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Messaggi del 25/04/2020

 

La task force della verità da intellettualedissidente

Post n°15699 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Buoni e competenti a caccia di menzogne che disorientino l’opinione pubblica o gettino discredito sulle istituzioni. Quello lo fanno già troppo bene da sole.
di Dario Macrì - 5 Aprile 2020 

Affinché la popolazione accetti senza troppe obiezioni le restrizioni della libertà disposte dal Governo per arginare la diffusione del Coronavirus occorre che le percepisca come necessarie. A tale scopo, sembra che in Italia sia scattata una specie di ossessione contro ogni dubbio o insinuazione che riguardi la narrazione omogenea di ciò che sta accadendo. E se “l’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al Covid-19 sul web e sui social network”, annunciata da Andrea Martella (Sottosegretario Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’Informazione e all’Editoria), servisse proprio a blindare ancora di più questa narrazione? Il sospetto c’è, suffragato, da un lato, dalla “mission” della task force, dall’altro, dalla composizione stessa del gruppo di lavoro. Le fake news, sostiene il Sottosegretario, “sono pericolose in tempi normali, tanto più in una situazione di emergenza possono determinare disorientamento dell’opinione pubblica, discredito delle istituzioni e del sistema scientifico”. Perciò la task force “si occuperà di monitorare e classificare i contenuti falsi, di studiare e promuovere campagne istituzionali di comunicazione, di promuovere partnership con soggetti specializzati e con i principali motori di ricerca, di coinvolgere i cittadini e gli utenti”. Si tratterà di un organismo che servirà per ”smascherare queste notizie false che possono determinare un danno alla nostra società, alla coesione sociale e alla qualità stessa della nostra democrazia”.

Il rischio che si corre creando un organo di questo tipo è lapalissiano: se ogni notizia che provochi “disorientamento dell’opinione pubblica” o “discredito delle istituzioni” sarà classificata come fake news, e quindi bandita, c’è la possibilità che possa essere scalfita la libertà di espressione? Questa task force, di fatto, deciderà cosa è o non è fake news nell’ambito di tutto ciò che attiene l’emergenza sanitaria in atto e le misure che la caratterizzano. Per combattere “l’insidia della disinformazione che indebolisce lo sforzo di contenimento del contagio”. A deciderlo sarà un gruppo di persone (di cui singolarmente non è nostro compito stabilire valore e professionalità) che, presi nell’insieme, non possono che sollevare alcune perplessità. C’è il Sottosegretario Martella, che in tempi non sospetti era stato promotore della creazione di un gruppo di lavoro sul fenomeno dell’odio online. Poi Riccardo Luna (giornalista di Repubblica, da sempre nel mainstream), Francesco Piccinini (direttore di Fan Page), David Puente (che si definisce blogger e debunker ma, su Open, il suo fact checking è andato, a volte, ben oltre la definizione stessa), Ruben Razzante (Professore universitario di Diritto ed editorialista su Il Giorno), Luisa Verdoliva (docente di Telecomunicazioni), Roberta Villa (giornalista, laureata in medicina e chirurgia), Giovanni Zagni (direttore di Pagella Politica) e Fabiana Zollo (ricercatrice)Quest’ultima è stata responsabile scientifica del progetto di ricerca europeo QUEST (Quality and Effectiveness in Science and Technology communication). Pare che il suo gruppo di lavoro abbia (addirittura) elaborato un algoritmo che è in grado di prevedere con grande accuratezza (77%) quali temi, sui social network, nel giro di 24, ore possano divenire oggetto di fake news.

La preoccupazione, che può pericolosamente sbandare nell’inquietudine, di stare assistendo alla nascita di una specie di censura preventiva, cessa di essere un’ipotesi così surreale dal momento che la stessa componente, Roberta Villa, si è espressa così sui social: “Da parte mia mi opporrò con forza (ed è principalmente per questo che sono contenta di essere seduta a questo tavolo virtuale) a ogni forma di censura o di etichettatura governativa di vero/falso”. Cè anche da tenere in considerazione il paradosso che proprio l’informazione governativa, dall’inizio dell’emergenza, è stata quanto mai lacunosa e contraddittoria: non solo sulla famigerata questione delle mascherine, prima inutili ora salvifiche, ma anche sull’interpretazione stessa delle misure di prevenzione alla diffusione del contagio. Per non parlare dell’approccio iniziale all’influenza, poi epidemia, poi pandemia. Inoltre, se persino ricercatori e virologi appaiono spesso in contrasto (sopratutto in televisione) nel merito dell’infezione, del contagio e delle misure preventive, come possono un gruppo di persone, la maggior parte senza competenze scientifiche, determinare cosa è vero e cosa no? In una fase storica in cui tante libertà costituzionali sono state sospese, era proprio necessario mettere in discussione anche l’art. 21? È vero, le fake news rappresentano un “cancro” nell’informazione del nostro tempo, ma è anche attraverso una coerente comunicazione istituzionale che vanno combattute, non a suon di tweet e dirette facebook.

 
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Era meglio un oceano di silenzio

Post n°15698 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Michela Murgia, insultando con senso di rozza superiorità i testi di Franco Battiato, ha mostrato, ancora una volta, la distanza che si è creata tra la cultura popolare e il classismo delle ”élite”.
di Andrea Scaraglino - 6 Aprile 2020 

Le colonne di questo giornale sono sempre state coraggiose, travalicando il culto del politicamente corretto sono riuscite a raccontare, con professionalità e onestà intellettuale, le mille storture del mondo globalizzato e dei suoi adepti. Ed è grazie a questo coraggio che, anche questa volta, siamo riusciti a non voltarci dall’altra parte e ad affondare le mani nel più cencioso e mefistofelico olezzo, quello dell’accademia fine a se stessa. Chi scrive, in spregio delle più naturali leggi di autoconservazione, si è sciroppato ben diciassette minuti di Michela Murgia a briglia sciolta, diciassette minuti di prosopopea autoreferenziale e distruttiva che, in questo periodo così particolare, assumono le sembianze plastiche del masochismo. In altre occasioni avremmo lasciato correre, avremmo lasciato fare al tempo e alla sua notte d’oblio ma, in questo caso, ravvisando una pericolosità intrinseca all’accaduto ben maggiore del fatto stesso, abbiamo deciso di rispondere. L’attacco della scrittrice sarda, gratuito e infondato, alla persona e ai testi di Franco Battiato, definiti quest’ultimi delle “minchiate assolute”, secondo noi nasconde un pericolosissimo significato latente di stampo classista, sottolineante la deriva umana che una certa classe ha intrapreso. Ovvero: solo l’accademia, con i suoi tecnicismi e le sue odierne chiavi interpretative, può essere cultura.

Un salto indietro di un secolo all’interno del dibattito culturale, un balzo negante la profondità della cultura popolare e del suo significato sociale. Un balzo che rimarca, ancora una volta, la distanza siderale che si è creata, soprattutto nell’ultimo decennio, tra il popolo e l’élite culturale di questa Nazione. Ora, accettando il fatto che la soggettività in questi specifici campi non può non essere presa in considerazione, è riprovevole il tentativo contrario. Oggettivare il pensiero personale dall’alto della propria cultura più “sviluppata”, deridere e squalificare quello dell’ “avversario” che, nel caso specifico, è giusto ricordarlo, non è nelle condizioni fisiche di rispondere, è da vili. Slegare i testi di Battiato dalla sua musica è impossibile, scimmiottare il “Cuccurucucu paloma”, analizzandolo come semplice locuzione, è stupido, oltre che inutile. Battiato e la sua arte parlano per immagini e rimandi storici, tramite sentimenti comuni declinabili diversamente da ognuno di noi. Ci dipingono un immaginario onirico che ha i contorni del nostro reale, una base comune per interpretare la quotidianità. Spiegano, rappresentandola al meglio, la nostra dimensione di animale sociale, dove pubblico e privato della nostra esistenza devono coincidere per permetterci di vivere appieno: “emanciparmi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del bene e del male, essere un’immagine divina di questa realtà”.

È in questi versi che sta la grandezza di Franco Battiato, e si capisce perchè il materialismo progressista, impersonificato dalla Murgia, cerchi di ridicolizzarla. Colpire scientemente chi ancora tenta di rendere l’uomo intero nel suo profondo e nella società, questo il deplorevole fine. Del resto, troppe volte deve aver provato un moto di fastidio, un certo tipo umano, ascoltando il proseguo di “E ti vengo a cercare”, troppo netto il contrasto con se stesso: “E ti vengo a cercare, con la scusa di doverti parlare, perché mi piace ciò che pensi e che dici, perché in te vedo le mie radici. Questo secolo oramai alla fine, saturo di parassiti senza dignità mi spinge solo ad essere migliore, con più volontà”. Chi scrive, con un padre nato a Tunisi e il cuore lasciato ad Ognina, non può far altro che aspettare il ritorno dell’ “era del cinghiale bianco”, sperando di aver azzittito, anche solo per un momento, “La voce del padrone”.

 
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Il libro dell’inquietudine ai tempi del coronavirus

Post n°15697 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

In questo momento il nostro mondo, come quello del Bernardo Soares di Pessoa, sembra essersi ridotto ad una modesta finestra. Eppure, come Soares a suo tempo, ci stiamo rendendo conto di quanto coscienza e vita umana siano infinitamente più potenti di ogni futile sovrastruttura, spazzata via dal virus.
di Massimiliano Vino - 6 Aprile 2020 

Mai come in questo momento la vita e i sentimenti dell’uomo moderno sono stati messi così tanto alla prova. Un nuovo mondo si prospetta, alla fine della più grande emergenza dal secondo dopoguerra; e intanto pensieri ossessivi, malinconia mista ad angoscia e a paura, cominciano a ripercuotersi su una popolazione privata dei suoi abitudinari ritmi di lavoro, consumo e tempo libero. Una società come quella occidentale si ritrova oggi rivoltata nella sua più intima essenza: si ritrova cioè a dover fare i conti con sé stessa. Ognuno si ritrova da solo. Chi in famiglia, chi in qualche alloggio studentesco, chi bloccato fuori, chi completamente solo in qualche appartamento nelle vie, ormai sgombre e silenziose, di Roma o Milano. L’unica compagnia, che non siano la rete sociale, il cellulare, le voci – divenute tragicamente familiari – dei rapporti della protezione civile, della televisione, dei telegiornali, diviene per molti la finestra; quella finestra a cui, in fondo, raramente si faceva caso quando la vita era normale.

Raramente si guardava oltre. Raramente ci si perdeva, non tanto nel panorama, quanto nella propria coscienza tramite quella piccola apertura verso il mondo esterno. La casa stessa era un luogo di passaggio. Si potevano scorgere persone di cui non ci importava nulla passeggiare nel marciapiede sottostante, notare dei panni appesi, senza che nulla dei colori e del tessuto potesse colpirci; si poteva scorgere una televisione accesa, o udire le grida o le risate provenienti da qualche altra abitazione. Tutto si risolveva come parte millesimale del nostro tempo. Tempo perso, presumibilmente. Tempo che sarebbe stato meglio dedicare ad altro, a qualcosa di produttivo. Ma il produttivo in questo momento non esiste più per molti di noi. Certo, esistono gli impegni che pur ci auto infliggiamo, nella speranza di non dover fare i conti con quella marea di tempo libero di cui ora, improvvisamente, disponiamo e che dobbiamo pur tuttavia adattare ad uno spazio che è estremamente limitato. D’un tratto quella finestra è divenuta il confine visibile tra noi e quanto sta succedendo, nonché il teatro delle nostre emozioni e dei nostri pensieri.

