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Messaggi del 20/12/2015

Duecento sonetti romaneschi

Duecento sonetti romaneschi

I dialetti, per rispetto alla lingua che dicono illustre, sono come le donne di campagna per rispetto alle signore di città. In queste trovi studio di acconciature, grazia affettata, civetteria, languore, isterismo, belletto; in quelle, nessun ornamento, molta rozzezza, ma vigore, semplicità e colorito naturale. Un mio amico ha scritto che il vero stato dell’amore è il concubinato: perchè a me non sarà lecito dire che la veste più vera e naturale del pensiero è il dialetto? Fra tante, ci può stare anche questa.

Il dialetto romanesco non abbonda di voci originali, come parecchi altri dialetti d’Italia; ma può riguardarsi come una corruzione del toscano, ricchissima di traslati arditi e vivaci, di vocaboli composti alla maniera greca, di modi proverbiali arguti, di similitudini spesso bizzarre, ma sempre efficaci, e finalmente di spropositi che danno luogo ad ambiguità e controsensi ridicolissimi. Pochi barbarismi, e quasi tutti regalo delle invasioni francesi. La maggior parte del metaforico è cavata da analogie di fatti e di persone e di luoghi reali, e perciò si muta cogli anni, a mano a mano che le vecchie metafore cedono il posto alle nuove. E poichè la lingua è sempre lo specchio dell’anima di un popolo, nel vernacolo romanesco si riflette limpidamente il bernoccolo satirico de’ figli di Quirino, e frasi, traslati, proverbi, similitudini, sono epigrammi: tutto il dialetto, starei per dire, è una satira. - Se oggi andate da un vetturino di piazza per contrattare una scarrozzata in campagna, e gli profferite una ricompensa che a lui sembri meschina, vi risponde seriamente: Non pòzzumus! Codesto è traslato e satira ad un tempo. - Ai genitori che si dolgono di un giovine che sedusse la loro figlia, il padre o la madre del seduttore rispondono: Chi nun vô er cane, tienghi la cagna!

Io non mi dimenticherò mai d’un fatto che mi accadde, quando da giovinetto dimoravo a Roma. Passando per una viuzza, m’imbattei in due ragazzi, che si picchiavano maledettamente; sostai per curiosità: la lotta durò un pezzetto indecisa; ma alla fine uno de’ due piccoli atleti fu messo sotto dall’altro, che, profittando del sopravvento, gli dava giù a campane doppie. A tal vista, per quell’istinto che abbiamo tutti di ripigliarla pe’ deboli e per gli oppressi, non potei tenermi: corsi e suonai alla lesta tre o quattro pugni sulle spalle dell’indiscreto ragazzo, il quale, vedendo sopraggiunto quell’inaspettato rinforzo nemico, se la diede a gambe, anche prima che l’altro si fosse rialzato da terra. Fra me e me già godeva la compiacenza di aver fatto un’opera buona, quando il mio difeso, rialzatosi e raccolto il cappello, dopo avermi squadrato da capo a piedi, mi disse con accento tra grave e stizzoso: «Bêr fìo! sapete che c’è scritto su la porta der curato? Chi s’impiccia, môre ammazzato!»

Per chi ne fosse al tutto ignaro, ecco un piccolo saggio di parole composte, traslati e spropositi del vernacolo romanesco. (1) - Uno spavaldo lo chiamano ammazza-sette; un susurrone, capo-d’abisso; uno storto, cianchette-a-zzêta. Per ischernire un soldato, lo chiamano er-zor tajja-calli; a una donna maligna e maldicente danno lo strano appellativo di squacqueraquajjasquícquera; e ad esprimere la meraviglia o il dolore, servonsi d’una esclamazione composta in un modo tutto nuovo: Cristoggesummaria! D’un bestemmiatore dicono che se biastima er pastèco (pax tecum) e lla lelujja (alleluja); di un mangiatore, che ha er male de la lupa; di un pauroso, che manna in funtana li carzoni; d’un ammalato incurabile dicono che nu’ la rippezza, nu’ la ricconta, e che è arrivato ar profiscissce. Un morto che si nominava Girolamo, lo chiamano er zor Girolimo requiesca; un servitore che va dietro il cocchio del padrone, un uditor-de-rota; un carceriere, un zervo de Pilato. D’una vecchia sdentata dicono che in ner parlà, er naso je fa converzazzione cor barbozzo. La giubba de’ giorni di lavoro è la giacchetta che nun zènte (sente) messa; i miei figli, er zangue mio; le scarpe rotte, le scarpe che rideno; e il danaro riposto si chiama con un traslato biblico er mammone. - Ma gli spropositi tengono il primo luogo. Chiamano brodomedico il protomedico; indiggestione, la digestione; legabbile, il legale; Qui-e-llì, il Chilì; massima der zangue, la massa del sangue; radica d’arteria, la radica d’altea; incarcato d’Astra, l’incaricato d’Austria; Rabbia-petrella, l’Arabia petrea; poscritto, il coscritto; omaccio l’omaggio; ccrisse, la crisi; grobbo arrostatico, il globo areostatico; medico culista, il medico oculista; potenze alleatiche, le potenze alleate; sêtte indemogratiche che vônno l’arcanìa, le sétte democratiche che vogliono l’anarchia. - Nè più fortunati sono i nomi propri di persona. Il principe Federico di Saxe-Gotha, lo chiamavano er duca Sassocotto; e Poniatowskj, er principe Piggnatosta; Giano quadrifronte diventa Giano quattrofronne (ossia, quattro fronde); Cecilia Metella, Sciscilia Minestrella; Dante Allighieri, Dant’Argéri; e quando vogliono dire che un pittore è bravo assai, lo paragonano a Raffaelle Bonaroto.

