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Messaggi del 31/05/2019

 

The Rocketman

Post n°15146 pubblicato il 31 Maggio 2019 da Ladridicinema
 
Tag: trailer

 
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L'angelo da mymovies

Post n°15145 pubblicato il 31 Maggio 2019 da Ladridicinema
 

Era miliardario, parente del presidente egiziano Nasser (ne aveva sposato nel 1966 la seconda figlia, Mona), suo padre era un rispettato generale. Ashraf Marwan aveva tutto quello che un uomo potesse desiderare: amore, denaro, potere. E la libertà di fare quello che voleva della sua vita - per esempio, trasferirsi a Londra con la famiglia per continuare gli studi e "assaggiare" il gusto della vita occidentale.

Di mestiere, Marwan faceva il consulente. Di Nasser prima, e alla morte del presidente continuò con il successore, Anwar Sadat, per il quale curò i rapporti con Arabia Saudita e Libia. Era un uomo realizzato, Marwan, che nel 1974 assunse addirittura l'importante carica di segretario del Presidente per gli affari esteri. Solo che non era chi diceva di essere.

Da quattro anni, a partire dal 1970, Marwan era un informatore al servizio del Mossad, i servizi segreti israeliani. Destinato a diventare la spia più famosa del Medioriente, considerato un eroe sia in Egitto che in Israele per il suo impegno a mantenere la pace tra i due paesi, rimase in servizio come spia fino al 1998. La sua doppia identità fu rivelata nel 2002. Nel 2007 morì, cadendo misteriosamente dal balcone del suo appartamento, al quinto piano di un palazzo, a Londra. 

MARWAN, IL MITO.
lunedì 10 settembre 2018 

La storia di Marwan ha attirato l'interesse di giornalisti e artisti, per le importanti implicazioni geopolitiche della sua attività di consulente del governo egiziano e spia dei servizi israeliani. A interessarsi per primo della sua storia è stato il giornalista egiziano Amr Ellissy, che ha indagato sulle misteriose circostanze della morte. Il risultato dell'inchiesta diventò un documentario, Ekhterak, trasmesso in sei episodi sulla tv pubblica egiziana, a un anno dalla morte di Marwan. Girato nell'appartamento londinese dell'ex spia, il documentario includeva interviste al figlio di Marwan, a un testimone oculare e ad alcuni conoscenti dell'uomo.

Ma chi ha divulgato al grande pubblico la storia dell'uomo e della spia è stato soprattutto uno scrittore israeliano trapiantato in Inghilterra, Ahron Bregman, il primo a smascherare nel 2002 - probabilmente grazie a una soffiata - la doppia identità dell'uomo.

I due, nonostante Marwan avesse negato ogni implicazione nello spionaggio, diventarono amici: il giorno in cui la spia fu trovata morta a Londra, avrebbero dovuto incontrarsi per lavorare sulle sue memorie. Sulla storia della sua relazione con Marwan, nel 2016, Bregman ha pubblicato un romanzo, dal titolo "The Spy Who Fell to Earth: My Relationship With the Secret agent Who Rocked the Middle East". Nel 2016 anche Uri Bar-Joseph, professore universitario arabo israeliano, ha pubblicato un romanzo su Marwan: "The Angel: The Egyptian Spy who saved Israel", diventato un film per Netflix, L'angelo.

NOME IN CODICE: L'ANGELO.
lunedì 10 settembre 2018 

Il titolo, L'angelo, allude al nome in codice di Marwan, interpretato nel film da Marwan Kenzari, prossimamente nel ruolo di Jafar nel live-action di Aladdin targato Disney, insieme a Waleed Zuaiter (Nasser), Sasson Gabai (Anwar Sadat) e Ori Pfeffer (il capo del Mossad Zvi Zamir). La storia, che inizia nel 1972, segue gli avvenimenti descritti nel romanzo di Uri Bar-Joseph, adattato per il grande schermo dal regista Ariel Vromen (CriminalThe Iceman) insieme allo scrittore David Arata (I figli degli uomini).