 

Chissà cosa avrebbe pensato quel Bernardo Soares inventato da Fernando Pessoa, qualora una simile pandemia lo avesse costretto a rimanere in casa, solo con la propria coscienza? Quel Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, a cura di Antonio Tabucchi, rappresenta oggi un capolavoro letterario vivo e pulsante, un viaggio nell’interiorità dell’umano tremendo e sincero, il luogo in cui maggiormente si trovano dispiegate le paure e i pensieri di qualsiasi uomo sospeso oggi tra la propria realtà e quella esistente, tra la tragedia del mondo della frenesia e della produzione messo in ginocchio e la propria, effimera eppure mai così potente, capacità di immaginazione e di auto-introspezione. Ciò che prevale, nell’uomo in quarantena e in Soares, è certo inizialmente pura nostalgia:

Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita.

Quanta nostalgia ci pervade in questo momento? La luce in fondo al tunnel sembra così lontana, così inavvicinabile. Dopo questa esperienza non saremo più gli stessi. Il nostro mondo non tornerà mai come prima. Questo è quanto ci dicono. Questo è quanto, masticando e rimasticando il concetto, non sappiamo se interpretare in senso positivo o negativo. Intanto i giorni scorrono. Il piccolo viaggio interiore di Soares procede di pari passo, disilluso e per nulla speranzoso:

Sperare? Cosa devo sperare? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. La luce mi anima ma non mi migliora, perché uscirò da qui come sono arrivato qui: più vecchio di ore, più allegro di una sensazione, più triste di un pensiero. In ciò che nasce possiamo sentire ciò che in esso nasce o pensare ciò che in esso dovrà morire. Ora, sotto la luce ampia e alta, il paesaggio della città è come quello di un campo di case: è naturale, è esteso, è strutturato. Ma anche nel vedere tutto ciò, potrò forse dimenticarmi che esisto? La mia consapevolezza della città è, dal di dentro, la consapevolezza di me stesso.

Come sottolineato da Tabucchi, l’esistenza stessa di Soares pare ricomporsi e liquefarsi continuamente. Un ciclo continuo in cui la coscienza, anziché negarsi continuamente per rinascere in forme nuove, si nega e basta, viaggiando ad un ritmo lento ed incalzante al tempo stesso fino ad avvicinarsi al suo completo annullamento. Soares è la negazione costante della massima di Cartesio: è il pensare che non presuppone l’esistenza. Perché esistere è ben altra cosa. Quanti non riescono oggi a dare un senso a quanto sta avvenendo? Oltre a ciò che faremo dopo questa esperienza, oltre le videochiamate, oltre ai sondaggi o alle celeberrime challenge sui Social Network, chi o che cosa siamo noi in questo momento? Esistiamo senza essere in funzione di qualcos’altro?

Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c’è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo.

Ci sdoppiamo e ci triplichiamo, come Pessoa e come il suo Soares (che è già un doppio o un triplo del poeta portoghese). La nostra coscienza fa i conti con sé stessa per un tempo che sembra non dover avere mai fine. Fuori si studiano soluzioni per uscire da questo stallo, mentre l’attesa per la rinascita sembra non dover finire mai. Intanto, come piccoli sovrani, presidenti o ministri del regno della nostra coscienza, individualmente cerchiamo una soluzione alla nostra personale crisi economica, che è crisi di sicurezze, che è desiderio di ricostruirci:

Il governo del mondo comincia in noi stessi. Non sono le persone sincere che governano il mondo, ma neppure le persone insincere. Sono coloro che fabbricano in se stessi una sincerità reale con mezzi artificiali e automatici; quella sincerità costituisce la loro forza ed essa brilla nei confronti della sincerità meno falsa degli altri.

Da qui sorge la critica di Soares al desiderio di veder cambiare il mondo (che oggi è il desiderio di molti, specie di quanti hanno scorto da anni le storture del nostro attuale sistema economico e sociale), senza prima voler cambiare se stessi:

Rivoluzionario o riformatore: l’errore è lo stesso. Incapace di dominare e di modificare il suo atteggiamento verso la vita, che è tutto, o verso se stesso, che è quasi tutto, l’uomo fugge volendo modificare gli altri e il mondo esterno. Ogni rivoluzionario, ogni riformatore, sono degli evasi. Combattere è non essere capace di combattere se stesso. Riformare significa essere incapace di correggersi.

Il viaggio nella coscienza di Soares, nella coscienza di un recluso, sfiora dunque le possibilità di un riscatto. Un riscatto senza illusioni, giacché «quando si è giocato a domino, che si sia vinto o che si sia perso, dobbiamo capovolgere le pedine, e il gioco finito è nero», ma pur con un’idea di sopravvivenza nel pieno delle facoltà e delle possibilità umane, libere finalmente dalle catene dell’utile che ora sono venute meno. Ci si scopre in grado di sopperire a sé stessi, nell’isolamento. Ci si scopre in grado di non dover dipendere da nessuno:

La libertà è la possibilità dell’isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini senza che ti obblighi a cercarli il bisogno di denaro, o il bisogno gregario, o l’amore, o la gloria, o la curiosità, che non si addicono al silenzio e alla solitudine. Se è impossibile per te vivere da solo, sei nato schiavo. Puoi avere ogni grandezza, ogni nobiltà d’animo: sei uno schiavo nobile, o un servo intelligente. Non sei libero.

Fu previdente Pessoa – pardon, Soares – nell’immaginare le reazioni di chi, giustamente, avrebbe avuto da ridire sul suo modo di interpretare la vita umana, e sui suggerimenti impliciti per poter sopravvivere a se stessi. Non si illude, infatti, Soares, della condizione spesso privilegiata che accompagna i grandi sognatori e i grandi malinconici:

Le grandi malinconie, le tristezze piene di tedio non possono esistere se non in ambienti confortevoli e di sobrio lusso. Per questo Egeus di Edgar Allan Poe può restare ore ed ore in languida concentrazione in un antico castello avito ove, al di là della grande porta della sala in cui la vita languisce, invisibili maggiordomi amministrano la casa e il cibo. I grandi sogni necessitano di certe condizioni sociali.

Vorremmo aggiungere: necessitano della sicurezza di non ritrovarsi, improvvisamente, senza lavoro, in cassa integrazione, con appena 600 euro mensili con i quali sostenersi a livello di beni essenziali. Non c’è nulla di poetico, nulla di costruttivo o di desiderabile in una condizione del genere per chi, già in questo momento, sta provando sulla propria pelle il disastro economico che si accompagna alla pandemia, su chi è consapevole degli enormi sacrifici che dovrà sopportare per sé e per la propria famiglia. Infine, non vi è apparentemente nulla di poetico in chi è ora in trappola in un appartamento squallido e minuscolo. Ma nella povertà, pur qualcosa si muove. Soares non è certo Poe o un visconte, o un barone. La sua condizione è quella del piccolo impiegato (come Pessoa, ndr), che vive al quarto piano di un anonimo edificio in Rua dos Douradores a Lisbona:

Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’Infinito. Un infinito con magazzini sottostanti, è vero, ma con le stelle all’orizzonte… È quanto mi viene alla mente in questo pomeriggio ultimo, presso questa alta finestra, nell’insoddisfazione del borghese che non sono e nella tristezza del poeta che non potrò mai essere.

L’infinito che immaginiamo può essere anche un infinito in carne ed ossa. Mai le persone ci sono sembrate così vive come in questo momento. Spettri dinanzi alla nostra indifferenza quando le strade erano piene, la vita fremeva, il lavoro ci occupava il tempo e la mente, ora li riscopriamo in quanto anime, in quanto coscienze. Ognuna con i propri problemi e con le proprie sofferenze:

Il disprezzo che sembra esistere fra uomo e uomo, l’indifferenza che permette che si uccidano persone senza capire che si uccide, come fra gli assassini, o senza pensare che si sta uccidendo, come fra i soldati, sono dovuti al fatto che nessuno presta la dovuta attenzione alla circostanza, che sembra astrusa, che anche gli altri sono anime.

Il cammino di Pessoa/Soares attraverso la quarantena si potrebbe pertanto concludere qui. Tra le espressioni sempre più rade dei volti familiari che si vedono per strada o in diretta video, di cui si ascolta la voce, con i quali si comunica e si cerca il contatto entro i limiti concessi dalle attuali restrizioni, nella ricerca mai così spasmodica e sentita di una umanità che si riscopre per ciò che è, in tutta la sua mortale e condivisa fragilità. Il mondo che sta crollando è solo esteriore. Stanno venendo meno soltanto le sovrastrutture di un pensiero e di un modo di vivere che aveva poco a che fare con la condizione umana. Liberi per la prima volta di esistere, ci riscopriamo in grado di sopperire alle mancanze che la società e il mondo sembravano essere in grado di sostenere con la sola forza artificiale del tempo che ci sottraevano. Diamo ascolto a noi stessi, giacché solo su noi stessi e su una società che si sarà riscoperta più umana di quanto non sia mai stata, su una social catena di leopardiana memoria presto potremo fare affidamento. Rimaniamo solidi e vigili, e vivi come nelle parole- forse le più belle – di Bernardo Soares:

Anche se intorno a noi crollerà ciò che fingiamo di essere, perché coesistiamo, dobbiamo rimanere impavidi: non perché siamo retti, ma perché siamo noi; ed essere noi significa non avere niente a che vedere con le cose esterne che crollano, anche se crollano su ciò che noi siamo per essere.

 
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Avati: "Dalla Rai ok al film su Dante" da cinecittà news

Post n°15696 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: news

"Tre ore fa, dopo 18 anni - era il 2002 e ora siamo nel 2020 - attraverso una conference call con Paolo Del Brocco e tutto il board di Rai Cinema, hanno finalmente dato il via a questo film su Dante che stiamo preparando per i 700 anni dalla morte, che cadranno il 14 settembre del 2021. Non lo sa ancora nessuno". Lo rivela a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio 1, il regista Pupi Avati, intervenuto alla trasmissione condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Ha già scritto il film? "L'ho già scritto e lo abbiamo anche già tradotto in inglese". Quando sarà pronto? "Il 13 settembre del 2021", ha scherzato Avati.

