Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Giugno 2017

Cari papà, testimoni non amici

Post n°2260 pubblicato il 29 Giugno 2017 da namy0000
 

“Caro direttore. Mi sono sposato dopo i 30 anni. Avevo una preoccupazione: riuscire a colmare, con il dialogo, una distanza generazionale con i figli (5), di cui l’ultimo è nato quando avevo 43 anni. Ora sono grandi e sempre più autonomi. Abbiamo sempre riso dei miei difetti, e credevo di suscitare, ai loro occhi, una “benevola compassione”. Ma un giorno mi è giunta, a sorpresa, una lettera dalla figlia di mezzo, appena maggiorenne. ‹‹Caro papà, con questa lettera voglio aprirti il mio cuore nonostante ormai sia già praticamente spalancato. Mi sembra giusto che, almeno una volta all’anno, attraverso le mie semplici parole, tu possa renderti conto di quanto io, ma credo anche gli altri, ti sia grata. Voglio parlarti non più da bimba a padre ma da persona adulta che ha compreso e ogni giorno continua a comprendere quanto tu abbia fatto per me. Vorrei che tu potessi osservarti con i miei occhi, in questo modo forse capiresti quanto tu sia un modello per me. Quando penso a te, penso a una persona comprensiva e indispensabile nella mia vita nella mia vita, capace di dare consigli e di far emergere il meglio di me. Vorrei che tutte le persone del mondo potessero avere un genitore come te, punto di riferimento nel difficile oceano che è la vita. Quando Dante, alla fine del Purgatorio, realizza che Virgilio, la sua adorata guida, se n’è andato e l’ha lasciato solo, entra nello sconforto; la mia paura è proprio questa: non riesco a pensare alla mia vita senza di te, non ce la faccio, mi viene da piangere perché tu, seppure con la tua sbadataggine e la tua scarsa memoria, rappresenti un pilastro in questo mio cammino. Quando l’altro giorno ti sei messo a piangere solo guardandomi, ho avuto la conferma di quanto il tuo cuore sia immenso e profondamente buono. Con le tue lacrime mi hai trasmesso tutto il tuo amore e ti dico, con tutta onestà, che non mi sono mai sentita tanto voluta bene da nessuno. Quelle lacrime che ti hanno rigato il volto sono state parole di conforto e di amore per me, grazie. Papi, sappi che io sono quello che sono grazie a te, a quello che mi hai insegnato, a quello che mi hai detto, all’esempio che mi hai dato. Da quando sono piccola, hai sempre cercato di rendermi una persona migliore, di farmi agire bene, di non farmi mai pensare male degli altri ma soprattutto mi hai insegnato ad amare. Non è forse questo quello che deve fare un genitore? Quello che Dio chiede a ognuno di noi? Amare. E tu, ogni giorno, mi insegni come si fa. Caro papà, sei un vero esempio di vita, mi accontenterei di essere buona anche solo la metà di te. Ti ammiro tanto, come padre, come marito, come uomo; rappresenti ciò che spero di diventare io un giorno. Il Paradiso per te è assicurato, cerchi sempre di mettere in pratica quello che dice il Vangelo, e hai fatto il possibile affinché noi facessimo lo stesso: mettere davanti gli ultimi, essere generosi, non essere ipocriti, aiutare i bisognosi… Per tutti questi insegnamenti non ci sono tante parole da dire, solo grazie! Grazie anche perché sai sempre come ascoltarmi e confortarmi, a volte basta una carezza o una parola sincera per cambiare la giornata e tu non esiti mai a farlo. Posso solo riconoscere quanto sia fortunata ad avere avuto la possibilità di conoscerti, ma soprattutto di averti sempre nella mia quotidianità. Spero di darti almeno un briciolo di quanto mi dai tu ogni giorno. Sei una luce nella buia cattiveria del mondo. Grazie papà, grazie davvero. Con amore e ammirazione. Ps. Buon compleanno vecchio mio››.

Cari papà del XXI secolo, volevo lasciarvi un messaggio di speranza: c’è sempre spazio per allacciare un rapporto speciale con i figli. Basta meno di quel che si può pensare – Un Papà” (Lettera pubblicata da FC n. 26 del 25 giugno 2017).