"È la storia di un uomo che ha sacrificato la sua vita per la pace fra Egitto e Israele, una pace durata per 40 anni. Sono orgoglioso di raccontarlo in un film, e ne sento la responsabilità". 
Ariel Vromen, regista

Girato tra Inghilterra, Bulgaria e Marocco, e costato circa 12 milioni di dollari, il film è parlato in arabo, ebraico e inglese. È il primo film di Netflix a maggioranza di dialoghi arabi.

 
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Il verdetto

Post n°15144 pubblicato il 31 Maggio 2019 da Ladridicinema
 

Giudice dell'Alta Corte britannica, Fiona Maye è specializzata in diritto di famiglia. Diligente e persuasa di fare sempre la cosa giusta, in tribunale come nella vita, deve decidere del destino di Adam Henry, un diciassettenne testimone di Geova che rifiuta la trasfusione. Affetto da leucemia, Adam ha deciso in accordo con i genitori e la sua religione di osservare la volontà di Dio ma Fiona non ci sta. Indecisa tra il rispetto delle sue convinzioni religiose e l'obbligo di accettare il trattamento medico che potrebbe salvargli la vita, decide di incontrarlo in ospedale. Il loro incontro capovolgerà il corso delle cose e condurrà Fiona dove nemmeno lei si aspettava.

Per quanto si provi a dire a parole il film di Richard Eyre, mancherà sempre all'appello l'essenziale. E l'essenziale in The Children Act - Il Verdetto è l'indicibile, quello smarrimento violento e improvviso che coglie qualche volta l'individuo fino a rovesciarne lo spirito e spostare per sempre il suo cuore più in là.

Di questo spiazzamento esistenziale fa esperienza Fiona Maye, giudice nata dalla penna di Ian McEwan ("La ballata di Adam Henry") e confrontata con una richiesta urgente in risonanza con la sua vita privata. Una vita trascorsa a esaminare situazioni altamente conflittuali, a valutare punti di vista che si oppongono, a divorare il tempo che avrebbe dovuto condividere col marito, a risolvere e risolversi con misura e distacco. Ma la fragilità del suo matrimonio e lo stato di salute di un adolescente rompono il suo delicato e costante esercizio, costringendola a confrontarsi bruscamente con se stessa per donare un nuovo senso alla parola responsabilità. 

Cercando "l'interesse del bambino", principio in apparenza semplice ma di applicazione sovente dolorosa, la protagonista si perde e perde il filo. L'elemento perturbatore ha il corpo tormentato e il volto seducente di Adam (Fionn Whitehead, il giovane soldato di Dunkirk), indeciso tra principi religiosi e vitale pulsione adolescenziale. L'ambivalenza dell'animo umano è soggetto e materia di un film che illustra senza fioriture il ritratto di una donna travolta da quello che è chiamata a giudicare.

 
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Chi porteresti su un'isola deserta da gogomagazine

Post n°15143 pubblicato il 31 Maggio 2019 da Ladridicinema
 


Annunciato durante questi mesi tramite un trailer di presentazione, Chi porteresti su un’isola deserta? è finalmente disponibile nel catalogo Netflix, che in questo periodo sta investendo molto per i suoi abbonati. Parecchia è stata la curiosità dietro alla pellicola, sia per i nomi dietro alla sua creazione e produzione, sia per gli attori a comporne il cast. Sarà riuscito a colpire in pieno?
Chi porteresti su un’isola deserta? deriva dalla penna di Paco Anaya, ispirato dalla regia diJota Linares e si presenta come un qualcosa che tenta di estrarre l’azione non tanto attraverso sviluppi fisici, quanto attraverso le emozioni e l’abilità degli attori stessi, che qui troviamo valorizzati più che mai.