 
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L’IMPORTANZA DELLA TEORIA DELLO STATO LENINISTA ALL’EPOCA DELLA CRISI DEL COVID-19 da ordinenuovo

Post n°15695 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

L’IMPORTANZA DELLA TEORIA DELLO STATO LENINISTA ALL’EPOCA DELLA CRISI DEL COVID-19

 

Lenin teorico della politica marxista

Lenin è stato il più grande teorico marxista del XX secolo e la sua opera rappresenta un classico, essendo un punto di riferimento imprescindibile per la teoria e la politica rivoluzionaria del XXI secolo. Il contributo di Lenin parte direttamente dallo studio di Marx ed Engels, ma ha una sua originalità, perché la sua elaborazione è sempre creativa e capace di adattare e sviluppare i principi dei due fondatori del socialismo in base alle condizioni e al mutare della storia. La teoria leninista è la teoria della rivoluzione per come questa si prospettava tra la fine dell’XIX e l’inizio del XX secolo e rappresenta un corpus unitario, con le varie parti – lo studio delle condizioni economiche della Russia, la teoria dell’imperialismo, la teoria dello Stato e del partito – che si incastrano perfettamente, realizzando la visione d’insieme e intimamente coerente di un progetto rivoluzionario.

Tuttavia, se ci si permette una valutazione, la parte più originale e importante, da cui trarre indicazioni preziose per il presente, è quella della teoria politica. Infatti, Lenin ha il merito enorme di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva se non in spunti sparsi: l’elaborazione e la sistematizzazione di una teoria marxista della politica.

Lenin è sia il leader pratico della Rivoluzione d’Ottobre sia il teorico principale della politica in senso marxista. Non che Marx e Engels non avessero una teoria politica, tutt’altro. Entrambi svolsero un decisivo ruolo politico pratico nella I internazionale, e in tutte le loro opere fanno riferimento a elementi di teoria politica, soprattutto allo Stato, da cui Lenin trae spunto e attinge a piene mani, ma nessuna delle loro opere tratta in modo sistematico ed esclusivo dell’argomento. Si può dire che la teoria politica marxista si è definita con Lenin quando si sono generate le condizioni storiche per la rivoluzione politica. Questo è vero, ma in realtà il problema della mancanza di una teoria politica marxista rappresenta un grave limite anche in periodi non rivoluzionari.

Fu proprio Lenin a denunciare come la mancanza di una teoria dello Stato fosse alla base della degenerazione opportunistica della II Internazionale e dell’allinearsi dei partiti socialisti, che ne facevano parte, ai rispettivi imperialismi al momento dello scoppio della I Guerra mondiale. Ma anche dopo l’Ottobre sovietico, quando si cercò di diffondere la rivoluzione in Europa occidentale, è sempre alla mancanza o ai limiti di comprensione della teoria politica marxista che da Lenin viene attribuita l’incapacità di una parte dei partiti comunisti occidentali di sviluppare una vera pratica politica di massa, liberandosi delle tendenze estremiste .

La Teoria politica di Lenin si compone essenzialmente di due parti: la teoria dello Stato e la teoria del partito, la quale contiene anche un’altra parte importante, la teoria della coscienza di classe. Sebbene usualmente abbia riscosso maggiore attenzione la teoria del partito, la parte più importante è costituita dalla teoria dello Stato, cui Lenin, subito prima della rivoluzione d’Ottobre dedica l’opera più importante: Stato e rivoluzione (pubblicato nel maggio 1918), le cui tematiche verranno riprese, in parte, da La Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (novembre 1918). Lenin, in Stato e rivoluzione, ci rivela come avesse dovuto svolgere un vero e proprio lavoro di scavo archeologico per riportare alla luce, dopo cinquanta anni, i principi di teoria dello Stato di Marx e Engels, tanto profondamente erano stati espunti dalla ideologia ufficiale dalla socialdemocrazia dell’epoca. Anche oggi si rende necessario un simile lavoro di scavo archeologico, solo che si dovrebbe andare ancora più nel profondo e confrontarsi con illusioni sulla democrazia e sullo Stato, che sono molto più radicate che all’epoca in cui Lenin scriveva.

La non neutralità di classe dello Stato

Proprio oggi, nell’epoca della crisi del covid-19, definire correttamente la natura dello Stato e il modo di rapportarsi ad esso è di importanza ancora maggiore, perché siamo in una fase in cui il ruolo dello Stato sembra riacquistare una nuova importanza. Per decenni, nel corso di quella che è stata definita globalizzazione, erano stati in molti a sostenere l’obsolescenza se non l’inutilità dello Stato. Oggi, a fronte della crisi più grave dal ’29 si assiste invece ad un revival dello Stato.

Il vecchio Stato nazionale dimostra di poter bloccare le frontiere a persone e merci, impone la segregazione in casa a miliardi persone, soprattutto, è chiamato a sostenere le imprese dinanzi al fallimento del principio che aveva guidato il mondo per quaranta anni, il mercato autoregolato. Lo Stato è persino sollecitato da antichi alfieri della disciplina di bilancio, come Draghi, a indebitarsi senza freni pur di salvare il sistema capitalistico dal suo disfacimento. Persino nella neoliberista Ue, attraverso la commissaria alla concorrenza Vestager, viene dato il via libera agli aiuti di stato alle imprese e alle nazionalizzazioni, per impedire che imprese strategiche vengano a cadere nelle mani di Stati stranieri. A muoversi in questo senso non sono solo l’Italia, dove lo Stato ha rafforzato la normativa sul golden power , e la Francia, ma anche la Germania.

Allo stesso tempo la globalizzazione subisce duri colpi dall’aumento delle misure protezionistiche implementate dai vari Stati, non solo gli Usa e la Cina, ma anche la Ue. Intanto le lunghe catene del valore, ossia l’articolatissima divisione internazionale della produzione delle merci, subiscono un accorciamento mediante la reinternalizzazioni di intere parti della produzione nei Paesi sedi delle imprese. Insomma, siamo di fronte all’emergere di un nuovo paradigma di accumulazione capitalistica, già emerso da qualche tempo ma accelerato dalla pandemia, al centro del quale si riposiziona lo Stato. Di conseguenza, si ripropone come centrale anche la questione della natura dello Stato, anche perché molti cadono nell’equivoco che questo nuovo interventismo dello Stato sia sempre positivo in sé stesso, accogliendo con sollievo quella che sembrerebbe essere la fine del libero mercato autoregolato. Anzi, per alcuni il nuovo ruolo dello Stato sarebbe quasi prodromico alla riproposizione del socialismo come opzione storica.

Questo modo di vedere presuppone un grave limite, ossia la concezione dello Stato come di una macchina essenzialmente neutrale sia dal punto di vista degli interessi di classe che rappresenta, sia dal punto di vista della sua forma e struttura di funzionamento interna. È precisamente questa concezione che viene criticata dalla teoria leninista dello Stato, secondo la quale lo Stato non è mai neutrale dal punto di vista di classe.

Lo Stato nasce dalla divisione in classi della società

La verità è che non è la prima volta che lo Stato interviene direttamente nel processo di accumulazione, anzi la storia del capitalismo è un continuo alternarsi di maggiore e minore presenza dello Stato a seconda delle condizioni che attraversa il modo di produzione capitalistico. Una di queste epoche è proprio quella in cui Lenin elabora la sua teoria dello Stato, quando si affermano il capitalismo monopolistico di Stato e l’imperialismo. Il primo punto da cui parte Lenin è l’origine dello Stato.

La nascita stessa nella storia dello Stato è legata alla divisione della società in classi sociali contrapposte“Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere conciliati. E per converso l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili. (…) Lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra. È la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi” .

Gli apparati del dominio di classe dello Stato

Il secondo punto riguarda il modo in cui lo Stato esercita tale dominio di classe, cioè quale ne sia la funzione principale. Lo Stato è un apparato, una macchina che ha come caratteristica principale il monopolio dell’esercizio della forza o della violenza entro un certo territorio. Fin qui anche i teorici borghesi sarebbero d’accordo ed è esattamente questa la definizione che l’antimarxista Max Weber dà dello Stato Ma, per il marxismo, il punto è che questo monopolio dell’esercizio della forza viene esercitato dalla classe economicamente dominante contro la classe economicamente subalterna. La forza stessa non è esercitata dai cittadini come comunità in armi, come poteva accadere nelle comunità primitive. Al contrario, “la società civile è divisa in classi sociali ostili, inconciliabilmente ostili, il cui armamento <<autonomo>> determinerebbe una lotta armata fra di esse” Per questo si forma lo Stato e si creano distaccamenti speciali di uomini armati, separati dal resto della popolazione, di cui sono espressione la polizia e gli eserciti permanenti con le loro appendici materiali, carceri, tribunali e caserme. Infatti, quando una classe ne soppianta un’altra si sforza subito di ricostruire nuovi distaccamenti armati che la servano.

La natura di classe è propria di qualunque tipo di Stato, attraverso il quale la classe economicamente dominante diventa anche la classe politicamente dominante. Questo dato di fatto è riscontrabile anche nello Stato moderno, nella repubblica democratica. Anzi è proprio qui che lo Stato ricopre in modo più efficace la sua funzione.

Secondo Lenin, “L’onnipotenza della <<ricchezza>> è in una repubblica democratica tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo; per questo il capitale dopo essersi impadronito di questo involucro – che è il migliore – fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo.”  La repubblica democratica ha rafforzato il suo carattere di classe, oltre che grazie al potere di imporre imposte e al debito pubblico, soprattutto attraverso due istituzioni: la crescita di un enorme apparato burocratico, costituito da una classe di funzionari, “che appaiono come organi al di sopra della società” , e il militarismo, basato sull’esercito permanente. La critica di Lenin è estesa anche al parlamentarismo. Lenin non è contro le istituzioni rappresentative, ma contro il parlamentarismo, perché il Parlamento “mai nella democrazia borghese decide delle questioni più importanti: esse vengono decise dalla Borsa e dalle Banche.”

La necessità di spezzare la vecchia macchina dello Stato

Il terzo punto riguarda il rapporto tra la classe lavoratrice e lo Stato. La critica di Lenin è duplice. Da una parte è rivolta agli anarchici che si disinteressano dello Stato e la cui unica preoccupazione è abbatterlo, senza porsi il problema di con che cosa e come sostituirlo. Dall’altra parte, la critica è rivolta ai partiti socialdemocratici che ritengono la burocrazia ineliminabile e sempre necessaria. Come ben sintetizzato da Kautsky, il maggiore teorico della socialdemocrazia tedesca, “l’obiettivo della nostra lotta politica rimane la conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo” . Inoltre, sempre per Kautsky, il compito della lotta dei lavoratori nel capitalismo “non può essere di distruggere il potere statale”, ma soltanto di “indurre il governo a fare delle concessioni o di sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro” mediante “un certo spostamento nel rapporto delle forze all’interno del potere statale” La teoria marxista dello Stato ritiene, invece, che il potere non può essere preso con il semplice suffragio universale e che la classe lavoratrice, una volta conquistato il potere, non può limitarsi a prendere la vecchia macchina dello Stato e a usarla a così com’è a proprio favore.

Così scrive Lenin: “La questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi attraverso una macchina nuova: è questa l’idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito.”