Tutti codesti spropositi ed altri molti che ne potrei citare, escono dalla bocca del popolano di Roma colla massima serietà, anzi come voci elette e peregrine, perchè la plebe romana è ignorante al pari d’ogn’altra, ma prosuntuosa in grado superlativo. Pel trasteverino, che ha piena la testa di confuse tradizioni sulla passata grandezza del suo paese; che vede le pompe asiatiche della Corte romana, e una moltitudine immensa e sempre nuova di forastieri fermarsi attonita davanti a’ monumenti antichi e poi inginocchiarsi al cospetto del papa; per lui che non sa nulla della magnificenza delle moderne metropoli, Roma è ancora il caput mundi, l’urbs, la città unica. E però, dotato com’è d’un ingegno naturale non ordinario, egli si stima un gran che, pel solo motivo che è romano de Roma, (2) e tiene per gente dappoco tutti quelli che non nacquero all’ombra della gran cupola. Chiama provinciali (per lui sinonimo di zotici) i nativi delle altre città d’Italia, sieno pur Napoli, Firenze o Torino; e tratta con loro dall’alto al basso. Non fa nessuna stima del papa, e ne dice ira di Dio in ogni occasione opportuna; ma guai se un forastiero ardisce sparlarne in sua presenza! Egli allora diventa un papista fanatico più di Ravaillac, ed è capace di metter mano al coltellaccio; perchè i panni sporchi vuol lavarseli da sè a casa propria, e perchè chi non è romano de Roma non può aver voce in capitolo. Bestemmia, e, in modi novissimi, da mane a sera; ma va alla messa puntualmente tutte le domeniche e le altre feste comandate. Ha i suoi bravi dubbi sulla esistenza di Dio, ma crede al diavolo, alle streghe, agli spiriti, meglio che se li avesse toccati con mano (3). Porta nella stessa tasca coltello e corona (4).

Ognun vede che siffatti contrasti offrono una ricca sorgente di ridicolo; il vernacolo romanesco è, come ho tentato di mostrare, pieno di sale e di vivacità; quindi soggetto e lingua adattati pel poeta satirico. E di questo s’accorse Giuseppe Gioachino Belli, che aveva ingegno satirico elettissimo; e si propose di ritrarre col dialetto il carattere e la vita della plebe romana, nelle loro più spiccate manifestazioni. Bisognava dipingere a quadretti, come i Fiamminghi; e però scelse il sonetto, la cui brevità offre modo di allogarvi piccole scene. Ma udiamo dallo stesso Belli il suo intendimento. «Io ho deliberato» egli dice «di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta, certo, un tipo d’originalità; e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, le credenze, i pregiudizi.... tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo.... Questo disegno così colorito, checchè ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbia preceduto.... Esporre le frasi del romano, quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso, insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo.... Il numero poetico e la rima debbono uscire come per accidente dall’accozzamento in apparenza casuale di libere frasi e correnti parole non iscomposte, non corrette, nè modellate, nè acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie, attalchè i versi gettati con somigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni, ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto dispregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio. (5)»

Per venire a capo del suo divisamento, il Belli teneva un modo curioso, ma naturale. Si arrischiava fra le più umili classi del popolo, negli omnibus, nelle chiese, nelle taverne, ne’ teatri, e in quelle vie più remote, dove i popolani, sentendosi come a casa propria, non badano a star sui convenevoli e si rivelano per quel che sono. Era insomma un pittore che ricavava i suoi bozzetti dal vero. Alla sera, tornato a casa, coloriva in tanti sonetti le scene che aveva vedute; e il giorno seguente li comunicava agli amici, che subito l’imparavano a memoria, e come i rapsodi dell’antica Grecia, li andavano recitando negli allegri ritrovi. Così senza esser stampati, i sonetti del Belli diventavano popolarissimi, e d’una popolarità vera, perchè spontanea, non comprata a un tanto alla riga sulle quarte pagine de’ giornali.