 
 
 

La colpa è nostra - quarta parte

Post n°2259 pubblicato il 29 Giugno 2017 da namy0000
 

Tra qualche anno, dei libri racconteranno – sempre che ci siano ancora libri, sempre che ci sia ancora un paese chiamato Argentina – che la nostra è stata la generazione più fallita della storia del paese. Che siamo stati noi – a portare il paese fino a questo punto. Chiaramente, la generazione dopo la nostra potrà contenderci lo scettro, ma credo che ci riconosceranno il merito di avere aperto la strada. Il nostro marchio: l’Argentina in cui abbiamo cominciato a vivere era molto meglio di quella in cui finiremo di vivere.

Qualcuno mi dirà che è facile parlare standosene lontano, che è meglio se me ne sto zitto (“Chiudi il becco, stronzo”, mi diranno); me l’hanno già detto più di una volta. Non so se è facile o difficile: so per certo che la distanza è una condizione comune a molti. E questo mi consola. Ma è vero che in quegli anni molti di noi lasciarono l’Argentina: da quelli che come me abbandonarono il paese nel 1976 per il terrore fino a quelli che l’hanno abbandonato nel 2002 per il disastro. Spesso abbiamo approfittato del fatto che l’Argentina era un paese recente, che i nostri genitori o i nostri nonni erano nati altrove, per raccontarci che stavamo tornando da dove erano arrivati loro. Per quanto mi riguarda, sono stato costretto ad andarmene in Francia nel 1976, sono tornato entusiasta nel 1983, me ne sono riandato (in Spagna) nel 2013. L’ultima volta è stato diverso: nessuno mi ha obbligato. Non so bene perché me ne sono andato: mi sono detto che il mondo era troppo grande e interessante per rifiutare la tentazione di un cambiamento, ma so anche che è successo perché ero stufo. Stufo di una vita di aggressioni, di scontri; stufo delle menzogne che avevano preso il posto del dibattito, a proposito di cui avevo già detto e scritto tutto quello che potevo dire e scrivere; stufo, in anticipo, del fatto che l’unica alternativa a quel discorso pieno di falsità sarebbe stato un discorso destinato a diventare falso. Stufo di sapere che non c’era via d’uscita. Ho preso armi e bagagli, sono fuggito. Mi sento anche responsabile.

Siamo passati: abbiamo vissuto quaranta, cinquant’anni argentini e non abbiamo lasciato nulla che valga la pena di ricordare (oltre a un paese in rovina, il suo eterno carosello, le sue reazioni povere). Ci saranno anche stati dei miglioramenti, ma non riesco a vederli. Vale la pena di parlarne. È vero che per alcuni aspetti la vita è più libera di cinquant’anni fa. ma molte di queste libertà, soprattutto sessuali, che non esistevano all’epoca, sono arrivate da altre culture. Noi ci siamo limitati ad adottarle, neanche del tutto: l’aborto, per esempio, resta illegale grazie alla sottomissione delle nostre autorità all’autoritarismo senza autorità della chiesa cattolica. E il resto dei cambiamenti proviene da tecniche inventate dagli statunitensi e fabbricate dai cinesi.

Noi, nel frattempo, abbiamo fallito; è così facile sapere che abbiamo fallito. Cosa si può fare quando è tutto così chiaro? Guardare dall’altra parte, cercare qualcuno da incolpare, negare tutto, dissimulare o perfino convincerci che non è poi tanto grave? Nessuna di queste reazioni serve per cercare di aggiustare qualcosa. Forse l’idea che chi ha fallito possa aggiustare qualcosa è un altro modo per fuggire. Forse per noi è l’ora di darci per vinti e di ritirarci. Di lasciare spazio ad altri che, probabilmente, faranno ancora peggio. Ma è difficile: nessuno si ritira a sessant’anni, i nuovi quaranta o venticinque o trentasette e mezzo.

Cosa fare allora? Decidere che saremo diversi, come si fa con i buoni propositi l’ultimo dell’anno o il giorno del compleanno? Decidere che forse non potremo essere diversi ma potremo agire diversamente, cercare altre strade? Decidere che vale la pena di lasciare da parte stupidità e sbruffonaggini e farci carico del disastro, sapendo che abbiamo costruito con il fango, sapendo che non si può costruire con il fango facendo finta che sia cemento? Accettare che ormai abbiamo perso la nostra opportunità e che saranno altri a comandare, ma che comunque varrebbe la pena collaborare per quanto possibile? Accettare che dovremmo collaborare a una ricerca i cui risultati, se mai ci saranno, non vedremo mai?