Un nuovo tipo di Stato

Il quarto punto è inerente alle caratteristiche del nuovo Stato della classe lavoratrice, ossia la questione della democrazia e della dittatura del proletariato, definita da Marx come la forma dello Stato socialista. La parola dittatura già all’epoca di Lenin suscitava delle perplessità, ad esempio in Kautsky stesso. La risposta di Lenin è che ogni Stato è una dittatura esercitata dalla classe dominante sulla classe dominata. Ora, si da il caso che, una volta preso il potere dalla classe operaia, le classi non si eliminano immediatamente da sé stesse, ma che continuino a esistere per un certo lasso di tempo. Per queste ragioni, la dittatura del proletariato è esattamente la forma del dominio della classe lavoratrice sui residui delle classi superiori nel periodo di transizione (altrimenti definito socialismo) dal capitalismo al comunismo. Così scrive Lenin sulla questione: “Riguardo alla democrazia un marxista non dimenticherà mai di porre la domanda: <<per quale classe?>> (…) dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro le altre, ma significa obbligatoriamente soppressione o importantissima restrizione (restrizione che è essa pure un aspetto della soppressione) della democrazia per quella classe su cui o contro la dittatura è esercitata.”

Se il significato di democrazia è il dominio della maggioranza sulla minoranza, la democrazia si realizzerebbe nel modo più compiuto proprio nella dittatura del proletariato, che è appunto il dominio della maggioranza degli sfruttati sulla minoranza degli sfruttatori.

Un dominio che deve essere fondato, oltre che sul potere armato della classe lavoratrice, su organismi statuali che, come abbozzava Lenin a ridosso della conquista del potere in Russia, non possono che essere sempre meno burocratici, cioè sempre meno istituzioni separate dalla massa del popolo, e sempre più organismi di partecipazione e controllo delle masse sulla gestione della cosa pubblica.

 

La teoria leninista dello Stato e l’oggi

La teoria dello Stato leninista è molto più articolata e complessa di quanto in queste poche righe abbiamo cercato di abbozzare ed è stata ulteriormente sviluppata, in alcuni aspetti, dallo stesso Lenin durante il suo breve periodo di capo del governo sovietico, specialmente sul ruolo di mediazione dello Stato operaio tra le classi popolari e sugli strumenti di controllo della classe operaia sulla produzione e sullo Stato. Altri teorici hanno cercato di sviluppare ulteriormente la teoria politica, partendo da Lenin, come Gramsci e Poulantzas hanno fatto con esiti importanti.

Ma da ormai molto tempo c’è necessità di proseguire e aggiornare l’elaborazione della teoria politica marxista e in particolare quella dello Stato. Il compito è particolarmente necessario oggi non solo perché in Occidente lo Stato sta riprendendo una centralità, che solo in parte aveva lasciato, e in Europa l’euro e la Ue hanno modificato le modalità con cui il capitale ha esercitato il suo dominio sulla classe lavoratrice, ma anche perché abbiamo sotto gli occhi numerose esperienze di tentativi socialisti da cui trarre spunto, sia quelli storici dell’Urss, dei Paesi dell’Est e della Cina, sia quelli contemporanei degli Stati latino americani che hanno provato a costruire un loro percorso di socialismo del XXI secolo. Nonostante lo Stato abbia apparentemente perso potere, in realtà con la Ue e l’euro, se intendiamo – insieme con Lenin – con il termine di Stato l’apparato del dominio della classe capitalistica sulla classe lavoratrice, lo Stato si è molto rafforzato. Fra l’altro proprio per due fattori che Lenin descrive come tipici della saldezza del dominio di classe nella forma democratico-borghese. In primo luogo, la proliferazione di un apparato burocratico – nel nostro caso anche europeo – e la delega, attraverso di esso, di alcune importanti funzioni dello Stato, in particolare il controllo dei bilanci pubblici e della moneta.

La critica al parlamentarismo di Lenin trova nuove conferme nella sostanziale estromissione dei Parlamenti nazionali (e del Palamento europeo) dalle decisioni non solo da parte della burocrazia europea – a partire dalla Bce – ma anche dalla Borsa e dalle banche, ossia da parte dei mercati finanziari: uno spread che sale ha un potere di condizionamento delle scelte politiche molto maggiore di un qualsiasi parlamento nazionale, che molto spesso è confinato in discussioni su fenomeni di importanza secondaria. Ma anche all’interno dello Stato tradizionalmente inteso il dominio del capitale si è rafforzato insieme al rafforzamento del potere degli esecutivi sui parlamenti e al rafforzamento dei distaccamenti armati, compreso il passaggio di quasi tutti gli stati europei al modello di esercito professionale, sempre più impiegato all’estero in operazioni spesso di vera e propria guerra e all’interno in funzioni di ordine pubblico. Il ricorso, sempre più frequente, all’emergenza, sia essa economica, di finanza pubblica o sanitaria, rafforza la tendenza al dominio statuale e alla concentrazione del potere non certo quella alla democrazia.

Inoltre, nei cento anni da Stato e rivoluzione abbiamo visto riemergere a più riprese, anche recentemente, quelle stesse concezioni opportuniste che Lenin criticava in Kautsky come le illusioni sul “sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro” e sulla “conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento”. Quindi, l’aspetto più attuale della teoria dello Stato leninista sta nella conferma della centralità del concetto di non neutralità dello Stato e nella impossibilità di usare così com’è la macchina statale ereditata dalla borghesia.

Un intervento rinnovato dello Stato nell’economia avrà, come si sta già dimostrando, un segno di classe preciso, cioè a favore del capitale. La non neutralità dello Stato è, però, un concetto centrale anche nel caso di eventuale conquista del potere politico, come Lenin non si stancava di sottolineare. Hanno fatto esperienza concreta di questa verità molti stati latino americani, dove la conquista del governo da parte di forze di sinistra ha lasciato intatta la macchina dello Stato e i suoi legami con la classe dominante, a partire dagli apparati polizieschi, militari e giudiziari, che, infatti, non hanno mancato, come ad esempio nel passato in Cile e più recentemente in Brasile, di incidere sugli esiti successivi del processo politico a danno dei partiti dei lavoratori. Se il Venezuela ha potuto resistere, almeno fino ad ora, è stato proprio perché l’apparato militare è sempre stato legato al governo.

Sono passati più di cento anni da Stato e Rivoluzione e dal Rinnegato Kautsky, e vanno sempre evitate letture dogmatiche che applichino in modo troppo meccanico qualunque teoria, anche la migliore, ma credo che, letta criticamente, la teoria leninista dello Stato possa fornirci dei fondamentali da cui partire che sono ancora oggi pienamente validi. L’insegnamento principale è la centralità della lotta contro lo Stato, anche per la formazione della coscienza di classe. Infatti, come sostiene Lenin nel Che fare? “Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza di classe è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo” .

 _______________

 Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori riuniti, Roma, 1974.

 Il golden power attribuisce al governo poteri di interdizione, indirizzo e orientamento nelle transazioni in settori e ambiti strategici (difesa, sicurezza nazionale, energia, trasporti, telecomunicazioni, ecc.)

 Lenin, Stato e rivoluzione, Editori riuniti, Roma 1981, pp.61-62.

 Max Weber, Economia e società, IV Sociologia politica, Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 4-10.

 Lenin, Stato e rivoluzione, p.65.

 Ibidem, p.69.

 Engels, cit. in Ibidem, p.67.

 Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Newton Compton Editori, Roma 1978, p.50.

 Kautsky, cit. in Lenin, Stato e rivoluzione, pp.199-200.

 Ibidem.

 Ibidem, p.196.

 Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, p. 35.

 Lenin, Che fare? In Trockij, Luxemburg, “Rivoluzione e polemica sul partito, Newton Compton editori, Roma, 1976, p.113.

 
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da The hobbit

Post n°15694 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Sul letto di morte, Thorin si riappacifica con Bilbo

«Thorin: Addio, buon ladro. Io vado ora nelle sale di attesa a sedermi accanto ai miei padri, finché il mondo non sia rinnovato. Poiché ora l'oro e l'argento abbandono, e mi reco là dove essi non hanno valore, desidero separarmi da te in amicizia, e ritrattare quello che ho detto e fatto alla Porta.
Bilbo: Addio, Re sotto la Montagna! Amara è stata la nostra avventura, se doveva finire così; e nemmeno una montagna d'oro può essere un adeguato compenso. Tuttavia sono felice di avere condiviso i tuoi pericoli: questo è stato più di quanto un Baggins possa meritare.
Thorin: No! In te c'è più di quanto tu non sappia, figlio dell'Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d'oro, questo sarebbe un mondo più lieto. Ma triste o lieto, ora debbo lasciarlo. Addio!»

Lo Hobbit

 
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Il volo di Pjatakov. La collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti

Post n°15693 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: libri, news

Proprio da inoppugnabili fonti e documenti di matrice antistalinista, a partire dagli archivi Trotskij di Harvard, sono emerse di recente una serie di clamorose rivelazioni che comprovano in modo sicuro la collaborazione diretta tra i nazisti al potere e Trotskij. In particolare, e contro le teorie ancora dominanti sull'assenza di mezzi e opportunità, risulta ormai certo che nel dicembre 1935 G. L. Pjatakov, allora vicecommissario per l'industria pesante sovietica, volò con l'aiuto dei fascisti tedeschi da Berlino in Norvegia per incontrarsi clandestinamente con Trotskij, con il quale ebbe un drammatico confronto proprio sulla questione dell'alleanza tattica con i nazisti. Andrebbero pertanto riscritti in buona parte i libri di storia sugli anni trenta e quaranta dello scorso secolo, con evidenti riflessi e ricadute anche sulla politica della sinistra contemporanea.

 

  • Copertina flessibile: 594 pagine
  • Editore: Pgreco (19 ottobre 2017)
  • Collana: Dossier
  • Lingua: Italiano
  • ISBN-10: 8868022095
  • ISBN-13: 978-8868022099
  • Peso di spedizione: 1,2 Kg
 
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da Il Signore degli Anelli: la traduzione di Vittoria Alliata

Post n°15692 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Gandalf rise sardonicamente. «Lo vedi? Si sta impadronendo di te, e anche tu, Frodo, già non riesci a sbarazzartene, e non hai più la volontà di distruggerlo. Ed io non ti potrei “costringere”, se non con la forza, cosa che sconvolgerebbe la tua mente. Ma quanto a rompere l’Anello, la forza è del tutto vana. Anche colpendolo con una mazza da fabbro, non lo scalfiresti nemmeno. Le tue mani e le mie mai lo potranno disgregare».
«Questo piccolo fuoco non fonderebbe certo nemmeno l’oro comune. L’Anello, nel bel mezzo di esso, non è stato minimamente danneggiato e non si è nemmeno riscaldato. Ma nessun fabbro e nessuna fucina in tutta la Contea sarebbero in grado di alterarlo. Nemmeno le fornaci e le incudini dei Nani vi riuscirebbero. È stato detto che il fuoco di drago può fondere e consumare gli Anelli del Potere, ma oggidì sulla terra non vi è un solo drago, il cui antico fuoco sia ancora vivo ed intenso a tal punto da riuscirvi; e comunque non è mai esistito un drago, nemmeno Ancalagon il Nero, che potesse danneggiare l’Unico Anello, l’Anello Dominante, poiché era stato forgiato da Sauron in persona».
«C’è una sola strada: trovare la Voragine del Fato, negli abissi dell’Orodruin, la Montagna di Fuoco, e lanciarvi l’Anello, se desideri effettivamente distruggerlo ed impedire per sempre al Nemico di impadronirsene».