Il film mette al suo centro un momento preciso della vita dei quattro protagonisti che lo compongono: Marcos, Celeste, Marta e Eze, rispettivamente interpretati da Jaime Lorente  (La Casa di Carta, Elite…), Andrea Ros (Il diario di Carlotta, REC 2…) , Maria Pedraza (La Casa di Carta, Elite…)  e Pol Monen (Tuo figlio…). Dopo aver vissuto per 8 anni nello stesso appartamento, la vita dei protagonisti sta per cambiare, imboccando la strada ispirata dalle loro scelte e dal loro personale impegno. Il tutto prende piede, dunque, proprio nel momento della crescita, nel momento in cui tutti loro si rendono conto che i prossimi passi che faranno avranno un impatto sul futurChi Porteresti su un’isola deserta? però, non si limita semplicemente ad analizzare il momento della realizzazione ed il salto nel vuoto, va ben oltre mettendo in scena un vero e proprio dramma contemporaneo, tutto scritto dentro di loro, che non ha troppo a che vedere con il futuro, piuttosto con il presente.

La narrazione, inizialmente pervasa da una comprensibile malinconia, già vista altrove, soffia delicatamente lungo i piccoli gesti dei protagonisti, lungo gli scatoloni che occupano tutta la casa, lungo i cassetti ben chiusi e i loro segreti, fino a mettere a nudo una fragilità che esplode nei silenzi della colonna sonora.

La scrittura dei vari protagonisti riesce perfettamente nel suo intento, proponendosi ispirata da quello che è uno stile più teatrale che cinematografico. I silenzi bagnati dalle lacrime, le riprese che immobili mettono in evidenza qualcosa che non può essere catturato dall’obiettivo della cinepresa, qualcosa che è dentro agli attori stessi e ai personaggi e l’attenzione verso l’espressività, contribuiscono a valorizzare le performance generali degli attori stessi, che non si sono risparmiati.

Chi porteresti su un’isola deserta? si pone, dunque, come una minuscola lente d’ingrandimento pronta a raccontare la realtà dei suoi protagonisti, lontana dalle apparenze e da quel salto che sembra tormentare tutti quanti per i motivi sbagliati. Rompe le barriere umane e mette in scena qualcosa che non ha bisogno di troppe corse, riuscendo comunque ad impattare per la profondità.

 
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L'atelier

Post n°15142 pubblicato il 31 Maggio 2019 da Ladridicinema
 

La Ciotat, nel Sud della Francia. Antoine partecipa a un workshop estivo in cui un gruppo di giovani selezionati lavora alla scrittura di un soggetto di un romanzo thriller con l’assistenza di Olivia, un’importante scrittrice. Il processo creativo cerca di fare riferimento anche al passato industriale della città ma questo si rivela un argomento molto distante dagli interessi di Antoine il quale in breve tempo manifesta le proprie tensioni non nascondendo più le sue idee razziste.

L'idea del film risale al 1999 e a un workshop di scrittura al cui montaggio video aveva lavorato il co-sceneggiatore di Cantet e che vedeva coinvolta una scrittrice inglese con un gruppo di giovani de La Ciotat che avevano come unico vincolo quello di ambientare l'azione nella città portuale.

Cantet lo sfrutta per proporre una lettura della condizione giovanile in un contesto che è diverso da quello, in qualche misura cogente, che aveva caratterizzato La classe. Qui il gruppo riunito intorno ad Olivia ha deliberatamente scelto di misurarsi con la scrittura e con la storia e il vissuto sociale di una città che nella seconda metà degli anni Settanta ha visto mutare la propria vita passando da cantiere navale a sito di manutenzione di yacht con le conseguenti perdite di lavoro. Siamo quindi dinanzi a una perfetta cartina al tornasole per comprendere quanto il passato (anche quello relativamente recente) abbia ancora un senso per i giovani in un film che si apre con le immagini di un videogioco di azione fantasy. 

Antoine ne rappresenta un ampio campione, con le sue ritrosie, con la sua fragilità e con la permeabilità a slogan razzisti. Alessandro Baricco sostiene che per gettare ponti tra le persone è necessario (anche se potrebbe apparire contraddittorio a una prima lettura) che queste abbiano costruito dei muri, abbiano cioè un patrimonio identitario e culturale in cui riconoscersi. È esattamente ciò che manca ad Antoine e a molti suoi coetanei che finiscono così per abbracciare le convinzioni di chi sembra loro offrire l'identità che loro non hanno mentre invece li riempiono di slogan tesi non a costruirne una ma solo e brutalmente ad identificare un nemico.

 
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