Abbiamo un paese, l’abbiamo mandato a rotoli. Negare questo fatto è il modo più sicuro per continuare sulla stessa strada. Un paese, nonostante tutto. Forse vale la pena di parlarne, rassegnarsi a pensarlo: reinventarlo”. (Martin Caparròs, La colpa è nostra, Internazionale n. 1209 del 16 giugno 2017).

 
 
 

La colpa è nostra - terza parte

Post n°2258 pubblicato il 28 Giugno 2017 da namy0000
 

Così l’Argentina oggi è di nuovo quel granaio che aveva cercato di lasciarsi alle spalle cent’anni fa, quando alcuni pensarono che non bastava esportare carne e grano e decisero di stimolare l’industria. Oggi, grazie alla soia, siamo di nuovo un enorme campo coltivato e ci rallegriamo di poter vendere qualche limone. Questa riconversione – questo ritorno al passato – è la decisione più importante di tutti questi anni e non ne abbiamo mai parlato, non l’abbiamo mai davvero deciso. Perché farlo? C’era la democrazia.

Senza idee, senza dibattito, senza possibilità di futuro, l’Argentina, nei nostri anni, è diventata un paese reazionario: un paese in cui ogni governo fa così tanti disastri che il governo successivo entra in carica per porvi rimedio. Il governo di Alfonsin è arrivato per rimediare alla rete assassina della dittatura; il governo di Menem per rimediare al caos economico dell’iperinflazione di Alfonsin; il governo di de la Rüa per rimediare alla corruzione menemista; il governo di Kirchner per rimediare al disastro neoliberista antistatale menemista-delaruista; il governo di Macri per rimediare al caos di corruzione  e clientelismo del kirchnerismo. E andiamo avanti così: anche il governo attuale si sta dando da fare. Perché il problema comincia quando finisce la reazione: appena cominciano ad applicare le loro ricette i nuovi governi preparano, con i loro disastri, la reazione successiva. Un paese reazionario è un paese senza progetti, fatto e disfatto con approssimazione, un paese carosello: il nostro.

Siamo, al di là delle maschere politiche, venali. Siamo avidi, pieni di voglie. Ci piacciono troppo certi piccoli piaceri: il televisore più grande, la macchina più lucida, il viaggio da fare invidia. E saliamo su qualsiasi carro che ci offra queste caramelle. Non ci piace più immaginare a lungo termine, darci degli obiettivi, cercare. Forse perché abbiamo visto che quando abbiamo cercato non abbiamo trovato, e allora non cerchiamo più, non troviamo più. Il punto è che siamo diventati un paese di brontoloni innocui: sembra che siamo spietati, che siamo pieni di sacrosanto onore e orgoglio che ci spingono a rifiutare tutto quello che non risponde a non si sa bene cosa. Ma poi passiamo la vita accettando di tutto.

Sempre più spesso, gli atteggiamenti anormali ci sembrano normali: ci sembra normale che molte persone mangino poco, vivano male, muoiano presto; che la violenza, verbale o fisica, sia il nostro modo di essere; ci sembra normale essere ingannati. Un mese fa, in uno stadio di calcio, un ragazzo ha riconosciuto un uomo che, al volante di una macchina lanciata a tutta birra, aveva ucciso suo fratello. Gli ha detto qualcosa: l’omicida, per toglierselo di dosso, si è messo a gridare che il ragazzo era tifoso della squadra avversaria e ha cominciato a picchiarlo. Altri si sono uniti. Emanuel Balbo ha cercato di fuggire ma non ci è riuscito: è caduto, è morto. Ormai cadavere, fermo a terra, i tifosi hanno continuato a insultarlo perché, dicevano, era un tifoso dell’altra squadra. Qualcuno gli ha rubato le scarpe.