[La Compagnia dell’Anello, “L’ombra del passato”
Immagine tratta dalla trilogia cinematografica di Peter Jackson]

Radagast

 
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Editoria: 70% editori verso la cassa integrazione, 21.000 in meno i titoli pubblicati

Post n°15691 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Il mondo dei libri e dell'editoria italiana ha subito notevoli perdite a causa della pandemia da Coronavirus. I dati, raccolti il 15 aprile, dimostrano come i 2/3 degli editori abbiano programmato la cassa integrazione per superare il periodo di difficoltà e si stimano oltre 21.000 titoli non pubblicati.

Secondo quanto riporta un comunicato stampa dell'AIE, Associazione Italiana Editori, la situazione dell'editoria durante il periodo di emergenza Coronavirus continua a peggiorare.

"Sempre più editori ricorrono alla cassa integrazione, le nuove uscite vengono riprogrammate e cresce il numero di chi si dice preoccupato dalla crisi: l’emergenza sanitaria travolge la filiera del libro secondo l’ultima rilevazione (la terza, riferita ai dati raccolti al 15 aprile) dell’Osservatorio dell’Associazione Italiana Editori (AIE) sull’impatto che il Covid-19 avrà quest’anno sull’intera editoria italiana" si legge nel comunicato stampa di AIE.

"In quindici giorni – dal 30 marzo al 15 aprile – si passa da un 31% che iniziava a farvi ricorso a un 52%. Nel complesso tra chi vi sta già facendo ricorso e chi «non ancora, ma ci sta pensando» (o magari sta espletando la documentazione) dal 64% di fine marzo si passa in quindici giorni al 70% delle imprese" spiega AIE nel comunicato riguardo alle percentuali di editori che fanno ricorso alla cassa integrazione per sopperire alla crisi.

"Per il periodo maggio-agosto la percentuale di chi decide di temporeggiare con le uscite rimandandole ulteriormente sale al 42% (era il 34% il 30 marzo). Si punta in modo particolare sull’ultima parte dell’anno: solo l’8% degli editori, in calo rispetto alle precedenti rilevazioni (era il 13% il 30 marzo), immagina di rinviare i titoli di settembre-dicembre, sperando in un recupero natalizio. Ad oggi, anche se si concretizzerà il recupero, questo si tradurrà in 21mila titoli pubblicati in meno nel corso dell’intero anno, 12.500 novità in uscita bloccate, 44,5 milioni di copie che non saranno stampate e 2.900 titoli in meno da tradurre", afferma AIE, aggiungendo che per ora solo gli ebook riescono a mantenersi attivi attraverso il mercato online.

Nel frattempo, dal 14 aprile, numerose librerie, cartolibrerie e negozi di abbigliamento per bambini sono stati riaperti secondo il DPCM del 10 aprile con le dovute misure di sicurezza, anche se non su tutto il territorio italiano. La riapertura di queste attività è infatti proseguita in modo diverso in base alle varie regioni.

 
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La lista di libri raccomandati dal presidente cinese Xi Jinping diventa virale sui social da antidiplomatico

Post n°15690 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

La lista di libri raccomandati dal presidente cinese Xi Jinping diventa virale sui social
 
 

Una lunga lista di libri raccomandati dal presidente cinese Xi Jinping è diventata virale sui social media cinesi giovedì, Giornata mondiale del libro. Molti netizen hanno gradito, condiviso e commentato l’elenco diffuso dal presidente cinese, affermando che Xi e i libri li hanno ispirati.

 

 

L'elenco di libri, pubblicato dal People's Daily sulla sua app mobile è il risultato di un riassunto di precedenti articoli comparsi su People's Daily, China Central Television e Xinhua News Agency, in cui Xi ha menzionato o citato i libri in relazioni pubbliche o in suoi discorsi passati. 

 

In cima alla lista ci sono opere classiche del marxismo-leninismo come il Manifesto del Partito Comunista e Imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin.  Xi ha affermato che il Manifesto è uno scrigno di ricche teorie ed è degno di ripetuti apprendimenti e approfonditi studi da cui attingere l'alimentazione ideologica.

 

In termini filosofici e di giurisprudenza, Xi ha commentato Origine e Senso della Storia, dicendo che il motivo per cui la nazione cinese ha goduto dello status significativo e dell'influenza dai tempi antichi a quelli moderni è dovuto al forte fascino della cultura cinese piuttosto che alla pratica di potenza militare ed espansione in terre straniere.

 

Stories to Enlighten the World, Stories to Caution the World e Stories to Awaken the World sono alcuni dei classici cinesi che Xi ha detto di aver letto ogni giorno per un certo periodo di tempo, nella misura in cui poteva recitare molti degli epigrammi in essi contenuti.

 

Xi è anche lettore delle opere della moderna letteratura cinese, come quelle di Jia Dashan. Xi ha reso noto di aver letto diversi romanzi di Jia, ed è rimasto spesso colpito dal suo linguaggio umoristico, dalle analisi filosofiche, dalle rappresentazioni belle e veritiere e dalle trame sottili e uniche.

 

Xi legge anche molti classici stranieri, tra cui i drammi di Shakespeare. Ha detto di essere attratto dagli alti e bassi delle trame, dai personaggi vividi e dalle emozioni toccanti rivelate nelle opere teatrali.

 

Xi ha affermato che quando era giovane e lavorava nella povera terra gialla del nord dello Shaanxi, continuava a pensare alla domanda "Essere o non essere" e alla fine decise di dedicarsi alla madrepatria e alla gente.

 

Molti altri libri di generi diversi, tra cui classici, opere moderne, cinesi e straniere, sono inclusi nell'elenco.

 

La lista di libri, pubblicata anche sull'account WeChat del People's Daily, ha ottenuto oltre 100.000 visualizzazioni.

 

"Al presidente Xi piace leggere e imparare. È una fonte d'ispirazione per noi!" si legge un commento tipico sotto l'elenco dei libri, apprezzato oltre 13.000 volte fino a questo momento.

 

"Non ne ho letti tanti, ma ne ho letti uno o due in ciascun genere”. "Ho aggiunto questo elenco di libri al mio preferito e inizierò a leggere dai classici cinesi”. "Spero che non sia troppo tardi per iniziare a leggere ora", hanno detto molti netizen.

 

Altri utenti hanno condiviso esperienze di lettura simili. 

 

Un'altra delle liste di libri di Xi riassunte giovedì da cpcnews.cn, il sito web di notizie del Partito Comunista Cinese, ha spiegato che Xi legge da quando era giovane, e ha sottolineato che i funzionari del governo devono leggere libri.

 

Il sito Web ha anche classificato i libri in base al paese di origine e ha dimostrato che Xi ha letto molti libri non solo dalla Cina, ma anche da Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, India e Grecia antica.


Fonte: Global Times
Notizia del: 23/04/2020
Notizia del: 23/04/2020

 
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Calamandrei e la resistenza

Post n°15689 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

"Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione." Piero Calamandrei

 
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Antonio Gramsci - Scrtti giovanili

Post n°15688 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Antonio Gramsci - Indifferenti

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

11 febbraio 1917 (Scritti giovanili)

 
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Sandro Pertini 25 aprile 1945

Post n°15687 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

"Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l'occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire."

 
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I ribelli della montagna

Post n°15686 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

(Sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. Antonio Gramsci, Scritti Giovanili.
Sono Pinotti Avio nome di battaglia ATOS)

Dalle belle città date al nemico
fuggiammo via su per le aride montagne
cercando libertà tra rupe a rupe
contro la schiavitù del suol tradito

lasciammo case, scuole ed officine
mutammo in caserme le vecchie cascine
armammo le mani di bombe e mitraglia
temprammo cuori e muscoli in battaglia

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella legge che ci accompagna
sarà la fede dell'avvenir

La giustizia è la nostra disciplina
libertà è l'idea che ci avvicina
rosso sangue è il color della bandiera
partigiani dalla folta ardente schiera

SUlle strade dal nemico assediate
lasciammo talvolta le carni straziate
sentimmo l'ardore per la grande riscossa
sentimmo l'amor per patria nostra

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella legge che ci accompagna
sarà la fede dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella legge che ci accompagna
sarà la fede dell'avvenir

Siamo i ribelli della montagna
viviam di stenti e di patimenti
ma quella fede che ci accompagna
sarà la legge dell'avvenir

(Io raccomando a voi che siete studenti
quando raggiungete un posto di responsabilitànella società
fate in modo di lavorare per la pace)

 
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Bella ciao

Post n°15685 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Una mattina mi sono alzato
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
una mattina mi sono alzato
e ci ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
o partigiano, portami via
che mi sento di morir.

E se muoio da partigiano
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
e se muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.

Seppellire lassù in montagna
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
seppellire lassù in montagna
sotto l"ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
e le genti che passeranno
e diranno: o che bel fior!.

E" questo il fiore del partigiano
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
è questo il fiore del partigiano
morto per la libertà

 
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Calvino e la resistenza

Post n°15684 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant'era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere.
ITALO CALVINO

 
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Paolo Secchia e la resistenza

Post n°15683 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

L'origine di classe del fascismo fu chiara dall'inizio. Le squadracce in camicia nera reagivano agli scioperi dei lavoratori con le armi e i manganelli, rispondevano con il terrore e le stragi alle lotte degli operai e dei contadini. Tra gli applausi dei capitalisti e della monarchia, il fascismo realizzò la sua ascesa con l'unica opposizione del movimento operaio e fu la dittatura feroce e reazionaria del grande capitale monopolistico.

Il fascismo vide fin da subito nella classe operaia il suo principale nemico e fu proprio grazie ad essa che fu sconfitto: dagli scioperi del marzo del 1943 che coinvolsero oltre 100.000 lavoratori nel Nord Italia, ai sabotaggi alla produzione bellica nazifascista, alle brigate partigiane in montagna e nelle città, la classe operaia si pose alla testa del movimento di liberazione, incarnando le aspirazioni più profonde di rinnovamento sociale del popolo italiano.

La Resistenza partigiana fu anche una lotta per costruire una società diversa e porre fine alla guerra e allo sfruttamento, che aveva visto nel fascismo il suo rappresentante più feroce.

 
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VIVA IL 25 APRILE!!!

Post n°15682 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

In occasione del 75esimo anniversario della liberazione ricordiamo l’indispensabile contributo alla lotta contro il nazifascismo fornito dal Partito Comunista Italiano e dalle sue formazioni partigiane, le Brigate Garibaldi. I partigiani garibaldini erano la componente più numerosa e combattiva delle forze resistenziali e rappresentarono la spina dorsale dell’intero movimento di liberazione nazionale che culminò con l’insurrezione vittoriosa del 25 aprile. Oggi il loro ruolo e più in generale il ruolo dei comunisti nella lotta di liberazione viene costantemente sottostimato, quando non sistematicamente rimosso o criminalizzato da un revisionismo storico sempre più in voga.
vogliamo ricordare che furono i comunisti i primi a comprendere la necessità della lotta armata di popolo contro la macchina bellica nazifascista, furono i comunisti a fornire i quadri più preparati e valorosi all’intera causa della liberazione, furono i comunisti ad organizzare militarmente le prime bande armate costituitesi all’indomani dell’8 settembre e a trasformarle in “formazioni modello” per l’intero movimento partigiano. I partigiani comunisti combattevano, oltre che per la sconfitta del mostro nazifascista, per un’Italia diversa, un’Italia libera dallo sfruttamento, dalle disuguaglianze e dall’oppressione che ancora oggi continuano a imperversare in misura sempre maggiore nel nostro paese.
A distanza di 75 anni dalla liberazione, restano attuali gli ideali che animarono la lotta eroica dei partigiani garibaldini. Una nuova generazione di comunisti è pronta a raccogliere il testimone di quella lotta per condurla fino alla vittoria. Viva le Brigate Garibaldi!

