gemelli!
Come riportato da Redditor ghostchief, infatti, durante la sesta stagione de Il Trono di Spade ci sarà una scena che vedrà il ritorno di un più giovane Ned al fianco della sorella morente, durante la quale, dopo una straziante promessa, si sentirà il vagito di un’altra bambina ai piedi del letto. Sì, avete letto bene: bambina! Che possa trattarsi di Daenerys? Impossibile, dato che il suo background storico narra di una nascita avvenuta durante una grande tempesta. Forse un personaggio non ancora introdotto? Potrebbe anche essere, se non fosse che c’è un’altra ragazza nella serie, già presentata, che si adatta quasi perfettamente a tutti gli standard: stiamo parlando di Meera Reed!

In una sorta di plot twist alla Star Wars (motivo, tra l’altro, di forti dubbi per i fan), Jon Snow e Meera Reed sarebbero stati separati da piccoli, il primo affidato a Ned, mentre la bambina alla Guardia Reale Howland Reed, unici due sopravvissuti agli avvenimenti della Torre della Gioia. Ci sarebbero diverse prove del legame tra i due personaggi, a partire dall’aspetto fisico. Nei romanzi, infatti, Meera è descritta molto mascolina e con capelli folti e ricci, tanto che lo stesso Bran la paragone al fratello. Ma c’è di più, perché anche l’età dei due sarebbe la stessa. Meera, scrive Martin, ha molti più anni di Jojen, e una pagina Wiki de le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco colloca la sua nascita nel 283 A.C., proprio lo stesso anno della morte di Lyanna. Inoltre, nelle appendici del romanzo, Jon e Meera hanno entrambi 15 anni, anche se successivamente l’età di Jon è stata rimossa e quella di Meera aumentata a 16. Perché? Forse per non lasciare importanti indizi?

Infine, gli ultimi, interessanti indizi legati alla parentela dei due avrebbero un connotato storico, ed esattamente legato a Romolo e Remo, gemelli partoriti da Rea Silvia, figlia del re, quando ormai lo zio al potere voleva spazzare via i suoi eredi, abbandonati poi sul fiume e trovati, allattati e cresciuti da una lupa. UNA LUPA! Coincidenze simboliche? Forse, se non fosse che anche un altro particolare della storia salta all’occhio, e cioè il nome di Rea, in inglese Rhea, molto simile a Rhaegar,  figlio del re che vuole proteggere i suoi eredi dalla distruzione da parte di Robert Baratheon.

Teoria assurda o verità nascosta, è certo che uno sviluppo simile potrebbe cambiare radicalmente il corso degli eventi, portando a scoprire che La Prescelta per la terza venuta di Azor Ahai sia proprio Meera e non Jon.

Brace yourself!

 
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Sangue Del Mio Sangue, il ritorno a Bobbio di Marco Bellocchio da cameralook.it

Post n°12570 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

Alla Mostra Venezia oggi è il giorno di Marco Bellocchio che presenta, in Concorso, Sangue Del Mio Sangue, film da lui scritto e diretto, ambientato nella splendida e suggestiva cornice diBobbio. Con questo film, da domani al cinema, Bellocchio ha riunito attorno a sé la sua “famiglia” cinematografica, con cui ha da lungo tempo un sodalizio artistico e umano: Roberto Herlitzka, Pier Giorgio Bellocchio, Lidiya Liberman, Fausto Russo Alesi, Alba Rohrwacher, Federica Fracassi, Alberto Cracco, Bruno Cariello, Toni Bertorelli, Filippo Timi, Elena Bellocchio, Ivan Franek, Patrizia Bettini, Sebastiano Filocamo, Alberto Bellocchio.

Federico (Pier Giorgio Bellocchio), giovane uomo d’armi viene spinto dalla madre a recarsi nella prigione convento di Bobbio dove

suor Benedetta (Lidiya Liberman) è accusata di stregoneria per aver sedotto Fabrizio, fratello gemello di Federico, e averlo indotto a tradire la sua missione sacerdotale. La madre preme affinché Federico riabiliti la memoria del gemello, ma anche lui viene incantato da Benedetta che sarà condannata alla prigione perpetua e murata viva.