Allora due o tre persone hanno detto che era intollerabile, e tutti abbiamo tollerato. Siamo come la rana di una vecchia storia: ci hanno messo a bagno nell’acqua tiepida, poi hanno cominciato a riscaldare quell’acqua e, con il tempo, ci siamo abituati a vivere in un paese che bolle; o bolle quasi, perché non abbiamo abbastanza gas. Siamo come la rana che si è abituata; siamo, in fin dei conti, gente che sbuffa. Sbuffare, diceva qualcuno, serve solo se dopo ci si dà da fare. Altrimenti è uno sfogo. Lo sfogo è l’abitudine più argentina. Abbiamo sbuffato e ci siamo costruiti un paese a immagine e somiglianza dello sfogo; un paese in preda al malumore che grida per la rabbia ma che è così soddisfatto di sé, così ingannato da sé stesso che ha potuto credere a una presidente quando ha detto  che in Argentina c’era meno povertà che in Germania. Un paese che continua a pensare di avere un posto nel mondo. Un paese che non vuole vedere le cose come stanno. Ci viene in aiuto, al massimo, un merito che non ci abbandona: continuiamo a sfornare facce per le magliette di tutto il mondo. Se prima sono stati Ernesto Guevara o Eva Perón e poi Borges o Maradona, adesso è Jorge Bergoglio: la quantità di personaggi globali prodotti dall’Argentina non è proporzionale al suo ruolo nella cultura e nell’economia del mondo. Anche se in questo senso c’è qualcosa che forse ci definisce: siamo dei grandi della maschera.

 

È difficile, per esempio, negare che le persone che hanno avuto più successo della nostra generazione siano quei due cinquantenni che il novanta per cento degli argentini ha votato, un anno e mezzo fa, per farsi comandare. È difficile sopportare che a governarci siano un signore che quando parla non parla e un altro che mente perfino quando tace, e che altri vessilli del paese siano un ex calciatore un tempo straordinario che oggi è diventato un pensionato triste, e un musicista un tempo straordinario che è diventato un pensionato triste. Mauri, Daniel, Diego, Charly. Andiamo forti sulle maschere. E, sempre di più, sui pensionati tristi. Siamo molto mediocri. O quantomeno: le nostre azioni pubbliche sono mediocri, hanno risultati mediocri.

 
 
 

Argentina - seconda parte

Post n°2257 pubblicato il 27 Giugno 2017 da namy0000
 

Cinquant’anni fa il pil pro capite lordo argentino era la metà di quello degli Stati Uniti, oggi è meno di un quarto. Cinquant’anni fa l’inflazione al dieci per cento era considerata un pericolo, oggi sarebbe un successo straordinario. E non l’abbiamo mai ottenuto. Cinquant’anni fa l’Argentina aveva 40.000 chilometri di ferrovie che univano il paese, oggi non ne ha neanche 4.000 e la maggior parte è fuori uso. Cinquant’anni fa l’Argentina era autosufficiente in quanto a petrolio, gas ed elettricità, oggi s’indebita per importarli. Cinquant’anni fa l’Argentina progettava e produceva aerei e macchine, oggi la bilancia dei pagamenti è in rosso per l’acquisto e l’assemblaggio degli autoricambi. Cinquant’anni fa gli ospedali pubblici della maggior parte della popolazione, oggi curano solo quelli che non hanno altra scelta. Cinquant’anni fa si giocavano partite di calcio e le tifoserie si gridavano delle cose, oggi mettere due tifoserie nello stesso stadio è un pericolo. Cinquant’anni fa non parlavamo d’insicurezza, oggi parliamo quasi solo di quello. Cinquant’anni fa i crimini erano così rari che facevano notizia sui giornali, oggi sono così tanti che non fanno notizia sui giornali. Cinquant’anni fa i politici argentini erano personaggi incapaci di mettere un quarto d’idea dietro l’altro, oggi pure. Cinquant’anni fa credevamo che l’Argentina fosse il paese del futur, oggi ci chiediamo perché dicevamo quelle sciocchezze.

Non sono solo i dati; la cosa peggiore è che la vita quotidiana è diventata ogni giorno più scomoda, con più scontri che incontri, più dispiaceri che piaceri, più impazienza e impotenza che gioie e soddisfazioni. E abbiamo raggiunto un raro livello di violenza quotidiana. Non per le rapine e le risse, ma per i rapporti tra persone, pieni di maltrattamenti, insulti, odi e rancori. Detto così sembra una sciocchezza, ma nel mondo ci sono posti in cui le persone per strada si sorridono, si trattano come se non si detestassero. A noi vivere sembra spesso una battaglia. Perché abbiamo fatto della vita una battaglia.