 
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Quel giorno d'Aprile - F.Guccini

Post n°15681 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Il cannone è una sagoma nera contro il cielo cobalto ed il gallo passeggia impettito dentro il nostro cortile se la guerra è finita perché ti si annebbia di pianto questo giorno d'aprile Ma il paese è in festa e saluta i soldati tornati mentre mandrie di nuvole pigre dormono sul campanile ed ognuno ritorna alla vita come i fiori dei prati come il vento di aprile E la Russia è una favola bianca che conosci a memoria e che sogni ogni notte stringendo la sua lettera breve le cicogne sospese nell'aria il suo viso bagnato di neve E l'Italia cantando ormai libera allaga le strade sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce e tua madre prendendoti in braccio piangendo sorride mentre attorno qualcuno una storia o una vita ricuce e chissà se hai addosso un cappotto o se dormi in un caldo fienile sotto il glicine tuo padre lo aspetti con il sole d'aprile E' domenica e in bici con lui hai più anni e respiri l'odore delle sue sigarette e del fiume che morde il pontile si dipinge d'azzurro o di fumo ogni vago timore in un giorno di aprile Ma nei suoi sogni continua la guerra e lui scivola ancora sull'immensa pianura e rivela in quell'attimo breve le cicogne sospese nell'aria, i compagni coperti di neve E l'Italia è una donna che balla sui tetti di Roma nell'amara dolcezza dei film dove canta la vita ed un papa si affaccia e accarezza i bambini e la luna mentre l'anima dorme davanti a una scatola vuota Suona ancora per tutti campana e non stai su nessun campanile perché dentro di noi troppo in fretta ci allontana quel giorno di aprile.

 
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Buon 25 aprile!!!

Post n°15680 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

"Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA"

Buon 25 aprile!

 
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Luigi Longo, introduzione al libro Chi ha tradito la Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975 (4a parte)

Post n°15679 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

La vecchia e la nuova Resistenza — concludevo — si ritrovano, in uno slancio comune contro ogni residuo fascista, contro ogni prepotenza poliziesca, contro ogni involuzione reazionaria e clericale dei gruppi dirigenti. Esse vogliono una politica di progresso civile e sociale, di dignità nazionale e di pace, come sta scritto nella Costituzione».

Mi pare che questo sia un momento nodale, di svolta, dal quale non si può prescindere se si vogliono comprendere pienamente i processi unitari che si sviluppano e costituiscono la nota dominante nel periodo compreso tra la fine degli anni ‘6o e i nostri giorni.

È un fatto che la grande riscossa antifascista unitaria del ‘6o prepara quella operaia degli anni ’68-69; contiene in sé i fermenti delle lotte studentesche e giovanili e della partecipazione sempre estesa e combattiva delle masse femminili a tutte le lotte democratiche nelle quali le donne portano l’antica sete di emancipazione, rivendicando un ruolo adeguato in una società nuova, più libera, più giusta e progredita.

Una nuova unità operaia, popolare, democratica e antifascista crescerà e si consoliderà in questi ultimi anni sulla base delle grandi lotte di massa e delle importanti conquiste realizzate attraverso queste lotte. Cresce il peso dei lavoratori, nuovo spazio viene conquistato alla partecipazione democratica delle masse popolari, si estende, pressante e generale, la richiesta di profonde riforme indispensabili per affrontare i problemi sempre più gravi e complessi che, da un lato, sono il portato della politica conservatrice attuata dalla Dc, e, dall’altro, derivano dallo stesso sviluppo del paese avvenuto in forme disordinate e con drammatici squilibri. Sono questi processi a mettere sempre più in difficoltà e, infine, a fare esplodere la crisi della politica dei governi di centro sinistra.

La dominante unitaria di questi processi contesta e mette in crisi quello che è un elemento permanente, un cardine della politica democristiana: la discriminazione pregiudiziale, la preclusione nei confronti del partito comunista. Di fatto si tratta del tentativo ostinato di precludere, col pretesto dell’anticomunismo, l’accesso alla direzione politica del paese delle masse lavoratrici che, per tanta parte, sono rappresentate dal Pci e di cui il nostro partito esprime istanze, bisogni e porta avanti positive proposte.

Il tentativo ostinato dei dirigenti democristiani di eludere le spinte nuove del paese, di ignorare i problemi nuovi che sorgono da queste spinte e che esigono di essere affrontati con una politica nuova, con nuovi metodi di governo, con l’apporto di nuove forze, finisce per esasperare e approfondire la crisi che in ogni campo travaglia il paese.

Come uscire da questa crisi? Le nostre prese di posizione di questi anni insistono su una indicazione di fondo: per affrontare la crisi italiana, per avviarla a sbocchi positivi, occorre tornare — nelle nuove condizioni di oggi — sulla strada maestra indicata dalla Resistenza, sulla via, cioè, del confronto aperto, delle intese e di un lavoro comune delle grandi componenti popolari — comunista, socialista, cattolica — che furono il nerbo della lotta per riconquistare la libertà e l’indipendenza della patria.

Ecco, una grande idea, un grande obiettivo che viene proposto ai giovani in occasione del ventennale della liberazione. Una generazione imbracciò le armi contro il nazifascismo perché in Italia sorgesse una nuova società libera e giusta; le forze del passato hanno fatto blocco per ricacciare indietro il paese; alla nuova generazione il compito di portare avanti la rivoluzione democratica e antifascista.

Ma per far fronte a questo grande compito è anche indispensabile tradurre nell’azione, nel lavoro, nell’impegno di tutti i giorni gli insegnamenti della Resistenza. Da qui un maggiore approfondimento, cui abbiamo cercato di contribuire, nell’analisi di ciò che fu la Resistenza, della collocazione e del ruolo che nel seno stesso della Resistenza ebbero le sue diverse componenti, dei non facili rapporti tra queste componenti e della nostra costante ricerca dell’unità che fu alla base di questa vivace dialettica.

Del 2 giugno 1969 è l’invito rivolto a tutte le forze democratiche e antifasciste ad una riflessione, ad una comune assunzione di responsabilità per attuare integralmente, sulla base dei problemi concreti delle masse popolari e del paese, i contenuti e gli obiettivi della Costituzione, il cui svuotamento e insabbiamento è la costante del ventennale regime democristiano. Si pone il problema di rinnovare e di rispettare il patto unitario che, in sostanza, presiedette alla nascita della repubblica e al varo della Costituzione.

E’ chiaro, tuttavia, che nuove e più vaste lotte unitarie saranno necessarie per raggiungere questo obiettivo. In effetti una realtà nuova e matura emerge nel paese: dalla forza, dalla combattività, dall’unità del movimento operaio nelle lotte per una politica di riforme e di programmazione economica; dalle vigorose risposte di decine di milioni di democratici e antifascisti alle sanguinose sfide della destra; dalla volontà dei cittadini, dei giovani, delle donne di partecipare alla gestione e al controllo della vita pubblica; da una rete sempre più forte e ricca di organismi democratici unitari; dall’intervento nelle lotte democratiche e antifasciste di vasti e nuovi settori di intellettuali.

Da questa realtà nuova che emerge e che si manifesta con un peso sempre più grande, vengono duri colpi alla teorizzazione e alla pratica dell’anticomunismo. Sempre più ampio è il riconoscimento della funzione decisiva del Pci come grande forza operaia, popolare e democratica, garante delle istituzioni democratiche, e fattore determinante di una politica di rinnovamento e di risanamento della società e dello Stato.

Ma proprio contro questa realtà, ancora una volta per bloccarla, per ricacciare indietro il paese, si muovono su tutti i piani forze consistenti, giocando non solo la carta dello scontro frontale ma anche quella della provocazione sanguinosa e dell’avventura.

Di fronte al dispiegarsi della strategia della tensione e della provocazione, al moltiplicarsi delle stragi e dei crimini fascisti, volti a creare un clima di terrore e di caos ed a giustificare avventure autoritarie, le nostre indicazioni, proposte, richieste muovono nel grande solco della più ampia unità antifascista. Questa e non altra è la via per garantire che qualsiasi attacco alle istituzioni democratiche sarà sconfitto, per isolare e colpire i responsabili, i complici ed i mandanti dei crimini fascisti.

Si tratta, anzitutto, di lottare tenacemente per esigere che i pubblici poteri, preposti alla difesa delle istituzioni, facciano il loro dovere, stroncando la criminalità fascista. Si tratta di far luce sui tanti punti oscuri che costellano le indagini sulle delittuose trame fasciste e sui complotti eversivi venuti alla luce. Al tempo stesso non si può passare un colpo di spugna sulle gravi responsabilità che la Dc si è assunta con la sua politica, col suo modo di governare, che hanno consentito e persino incoraggiato le reviviscenze fasciste e altolocate protezioni e complicità nei confronti dei fascisti. I dirigenti democristiani che cercano di trar partito dalla teoria degli «opposti estremismi» devono invece spiegare al popolo italiano perché a trent’anni dalla liberazione è possibile l’esistenza di una trama fascista la quale osa attentare alle istituzioni democratiche e continua a spargere sangue innocente.

È un fatto che, imperando la legge dell’anticomunismo, è stata tollerata e resa possibile l’infiltrazione della destra fascista anche nei gangli più delicati dello Stato, se è vero come è vero che ammiragli italiani in prestito alla Nato e generali in servizio effettivo sono apparsi impigliati nella «trama nera» o sono usciti allo scoperto accanto ai caporioni del partito neofascista.

Nel paese è sorto uno schieramento vastissimo che isola il fascismo e dimostra che l’Italia del ’22 non potrà tornare più. Ma questo non basta. E’ necessaria una mobilitazione, una lotta, una pressione costante e incisiva, per mutare profondamente la situazione. Occorre liquidare l’anticomunismo che è stato alla base della degenerazione antidemocratica. Se non si supera il punto morto al quale i dirigenti democristiani hanno portato la direzione del paese si dà spazio alla reazione e alla destra. In primo luogo, alle forze democratiche antifasciste cattoliche chiediamo di contribuire a creare una situazione nuova, nella quale pesi e incida di più la grande forza unitaria dei lavoratori, dello schieramento democratico e antifascista.

Il voto del 15 giugno 1975 ha confermato quanto siano profonde e salde le radici che l’antifascismo e gli ideali progressivi della Resistenza hanno messo nella coscienza del nostro popolo.