Ma Federico, trent’anni dopo, diventato cardinale, incontrerà nuovamente Benedetta, ancora rinchiusa in quelle mura. Ai giorni nostri, bussa a quel portone del convento, trasformato poi in prigione e apparentemente abbandonato, Federico Mai (Alberto Bellocchio), sedicente ispettore del Ministero, accompagnato da Rikalkov (Ivan Franek), un miliardario russo, che lo vorrebbe acquistare

 

In realtà quel luogo è ancora abitato da un misterioso Conte (Roberto Herlitzka) che occupa abusivamente alcune celle dell’antica prigione e che si aggira in città solo di notte.

La presenza dei due forestieri mette in agitazione l’intera comunità di Bobbio che sotto la guida del “Conte” tenta di vivere, grazie a frodi e sotterfugi, ostacolando in ogni modo la modernità che avanza inesorabilmente. Ma il nuovo è migliore del vecchio?

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Marco Bellocchio è tornato a girare nella sua Bobbio, dove ha girato il suo primo film I Pugni in Tasca e dove ogni estate tiene il laboratorio per i giovani “Fare Cinema”. E proprio un’estate, alla ricerca di nuove location, il regista italiano ha scoperto le antiche prigioni di Bobbio.

Luoghi chiusi e abbandonati da molti decenni, che in un remotissimo passato facevano parte del convento di San Colombano. In questo convento-prigione, in questa cittadina della Val Trebbia, luogo cinematografico e dell’anima, tra passato e presente, il regista ha deciso di girare il suo film.

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La storia di Sangue del Mio Sangue è, secondo le parole di Marco Bellocchio: “è così remota nel passato che mi ha suggerito infine un ritorno al presente, all’Italia di oggi, un’Italia paesana garantita e protetta dal sistema consociativo e corruttivo dei partiti e dei sindacati che la globalizzazione sta radicalmente “trasformando”, anche se non si capisce ancora se in meglio o in peggio”.

 
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Immagini e memorie. Per gli ottant’anni di Gian Maria Volontè da altriitaliani.net

Post n°12569 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 
Tag: news, STORIA

domenica 14 aprile 2013 di Anna Maria Panzera

Il 9 aprile Gian Maria Volontè, uno dei più grandi e più generosi attori italiani dell’epoca moderna, avrebbe compiuto ottanta anni. Se ne ando’ mentre nasceva la seconda repubblica. Negli ultimi anni guardava con amarezza più all’estero che all’Italia, dove l’impegno civile e politico andava sparendo. Oggi molti lo rimpiangono, non come un divo o un mito, ma per il suo modo di fare arte e per la sua idea di coscienza artistica. Un italiano, capace di rappresentare il valore alto della storia e in modo militante il bene e il male dell’Italia. Oggi dovrebbe essere ancora qui. Ci manca.

 

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Mi sarei aspettata di più. Forse devono passare per forza cento anni dalla morte o dalla nascita di qualcuno che è stato un “grande”, perché valga la pena di ricordarlo. O forse certe memorie devono rimanere sopite, perché emergendo specchierebbero troppo lucidamente la quantità enorme di impegno e di valore il cui invito abbiamo ormai pressoché definitivamente declinato. Certo è che il 9 aprile appena trascorso Gian Maria Volontè avrebbe compiuto ottant’anni e questa data, che sarebbe stata un bel momento per ricordare il più grande attore italiano dell’epoca moderna, è stata attraversata solo dai lievissimi sussurri dei media, delle televisioni, dei giornali, delle istituzioni: insomma, il solito assordante silenzio. Solo un canale privato ha mandato in onda alcuni tra i film più famosi, la casa di produzione RaroVideo (Minerva Pictures Group) ha presentato a Roma il box Gian Maria Volontè a cura di Bruno Di Marino, e sul web sono corse immagini dell’attore sottotitolate da pensieri privati di “fan” affezionati. Forse qualche altra iniziativa qui e là ci sarà anche stata, ma non ha avuto risonanza. Mi sarei aspettata di più.