Sei mesi fa una famiglia di rifugiati di Aleppo, la città siriana distrutta dalla guerra, è arrivata a Córdoba, la seconda città argentina. Erano quattro: un padre invalido, la moglie, due figlie. Gli avevano promesso una casa, degli aiuti, un lavoro, e invece no. Tutto per loro era caro e difficile. Poi li hanno rapinati. Qualche giorno fa sono tornati ad Aleppo: “Lì tirano le bombe, ma non c’è tutta questa insicurezza e la vita è molto più economica”, ha detto il pater familias siriano.

Qualche settimana fa, a Bruxelles, l’ex presidente Cristina Fernández ha detto che il suo partito ha perso le elezioni perché “oggi la società non è in grado di capire quello che succede andando oltre le notizie. Nella mia generazione sapevamo distinguere tra quello che ci veniva raccontato e quello che stava succedendo, perché eravamo istruiti da un punto di vista intellettuale”. È stata la nostra generazione – la sua, la mia, quella così istruita – a fare quest’Argentina. Ci sono ancora alcuni di noi che hanno la sfacciataggine di imputare le colpe agli altri.

È sempre facile incolpare gli altri, è sempre difficile capire le proprie colpe. Ma se c’è una cosa utile è cercarle: cercare di pensare come e perché l’Argentina di oggi è colpa nostra. Sapere cos’abbiamo fatto per arrivare qui è il primo passo inevitabile per cercare di arrivare ad altro. Io non lo so, ma ho qualche sospetto.

Tanto per cominciare, c’è la scusa eroica: i morti. Hanno ucciso migliaia di persone e ci siamo consolati pensando che il problema è che “hanno ucciso i migliori”. Siamo rimasti noi, i peggiori, ma la colpa non è nostra, è di quegli assassini. Né i migliori né i peggiori: sono morti i più insistenti, i meno fortunati, i più coerenti, i meno fantasiosi, i più coraggiosi, i meno cauti; quelli che erano al posto giusto nel momento giusto, quelli che non erano al posto giusto nel momento giusto. Hanno ucciso molti di noi ed è stata una tragedia. Ma il punto non è stata l’assenza degli uccisi, è stato l’effetto che quelle morti hanno avuto sui vivi. Furono morti pedagogiche: ci dimostrarono che “essere realisti e cercare l’impossibile” poteva avere un prezzo così alto che da allora abbiamo preferito non rischiare e accettare il possibile. Che era sempre un disastro.

 

Abbiamo cercato di adattarci: ci siamo fatti piacere ogni imbecille che ci recitava un verso, li abbiamo scelti uno dopo l’altro. Bastavano due o tre frasi azzeccate e un sorriso fosco per farci cadere nelle fauci di qualche stupido che, pochi anni dopo, odiavamo con ferocia. Li odiavamo, immagino, perché odiavamo noi stessi per averli amati. E non abbiamo mai voluto né saputo, in questi quarant’anni, creare le condizioni per proporre al paese di discutere di cosa vuole essere, di come vuole essere, di cosa pensa di fare per riuscirci(continua) (Martin Caparròs, La colpa è nostra, Internazionale n. 1209 del 16 giugno 2017).

 
 
 

La colpa è nostra - una parte

Post n°2256 pubblicato il 26 Giugno 2017 da namy0000
 

“Il 29 maggio ho compiuto sessant’anni. continuano a dirmi che non è grave, che i sessanta sono i nuovi quaranta o venticinque o trentasette e mezzo, ma la verità è che spesso si sentono (e si vivono) come i vecchi sessanta. Ho compiuto sessant’anni e la cosa mi riempie di sorpresa, di una perplessità dovuta alla consapevolezza che i giochi sono fatti: sarà ancora possibile cambiare qualche dettaglio, ma il grosso è andato. Invecchiare è scoprire che non sarai più un altro.

Nella parola “compiere” c’è qualcosa di strano e perentorio che mi mette a disagio. Non mi sembra di aver compiuto molto. Ma il punto, qui e ora, non sono io o la mia persona: a mettermi a disagio è la sensazione che noi non abbiamo compiuto quasi nulla.

Dico noi perché dico me, dico me perché dico noi: noi argentini, i sessantenni argentini, i miei coetanei, la mia generazione, quelli come me. Forse è arrivata l’ora di domandarci come, quando, ma anche cosa e perché: è ora, in sintesi, di cominciare ad assumerci le nostre responsabilità.