La grande avanzata elettorale del Pci, la più grande che il nostro partito abbia realizzato dal 1946 in poi, «è stata ottenuta — come ha sottolineato una risoluzione della direzione — grazie ad una impostazione politica che ha le sue origini lontane per la repubblica e la Costituzione». Questa linea, confermata e sviluppata dal XIV Congresso nazionale del Pci, «fa della ricerca dell’unità tra tutte le forze democratiche e popolari la questione centrale per il superamento della crisi profonda che attraversa l’Italia e per l’avvio e la realizzazione, nella democrazia, delle necessarie trasformazioni economiche, sociali e politiche».

Su questa linea il nostro popolo è andato avanti, ha rinsaldato la sua unità, ha conquistato nuovi spazi democratici e li ha consolidati per affrontare le nuove battaglie sempre più forte e unito. Su questa linea, sulla linea della Resistenza, possiamo essere certi che il popolo italiano potrà costruire un migliore avvenire.

«Ora — diceva il compagno Togliatti al IX Congresso del nostro partito, sottolineando il carattere di “rivoluzione democratica” avuto dalla Resistenza — si tratta di riprendere l’opera e di condurla a termine ed esistono già, tra le forze che ebbero una parte nella Resistenza ed abbatterono il fascismo, legami tali, storicamente e politicamente non sopprimibili, che consentono di considerare non solo necessario ma possibile che a quest’opera ed al suo coronamento esse diano tutta la loro collaborazione. Lo spirito, il programma, le tradizioni dell’antifascismo, la grande esperienza positiva delle sue lotte e delle sue vittorie sono un faro che deve guidare tutta la nostra azione».

Luigi Longo, introduzione al libro Chi ha tradito la Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975

 
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Luigi Longo, introduzione al libro Chi ha tradito la Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975 (3a parte)

Post n°15678 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Può darsi che da parte nostra ci sia stata, allora, qualche timidezza, qualche eccesso di prudenza nel ricorso a forme, diciamo, più energiche di lotta politica e sociale. Era certamente presente in noi la giusta preoccupazione di evitare e comunque di non offrire alcun pretesto allo scatenamento di una aperta offensiva reazionaria che si proponesse di mettere ancora una volta fuori gioco il partito comunista. Nel calcolo del rischio prevalse la tendenza ad evitare in partenza duri confronti con le forze reazionarie, con il padronato, con l’apparato repressivo di cui ancora oggi il suo relatore, l’ex ministro Scelba, mena vanto.

Può anche darsi che elementi di questo tipo abbiano a suo tempo avuto un loro peso. Ma bisogna contemporaneamente ricordare che lotte anche dure, aspre e sanguinose vi furono; vi furono scontri di classe drammatici (le grandi lotte per la riforma agraria con le occupazioni dei feudi; gli scioperi a rovescio delle masse dei disoccupati; le occupazioni di fabbriche per garantirne la sopravvivenza e lo sviluppo, ecc.) che diedero anche dei risultati. E bisogna ammettere, altresí, che anche se da parte nostra poterono esservi posizioni come quelle a cui ho accennato, esse in ogni caso non impedirono alle forze reazionarie di condurre, egualmente, contro il movimento operaio, contro i comunisti e i socialisti un’azione dura, violenta, anche sanguinosa, di persecuzione e di repressione.

Questo, infatti, è stato l’indirizzo seguito e attuato per molti anni dal momento in cui, nel 1947, De Gasperi ruppe, anche formalmente, il patto unitario della Resistenza, estromettendo dal governo i partiti di sinistra. Questa rottura, commentammo subito, equivale ad un vero e proprio colpo di Stato. È l’ipoteca dell’imperialismo americano che incombe e continuerà a gravare sul nostro paese, nonostante la partenza dall’Italia degli ultimi soldati americani, ai quali già subentrano «consiglieri», missioni e agenti statunitensi, in tutti i campi della nostra attività nazionale, prima ancora che l’Italia aderisca al Patto Atlantico. De Gasperi si fa strumento di questa soggezione all’ombra della quale la borghesia italiana si preoccupa di consolidare ed estendere il proprio predominio nella fabbrica, nello Stato, su tutta la società.

Commentando il colpo di mano di De Gasperi, Togliatti sottolineerà appunto il significato di rottura che esso viene ad assumere nel processo avviato dalla Resistenza: «Che cosa vuoi dire — scrive Togliatti — escludere dal governo — e senza il minimo motivo giustificato — i partiti, come il nostro e il socialista, che più direttamente sono legati alle classi lavoratrici? Vuol dire distruggere o tentare di distruggere la più grande conquista (dopo quella della repubblica) realizzata dal popolo italiano attraverso la guerra di liberazione e l’insurrezione nazionale antifascista. Vuol dire cancellare (o tentare di cancellare) la più grande novità, vorrei dire la più grande speranza della vita politica italiana in questo inizio di ricostruzione e rinascita democratica. Dal 1900 in poi (anzi, forse anche da prima) tutta la vita politica italiana gira attorno a questo problema dell’avvento dei partiti delle classi lavoratrici alla direzione politica del paese» («l’Unità», maggio 1947).

I dirigenti democristiani, scegliendo la via della rottura dell’unità democratica, popolare e antifascista, — osservavamo — tradiscono lo spirito col quale gli stessi lavoratori cattolici e democristiani hanno combattuto insieme con noi comunisti per quel nuovo regime democratico di cui la struttura politica unitaria del governo era una delle principali garanzie. Da qui l’appello nostro a tutti i combattenti della Resistenza perché non rinunciassero agli ideali comuni, perché pretendessero che i vertici politici e quello della Dc, in particolare, non tradissero il mandato loro affidato.

Bisogna ammettere, tuttavia, che la stessa Resistenza, o meglio gli uomini e i gruppi che ad essa più attivamente e coerentemente avevano partecipato, non riescono, nel clima di guerra fredda, a ritrovare quella unità e quella decisione che avevano dimostrato in passato, per respingere e condannare l’aperto tradimento dei propri ideali ed obiettivi. Certo, le fratture e le divisioni conseguenti alla guerra fredda furono assai profonde e passavano attraverso tutti gli schieramenti. Ma oggi possiamo anche ritenere che una più convinta, tempestiva e coerente iniziativa unitaria, nei confronti delle diverse componenti della Resistenza e dell’antifascismo, avrebbe potuto rendere meno profonde e meno durature quelle divisioni e rotture.

Intanto la politica dei governi «centristi», dominati dalla Dc, sbanda sempre più a destra, e in questa rincorsa a destra sarà inevitabile persino l’incontro tra i settori più reazionari della Dc con i relitti di Salò (i voti del Msi al sindaco di Roma Rebecchini) che così vedono legittimato il loro rientro sulla scena politica. In questo modo, — osservavamo, allora, — è la stessa tradizione antifascista della Dc, del vecchio partito popolare, ad essere offesa e spezzata dalla politica degasperiana.

Quanti non intendevano rinnegare l’esperienza vittoriosa della guerra di liberazione vengono da noi chiamati, in vista delle elezioni politiche dell’aprile 1948, a raccogliersi nelle file del fronte popolare. Si è discusso e, certamente, si continuerà a discutere sulla giustezza e opportunità di questo schieramento, con il quale le forze di sinistra affrontarono quella importante prova elettorale. Certo è che a quella formula si giunge, da un canto, per una tendenza ad arroccarsi in difesa, per fronteggiare l’offensiva reazionaria, e, dall’altro, nella convinzione, rivelatasi poi infondata, che da uno scontro frontale, blocco contro blocco, sarebbe scaturita una decisiva vittoria delle forze operaie e di sinistra.

A conti fatti, però, la carta decisiva, del 18 aprile 1948, fu quella del ricatto della fame e della paura, giocata spregiudicatamente dalla Dc sull’onda di una campagna anticomunista che ricalcava quelle del fascismo.

La massiccia mobilitazione della Chiesa, il peso delle forze internazionali schierate a suo sostegno consentirono, allora, alla Dc di conseguire quella forza che le permetterà di accelerare la marcia a destra, di inasprire l’offensiva contro le forze popolari, contro i lavoratori contro le sinistre e i democratici e di elevare a legge suprema, sua e dei suoi alleati, la discriminazione anticomunista.

Si apre la fosca stagione degli eccidi di operai e contadini, della brutale repressione di classe esercitata dagli organi polizieschi dello Stato contro i cittadini che chiedono lavoro, contro i lavoratori che reclamano condizioni umane nelle fabbriche, contro quanti manifestano per la pace o per avere il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero.

È da questo clima politico che nasce l’attentato al compagno Togliatti. In un momento così grave, di così acuta tensione — mentre esplode nel paese la collera e la commozione popolare — tocca a noi levare un monito fermo e responsabile nei confronti delle forze che sono responsabili dirette o indirette di questa profonda rottura della nazione, che soltanto con il ritorno al patrimonio di unità e di solidarietà nazionale della Resistenza può essere sanata.

Al governo che mostra di voler cavalcare sino in fondo la tigre dell’anticomunismo e della divisione degli italiani diciamo: «Troncate la vostra politica di violenza se non volete gettare il paese nella guerra civile. Senza lasciarci fuorviare dalle vostre provocazioni né intimidire dalle vostre minacce, siamo decisi a non lasciar calpestare le libertà popolari duramente conquistate nella lotta contro i nazifascisti. Le leggi fasciste vengono adoperate per calpestare i diritti del popolo e mentre viene assicurata impunità ai neofascisti si scatena la violenza contro l’opposizione popolare».

Eppure la Dc e il blocco di forze conservatrici che, attorno allo scudo crociato, sta costruendo nuovi equilibri di potere, si mostrano decisi a percorrere sino in fondo la strada della divisione e del tradimento della Resistenza. così, atti alla mano, in un discorso alla Camera, all’inizio del 1949, dovevamo rilevare che in carcere c’erano i partigiani, e non i loro seviziatori; che proseguivano su larga scala gli arresti illegali ed arbitrari di partigiani, mentre i fascisti continuavano ad avere mano libera.

Vergognoso risultava a questo punto il tentativo dei governanti di volersi creare un alibi attribuendo la responsabilità della reviviscenza fascista alla «amnistia Togliatti». Non era stata affatto quella amnistia a dar via libera ai rigurgiti fascisti. Era stato il modo di interpretarla e di applicarla. Ma, soprattutto, era la politica reazionaria dei governi a direzione democristiana a dare spazio e voce agli eredi del fascismo i quali trovavano un terreno di obiettiva convergenza con le forze clericali e conservatrici nella lotta sfrenata contro i comunisti, i socialisti, contro il movimento popolare.

In questa situazione, le stesse ricorrenze partigiane infastidiscono i governanti «centristi ». Se la Costituzione viene definita da Scelba una «trappola», la Resistenza è per il governo, per i dirigenti della Dc un fastidioso ingombro, qualcosa di imbarazzante, cui tutt’al più, si può dedicare il frettoloso discorso di un qualche sottosegretario.

Ma la Resistenza non può esaurirsi nelle celebrazioni rituali, affermavamo in un raduno partigiano tenuto a Venezia il 25 aprile del 1950. Obiettivi concreti e ideali della Resistenza sono minacciati o restano irrealizzati, come — anzitutto — il diritto di tutti i cittadini a partecipare alla soluzione dei problemi della nazione, che fu l’essenza stessa della Resistenza, dopo vent’anni di soffocante dittatura fascista esercitata sui lavoratori e contro i lavoratori. Si tratta, dunque, di riprendere uniti la lotta non solo per difendere questi ideali, ma per realizzarli concretamente.