 

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Non è certo per dovere di cronaca, che mi accingo a scrivere queste poche parole. Lo faccio, io che non sono una critica cinematografica, né una storica del cinema, tantomeno esperta della settima arte, per l’affetto – se così si può dire – verso un artista che ha accompagnato le mie età giovani nella conoscenza di storie bellissime, che hanno fatto – tra tante altre immagini e sollecitazioni – la mia formazione, la mia “educazione sentimentale”. Penso agli indimenticabili “sceneggiati” RAI in bianco e nero (dalle apparizioni nel Maigret interpretato da Gino Cervi, all’Idiotatratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, all’amatissimo Caravaggio per la regia di Silverio Blasi); e poi i film: impossibile sceglierne uno che li possa rappresentare tutti, perché in ogni pellicola Volontè ha costruito ritratti originali, di grande impatto, di unicità assoluta. Così, per scorrere velocemente i titoli più noti: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, per la regia di Elio Petri (1970); Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), entrambi diretti da Giuliano Montaldo; nei panni impliciti ed espliciti, diversissimi, di Aldo Moro in Todo modo, (regia di Elio Petri, 1976) e in Il caso Moro (regia di Giuseppe Ferrara,1986).

Maestro universalmente riconosciuto. Uomo capace di fondere indissolubilmente il lavoro con l’impegno civile e politico. Pensatore coerentissimo fino all’esasperazione. Avrebbe dovuto irrompere e stabilirsi sulla scena artistica nazionale ed internazionale con forza ben maggiore di quanto non sia successo durante la sua carriera. Invece, a fronte di queste interpretazioni magistrali, intrise di passionalità, dedizione, professionalità, colpi di genio, a mano a mano che gli anni passavano, Volontè ha trovato uno spazio sempre più ristretto ed infine asfittico nel cinema italiano, tanto da essere indotto a lavorare per produzioni e registi stranieri, come dimostra l’ultima apparizione nell’occhio della cinepresa di Theo Angelopoulos per la realizzazione di Lo sguardo di Ulisse.
Il suo amico Giuliano Montaldo mi ha confidato che anche allora, quando era ormai stanco, affaticato sia per la salute malferma, che per l’amarezza che lo assaliva nel constatare su quali strade si stesse avviando la storia del suo paese e dell’Europa intera (era il 1994, pesava forte – e pesa tuttora – l’eredità della politica thatcheriana e reaganiana, che l’Italia raccoglieva dando alla luce il primo governo Berlusconi), Volontè non si risparmiava. Sul set del regista greco faticava come gli attori più giovani, rifiutando controfigure e i più innocenti accorgimenti pratici; come nella scena della fuga tra i disastri dell’assedio di Sarajevo, dove, affiancato da Harvey Keitel, corre portando una pesante tanica di plastica, piena: inciampa, cade, parla con un affanno che forse non è recitazione. Ogni volta che riguardo quello spezzone, mi viene da pensare alla caduta di Anna Magnani nella famosa scena di Roma città aperta: di solito un ruzzolone vero in una finzione cinematografica sembra perfettamente funzionale, si sorride per l’insperata buona riuscita; quello di quei due grandi è un tuffo al cuore.