Note:
1 Li tolgo dai sonetti del Belli, il quale, come avverte in più luoghi, non usava mai parole che non avesse udito dalla bocca del popolo.
2 Questa fase di cui si serve il popolano, per distinguersi dai non romani dimoranti in Roma, potrebbe dirsi una traduzione libera dell’antico Civis romanus sum.
3 Non pochi sonetti del Belli hanno per soggetto curiose superstizioni della plebe romana, o vi fanno allusione. - Un libro sugli Errori popolari de’ moderni, sarebbe non meno pregevole di quello di Leopardi sugli Errori popolari degli antichi.
4 Si veda il sonetto ’Na bbôna educazzione.
5 Codeste parole fanno parte d’una prefazione scritta dal Belli pe’ suoi sonetti, e le ho tolte dall’Elogio storico del Tarnassi, già citato. Ignoro perché questa prefazione non sia stata premessa a’ sonetti editi dal Salviucci.

Luigi Morandi.
Dalla Prefazione a "Duecento sonetti in dialetto romanesco" di Giuseppe Gioachino Belli.

 
 
 

Er sacco de Roma

Post n°2382 pubblicato il 20 Dicembre 2015 da valerio.sampieri
 

Er sacco de Roma

Come sente la puzza der Barbone,
papa Cremente ammucchia in un piviale
er trerregno, la pippa, er medajone,
le ciafrelle, la pìside, er messale.
Scegne le scale, e arriva no sgrullone
de cardinali addosso ar principale.
Na sbattuta ar portone de San Pietro,
le gamme in collo, e tutto er branco dietro. 

Castello, un occhio a monte, un occhio a valle,
arma le colubbrine e le spingarde.
Chi squaja pece, chi carreggia palle,
chi piazza tra li merli le bombarde.
Ar lume de le torce, facce gialle
sperse drento a un macchiozzo d’alabbarde.
Er papa, na manata a l’archibbucio
de no svizzero, e mette l’occhio ar bucio. 

Li lanzi bene e mejo stanno a pollo,
ma tutto un botto squilla na fanfara:
cor marraccio o lo spido o l’arco in collo,
caleno dar Giannìcolo a mijara,  
prima de passo, doppo a scapicollo, 
e via! pe quanto è longa la Longara. 
Quanno intuzzeno a Porta Settimiana, 
mano a le scale, e nasce la buriana. 

Guarda er Tevere: arriva a pecorone, 
lavoranno de gommiti, e s’affiara 
a testa bassa incontro ar murajone: 
lo scavarca, e gnisuno l’arippara. 
Come li lanzi sfonneno er portone, 
eccheli a Ponte Sisto; e la fiumara 
s’opre come le deta de na mano 
da li Cerchi a la Pigna ar Vaticano. 

Santa Maria in Trestevere spatocca 
e l’Areceli sgancia gni campana; 
Santa Maria Maggiore opre la bocca 
e dà na voce a Santa Pudenziana; 
Santa Maria der Popolo rintocca 
e San Pietro scampana a la lontana, 
a la lontana. Sotto ar celo cupo 
Roma è un gregge che scappa avanti ar lupo. 

Tra sleppe e scrocchi e svirgole, Castello 
pare no scojo in mezzo a la tempesta. 
La bombarda ogni botta fa un macello, 
ogni botta er cannone arza la cresta. 
Sopra ar maschio er padrone der battello 
sta cor trerregno inarberato in testa. 
Ogni anima che vola, zicche e zacche: 
un crocione, e je leva le patacche. 

Dura un anno la sorfa, e er sor Cremente 
ha voja a fa li trìduvi ar Signore! 
Quello cià le paturgne, e nun lo sente. 
Indove guardi te se stregne er core: 
la peste farcia er nobbile e er pezzente, 
er lanzo magna su l’artar maggiore. 
Allora er papa s’arma de coraggio: 
opre le porte, e sorte come ostaggio.

A testa gnuda e le manone gionte, 
fermo come na statuva de sasso 
sopra a la sedia d’oro, passa ponte. 
Er sole se fa strada tra un ammasso 
de nuvoloni, e j’ariluce in fronte. 
Qui li lanzichenecchi opreno er passo, 
come un mucchio de pecore, coll’occhio 
abbarbajato, e cascheno in ginocchio.

Mario Dell'Arco
Da: "Ottave", 1948

 
 
 

Le mode buffe de mo

Post n°2381 pubblicato il 20 Dicembre 2015 da valerio.sampieri
 

Le mode buffe de mo

Ma stavene un po' zitto ch'è 'na cosa,
'na cosa, eccheme qua sempre in ciafrelle:
la gente che me vede, sor Raffelle,
dirà: Dio mio, che donna migragnosa!

Eppuro ce n'ò tre para de pelle
de sciagrè da sì che me feci sposa,
ma er piede dentro li nun v'ariposa,
so' fatte a punta come cucchiarelle.

V'abbasti a di che pe' portalle un giorno
me ce vinne ar detone una patata
che sarvognone poi me l'imputomo.

Che moda! ausa tutto stillettato.
Si giri Roma vedi un'infirzata
de chiappe, panze e zinne ch'è peccato.

Giggi Zanazzo
13 agosto 1879

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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