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The Who, "Substitute"

Post n°8 pubblicato il 13 Agosto 2007 da fattodiniente

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Non è che io abbia mai avuto un entusiasmo speciale per gli working class heroes, diciamo che al massimo mi son fermato ad una spiccata simpatia nei confronti di qualcuno. Deve dipendere dal fatto che uno aspira, o almeno sogna di diventar qualcos’altro; meglio, di avere qualcos’altro, di più, e allora preferisce scegliersi eroi diciamo più benestanti, anziché qualcuno che gli ricorda ogni due per tre quale sia la sua condizione sociale. Che poi è la ragione per la quale la gente legge i rotocalchi rosa e vota Berlusconi: un atteggiamento che è stato cantato in modo perfetto da Tracy Chapman in Fast Car.
Perché le classi sociali esistono eccome, anche nel tempo della postmodernità, con buona pace dei sociologi che blaterano di fine delle classi, argomentando (apparentemente con buona ragione) che l’immaginario collettivo si è uniformato, e gli stili di vita si sono unificati: le classi meno abbienti fanno scelte di vita, guardano gli spettacoli, fanno le vacanze negli stessi posti, usano il tempo libero, desiderano gli stessi oggetti, arredano la casa, si vestono, insomma fanno le stesse cose delle classi più agiate. Sarà. Voglio dire, tutto questo è certamente vero, ma personalmente riesco a cogliere una certa differenza tra il fare tutte queste cose, e poterle soltanto sognare. Che poi è la storia della mia infanzia. E mi dà fastidio l’atteggiamento per cui i beni materiali rappresentano valori falsi e la felicità sta in altre cose: mi pare una presa per il culo, la beffa oltre il danno.
Gli Who sono quelli che secondo me raccontano meglio di tutti questa rabbia. Da questo punto di vista, mi piacciono per la stessa ragione per cui mi piacciono i film del Free Cinema inglese, con i quali hanno una quantità impressionante di cose fondamentali in comune. L’identità di forma e contenuto per cominciare, quel senso di libertà vera, di creatività, di ironia e umorismo ad alzo zero, che solo chi vede le cose dal basso possiede; quel senso di amaro rispetto per cose che si apprezzano, ma che non si può avere, un mondo cui non si appartiene veramente. Ed è ciò che racconta questa canzone, ad esempio. “Disagio giovanile”, così è stato sempre perlopiù etichettato: ma loro lo cantano anche oggi a sessant’anni, e io che ne ho appena qualcuno di meno, so bene di cosa si tratta. E l’età non c’entra, poco ma sicuro. C’è nelle loro melodie, nei loro ritmi e nei loro arrangiamenti una grandiosità che esprime il senso di un desiderio insoddisfatto, quasi di inadeguatezza, che è il senso di una vita, per chi capisce di cosa parlano.
E poi il ribellismo verso chi pretende di insegnarti a vivere, il rifiuto di ogni padrone, come se uno non fosse capace di capire da sé cosa desidera, e come, e perché. Solo che non può averlo: che c’è da spiegare? Solo a mettere insieme i loro titoli, vien fuori la descrizione di un modo di essere: Non voglio essere ingannato ancora. Ne ho avuto abbastanza. Non posso spiegarlo. Posso vedere per miglia. In ogni modo, in ogni caso, in ogni luogo…
C’è naturalmente una bella differenza tra una canzone e un libro di sociologia, e consiste nel fatto che il libro spiega, e la canzone mostra; io sceglierò sempre una canzone, perché il modo in cui ti fa sentire la musica è unico, ed è solo con la musica che capisci davvero, in modo vissuto, uno stato d’animo un modo di essere. Una canzone ti emoziona come un libro non potrà mai fare.
In questo brano, ad esempio, c’è un fraseggio di basso di una tal eleganza e ricercatezza, che ti eleva e ti fa sentire giusto; che dice che i tuoi sentimenti non sono banali, che desiderare qualcosa è comprenderne il valore, apprezzarne la bellezza e il significato. Substitute parla di inadeguatezza, del desiderio di essere all’altezza; ma al tempo stesso è una rivendicazione del proprio valore, con un senso di orgoglio per quel che si è, delle proprie origini, del proprio modo di essere, e del rifiuto di essere diverso per compiacere qualcuno. E tutto questo è raccontato prima ancora che nel testo, nella forza della melodia, nel tempo serrato e nell’arrangiamento, diretto ma preciso ed elegante.
Quante cose riescono a suscitare tre minuti e venti di canzone... tante quante non basta una vita per farle capire a parole...

 
 
 
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