Definire una generazione è difficile, è un processo capriccioso, impreciso. Allora diciamo, tanto per stabilire un criterio: quelli che sono nati un po’ prima e un po’ dopo di me, quelli che hanno avuto vent’anni nell’Argentina degli anni sessanta e settanta. All’epoca il generale Perón parlava di “questa gioventù meravigliosa”, e ora è facile pensare che fossimo tutti giovani inquieti, preoccupati per il destino della patria, disposti a vivere (e a morire) per lei.

Si è diffuso un mito: se parlo della mia generazione, molti pensano ai militanti, ai morti, ai desaparecidos e ai torturati. Ce ne sono stati, ma ci sono stati anche tanti altri che non hanno fatto o subìto niente di tutto ciò. Senza cercare troppo lontano, quelli che governano oggi fanno parte della mia generazione e non hanno fatto niente del genere. In quei giorni si stavano preparando – Mauricio Macri, Daniel Scioli, Cristina Fernández, Elisa Carrió e altri notabili – a guadagnare più soldi. E milioni di persone guardavano senza sapere cosa dire, esultavano per i gol di Kempes o canticchiavano le canzoni di Spinetta.

A quelli di noi che invece s’impegnarono è stata data – e si dà ancora -  un’importanza eccessiva. È vero che la storia non è stata fatta dalle migliaia di persone che il 25 maggio 1810 restarono a casa, ma da quelle duecento o trecento che scesero in piazza. A definire una generazione sono i pochi che agiscono e non i molti che non lo fanno? Probabilmente è così, e per tutti gli altri è facile. In ogni caso, il mito ha un suo scopo. Per esempio, un trucco facile: parlare di quello che alcuni di noi fecero negli anni settanta è un modo per non parlare di quello che abbiamo fatto tutti noi nei quarant’anni successsivi.

Eppure voglio cominciare proprio da lì: furono anni, come tutti, strani. Cominciammo le nostre vite in un mondo convulso, pieno di speranze: tutto doveva cambiare, tutto stava cambiando. Qualsiasi ragazzo più o meno perbene sapeva che quell’ordine sociale era ingiusto e che un altro doveva sostituirlo: la questione non era se la società dovesse cambiare, ma come, con quali mezzi, in che direzione. In modi diversi, ci provammo in molti. Perdemmo. Perdemmo brutalmente, ma ci provammo.

Quell’Argentina era piena d’infamie. La gestivano generali pronti a intervenire contro qualunque cosa minacciasse il potere di una borghesia ricca, con i suoi enormi campi e le sue medie industrie, che sfruttava operai e braccianti, che si allineava con gli imperi contro le colonie, che controllava la nazione e lo stato a suo beneficio. Decidemmo, a ragione, di lottre contro quel sistema. Ma nel 1970 gli argentini sotto la soglia di povertà erano uno su trenta, e oggi sono uno su tre: dieci volte di più. All’epoca tutti pensavano che la povertà fosse uno stato transitorio in attesa di una situazione migliore, di un posto in una fabbrica per poter avere una casa, mandare i figli a scuola, guadagnare un po’ di più, essere sfruttato meglio, “progredire”.

Il mito della mobilità sociale continuava a dominare. Era un paese con una classe media ampia e più o meno istruita che ci faceva disperare: un ostacolo per qualsiasi tentativo di cambiamento rivoluzionario. Una classe media che si formava nella scuola pubblica, pensata come uno strumento per omogeneizzare la società e creare basi comuni, dove imparavamo tutti che non eravamo troppo ricchi, troppo bigotti o troppo sciocchi. La peculiarità argentina stava nelle sue scuole statali: il privato era sempre stato una caratteristica delle società latinoamericane. L’Argentina invece era il paese del pubblico. Non lo è più. Cinquant’anni fa solo un argentino su dieci frequentava una scuola privata: oggi sono tre su dieci. È un altro dato decisivo.

Alcuni di noi volevano cambiare quel paese, altri no. Insieme l’abbiamo cambiato in peggio. Siamo la generazione della caduta. Ora, cinquant’anni dopo, il terzo della popolazione più povero si è congelato: vive ai margini, in case precarie, con un lavoro illegale o senza un lavoro, dipendente dallo stato e dalla sua elemosina. È completamente fuori dal sistema e non ha aspettative di rientrarci: vive esposto alle intemperie. Non ha futuro. E tedenzialmente al futuro non ci crede nessuno (continua) (Martin Caparròs, La colpa è nostra, Internazionale n. 1209 del 16 giugno 2017).

 
 
 

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