 

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Volontè interpretando Caravaggio

 

Non ho gli strumenti per fare una critica approfondita della capacità attoriale di Gian Maria Volontè. Posso solo dire di essere stata innamorata di lui da sempre. L’ho “incontrato” nuovamente di recente, rivedendo più volte la pellicola del Giordano Bruno e quella del più vecchio Caravaggio, perché su questi due personaggi ho lavorato tanto anch’io e lui, che li aveva interpretati, me li faceva comparire vivi e vitali dinanzi agli occhi, con tutta la loro genialità e le loro contraddizioni. Che forse erano in parte anche le sue. Ma non è di questo che oggi si deve parlare. Mi piace invece pensare a Volontè come maestro delle immagini e attraverso di esse come creatore di un linguaggio, in questo si, davvero vicino e sodale a Caravaggio e a Giordano Bruno! La sua recitazione era il diaframma attraverso il quale la materia/corpo (il suo) diveniva immagine, sfruttando al massimo la funzione e l’effetto del mezzo tecnico (la cinepresa), come fosse uno “specchio moderno” – ancora per rifarsi al lessico dei due antichi – per costruire una forma che era il più profondamente possibile se stessa e “l’altro”.

Se Giordano Bruno e Gian Maria Volontè si fossero conosciuti, il primo avrebbe chiamato il secondo “mago”: perché la sua recitazione era capace di legare, incatenare gli altri in un vincolo virtuoso di conoscenza e riscatto; perché col suo corpo d’attore dava forma alla materia esistenziale «con la varietà infinita delle sue situazioni» [1], riuscendo a far percepire il «ritmo del cambiamento, spiare nella forma che precede le potenzialità della forma successiva» [2]. E si sa, «senza conoscenza e passione, nessuno ha possibilità di legare» [3].

 

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Con Marcello Mastroianni

 

Gian Maria Volontè era un mago che incantava e cui piaceva lasciarsi incantare: gli accadeva ogni volta che un personaggio entrava in lui allacciando ogni parte della sua persona. Rapitore e rapito. Volontè lavorava con metodo, con documentazione capillare sui soggetti e sulle figure da interpretare, operando un sincretismo tutto personale rispetto alle scuole e alle tecniche di recitazione ma sempre ruotando attorno ad un fulcro essenziale: non fare nulla che non fosse in asse col suo sentire più profondo ed umano, con la sua ricerca personale. Tanto che alla fine, come più volte ha ribadito Giuliano Montaldo, i suoi film potrebbero essere letti in sequenza, come un’autobiografia [4]. Insomma, un protagonista etico, come oggi sono pochi. E ci manca.

Anna Maria Panzera

 
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Nido di Vespa da la stampa

Post n°12568 pubblicato il 11 Settembre 2015 da Ladridicinema
 

10/09/2015
MASSIMO GRAMELLINI

Bando ai perbenismi: l’intervista di Bruno Vespa ai Casamonicas, protagonisti del funerale dell’estate, è stato un colpo giornalistico. Sarebbe stata anche una pagina di televisione, se si fosse trattato di un’intervista vera. Invece Vespa ha fatto sedere i due membri incensurati del clan mafioso sulle stesse poltroncine bianche che ogni sera ospitano le terga di politici, criminologi e cantanti. Li ha integrati nella tradizionale messinscena di «Porta a Porta». Un errore clamoroso per un professionista del suo calibro, che sa bene come in televisione il contesto valga molto più del testo. Qualcuno ha trovato scandalosi il tono confidenziale della serata e certi siparietti di umorismo involontario degni di Totò («Siete una famiglia sterminata», «Ma che sterminata, dottor Vespa, siamo tutti vivi!»). Però è inevitabile che, quando il Male accetta di comparire in televisione, lo faccia per esibire una patente di innocenza. Proprio per questo andrebbe raccontato con un linguaggio che ne sottolinei la diversità e ne prenda le distanze. Sostiene Vespa: Enzo Biagi intervistò criminali del calibro di Buscetta e Sindona. Sì, ma come li intervistò? In solitudine. E lontano dalla solita scenografia e dai meccanismi abituali del suo programma, per segnalare allo spettatore l’eccezionalità di quanto stava avvenendo.  

 

Vespa non ha sbagliato a farci sentire la versione dei Casamonicas, ma a metterli comodi nel suo salotto, che poi sarebbe il nostro.  

 
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