Intanto è la stessa struttura degli apparati e dei corpi dello Stato a risentire le conseguenze e a riportare guasti assai gravi da un indirizzo di governo che ripudia pregiudizialmente l’indicazione e il programma unitario della Resistenza. Nel 1951, essendo in discussione alla Camera il bilancio della difesa, denunciavamo che tutta l’organizzazione militare italiana dipendeva, praticamente, dagli Stati Uniti e che a generali fascisti era consentito di complottare contro le istituzioni repubblicane. Come si vede era stato già apprestato un ottimo terreno di coltura per le future attività di organizzazioni fasciste (come la Rosa dei venti) in seno alle forze armate e per le velleità «golpiste» di qualche alto ufficiale infedele al giuramento di servire lealmente la repubblica e di difendere gli ordinamenti democratici.

Una prova delle conseguenze aberranti della politica anticomunista e della rottura della solidarietà antifascista si ebbe, del resto, in occasione delle elezioni amministrative del 1951-52, con la proposta avanzata da don Luigi Sturzo e caldeggiata dalle autorità vaticane, di realizzare una vera e propria alleanza tra Dc e Msi per la conquista del Campidoglio.

Il progetto cadde per l’opposizione di una parte della Dc e dello stesso De Gasperi. Resta il fatto significativo che un progetto del genere fosse stato avanzato a pochi anni di distanza dalla liberazione, da un uomo, come il fondatore del vecchio partito popolare che pure, in un passato non troppo lontano, aveva dato un personale e battagliero contributo alla tradizione dell’antifascismo cattolico. Quelle elezioni, però, segnarono una sconfitta elettorale della Dc la quale vistasi premuta, a sinistra, da una avanzata delle forze democratiche, e a destra da una affermazione monarchica, tenterà di dare, attraverso la «legge elettorale truffa», un carattere definitivo, di «regime» al proprio predominio politico. La sconfitta di questo deleterio progetto, sancita dal voto del ’53, segnerà la fine del settennio degasperiano e l’inizio dell’esaurimento della coalizione centrista e poi della faticosa gestazione del centrosinistra.

In questa lunga e tormentata fase di trapasso, come si può rilevare dai testi relativi a questo periodo, dietro la facciata «centrista», i dirigenti democristiani continuano a portare avanti, concretamente, un’opera di denigrazione della Resistenza, una «crociata antipartigiana», basata anche su falsi clamorosi e su grossolane montature, che fanno da pendant all’appello alla «solidarietà nazionale», esteso fino ai fascisti, che De Gasperi lancia allo scoppio della guerra di Corea, accompagnandolo con la proposta di misure eccezionali da adottare contro la «quinta colonna» indicata nel movimento operaio e nei comunisti.

Di fronte a questa china assai pericolosa la Resistenza ha un sussulto e dà una prima, ferma risposta a questi gravi propositi. La nostra denuncia degli scandalosi amoreggiamenti tra la Dc e le forze monarchico-fasciste, del tentativo di ricostituire, con cemento anticomunista e antipartigiano, lo stesso blocco conservatore e reazionario sfasciatosi il 25 aprile del 1943, è accompagnata da energici appelli all’unità di tutti i resistenti, di tutte le forze democratiche, contro ogni ritorno fascista. Si tratta – dicevamo – di ritrovare la strada unitaria di un impegno comune dando rilievo a ciò che ha unito gli antifascisti.

In un discorso pronunciato al Senato, il compagno Pietro Secchia leva la sua voce di dirigente della Resistenza contro quello che definisce «il tentativo delle forze fasciste di fare la loro vendetta». Si sviluppano nel paese i Comitati per la difesa dei valori della Resistenza a Roma, Napoli e Venezia; le tre grandi associazioni partigiane riunite confermano un impegno preciso «per l’unità della Resistenza, la difesa della Costituzione, contro il risorgere del fascismo».

Questo energico sussulto dimostra che nonostante i tradimenti, nonostante l’opera metodica di svuotamento, nonostante la seminagione di odio e di divisione fatta dalle forze conservatrici, la Resistenza è ancora una volta in prima linea e intende far sentire la sua voce. Dimostra, al tempo stesso, che i valori universali e gli obiettivi di rinnovamento di cui la Resistenza è stata portatrice non possono perire e restano la base valida per l’intesa e la collaborazione di tutte le forze che vogliono pace, libertà, democrazia.

Sarà il grande moto unitario antifascista del luglio ‘6o, esploso contro il tentativo del democristiano Tambroni di governare con l’appoggio dichiarato e determinante del partito neofascista, a segnare l’inizio di una generale riscossa della Resistenza e dell’antifascismo. La ribellione popolare di Genova contro la provocatoria pretesa, sostenuta dal governo, di fare svolgere nel capoluogo ligure il congresso del Msi, diede il via alle grandi manifestazioni antifasciste che dal nord all’estremo sud scossero l’intero paese. Gli eccidi e le brutali repressioni ordinate da Tambroni, diedero la misura delle minacce eversive e dei propositi autoritari che si nascondevano dietro la facciata del sedicente «governo di emergenza a carattere amministrativo» eletto per due volte con i voti determinanti dei fascisti.

Di fronte a queste concrete minacce e a questi propositi la Resistenza ritrova la sua ispirazione unitaria, la sua capacità di mobilitazione e di combattimento.

Nel rapporto presentato alla sessione congiunta del CC e della CCC del nostro partito il 18 luglio, infatti osservavo: «Esponenti cattolici e democristiani che furono alla testa della Resistenza, quando sulla Resistenza pendeva la costante minaccia della razzia, della deportazione, della fucilazione sul posto, non hanno esitato a solidarizzare con le proteste e lo sdegno di tutti. Persino l’organizzazione partigiana che raccoglie soprattutto cattolici e autonomisti ha partecipato in prima linea alla protesta e alle manifestazioni di questi giorni […]. La Unuri, a maggioranza Dc, organismo rappresentativo di tutti gli universitari italiani, ha detto in un appello: «si alla Resistenza, no al fascismo».

A conclusione di quella sessione, il CC e la CCC del nostro partito approvavano una risoluzione nella quale il valore permanente dell’unità antifascista veniva così sottolineato: «La lotta e la vittoria contro il governo Tambroni dimostrano che, al di sopra di ogni divergenza programmatica e politica, c’è un terreno comune per tutti i partiti usciti dalla lunga lotta antifascista e dalla guerra di liberazione: il terreno delle fondamentali norme costituzionali e della legalità democratica. Quando l’acutizzarsi della situazione e l’attacco reazionario pongono in discussione problemi di fondo, quando sono in gioco i grandi problemi dell’avvenire del paese, la coscienza unitaria delle masse ha ragione di ogni divergenza pure esistente».

Ma un altro grande ed importante fatto nuovo era emerso nella lotta contro il governo Tambroni: la nascita di una nuova Resistenza, espressa da una accesa rivolta di giovani e giovanissimi contro l’autoritarismo, l’ingiustizia, i privilegi ed il paternalismo.

Un ammonimento viene a tutti — rilevavo nello stesso rapporto del luglio ‘6o — dalla «larga, decisa, ardita partecipazione alle manifestazioni di queste settimane, di tanti giovani e giovanissimi, al di fuori di ogni organizzazione e influenza politica determinata. Anzi, molti di questi giovani hanno tenuto a far sapere una loro non nascosta sfiducia verso i dirigenti di tutti i partiti. Essi li accusano di non conoscere le reali condizioni di vita, i loro sentimenti, i loro bisogni, di non partecipare abbastanza alle loro sofferenze e alle loro aspirazioni.

Giovani lavoratori, giovani studenti, giovani garzoni di bottega, giovani in cerca ancora di prima occupazione, sono tormentati, agitati da una profonda insoddisfazione per il loro stato. Essi hanno trovato nei valori ideali e sociali della Resistenza — riagitati potentemente negli ultimi tempi — una adeguata risposta al loro bisogno di moralità, di rinnovamento, di prospettive. Sotto l’impulso della vecchia Resistenza è nata, per così dire, una nuova Resistenza: resistenza all’immoralità, alla corruzione, ai soprusi clericali, allo sfruttamento, alla ingiustizia sociale, alle condizioni di arretratezza civile, cui il sistema padronale clericale obbliga le nuove generazioni.

 

 
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Luigi Longo, introduzione al libro Chi ha tradito la Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975 (2a parte)

Post n°15677 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Si può pensare oggi che da parte nostra, da parte dei lavoratori e dei loro partiti ci sia stata qualche illusione eccessiva circa la sensibilità nazionale e democratica delle vecchie classi dirigenti e quindi sulla disponibilità di queste classi ad una politica di unità e di progresso nazionale? Non credo che si possa pensare questo. Mi pare, piuttosto, che alla prova dei fatti quelle classi e quei gruppi, dimostrando la più assoluta sordità di fronte a questa politica e alle esigenze del paese, finirono per confermarsi, anche rispetto ad altre borghesie nazionali tra i più gretti, pavidi ed egoisti.

Mi sembra giusto ricordare a questo proposito il giudizio che molti anni dopo dette il compagno Togliatti. «Sbagliano profondamente – osservava Togliatti – coloro che affermano o pensano che, siccome la classe operaia ha avuto una parte decisiva nel salvare la nazione dalla catastrofe, le vecchie classi dirigenti, che sempre si sono vantate di essere “nazionali”, avrebbero dovuto tenerne conto, avere – che so io – un poco di “riconoscenza”. La riconoscenza non esiste, nella lotta tra le classi. La classe operaia ha salvato la nazione perché questo era il suo compito storico come anima e forza motrice di tutto il popolo, e non per fare un servizio alle vecchie classi dirigenti e acquistar meriti verso di esse».

«Ciò che venne in seguito – sottolineava ancora Togliatti – fu il contrasto, altrettanto inevitabile, tra il nuovo e il vecchio; tra chi aveva tracciato la strada di una avanzata e lottava per avanzare e chi cercava di impedirlo, riuscendo anche, nelle circostanze a tutti note, ad avere, temporaneamente, la possibilità di farlo. Nessuno mai aveva pensato che un’avanzata democratica dovesse e potesse compiersi se non attraverso lotte anche aspre» («Rinascita», 5 gennaio 1963).

Già nelle settimane e nei mesi che seguirono alla liberazione ci si trova in presenza di fatti assai gravi che dimostrano quanto fosse a largo raggio l’azione condotta dalle forze reazionarie per sbarrare il passo alla Resistenza vittoriosa e quanto radicata fosse la loro vocazione fascista. In una mia intervista del settembre 1945 – ad appena due mesi dall’insurrezione nazionale! – riferisco le voci (ma non solo di voci si trattava) di convegni di aristocratici, industriali e militari reazionari i quali progettano la costituzione di bande armate anticomuniste, anti-operaie, antipartigiane. Circolano in libertà – dicevo – troppi relitti della Repubblica di Salò, pronti a sfogare la loro rabbia, la loro vendetta per la sconfitta patita.

Perciò, in quello stesso periodo, illustrando alla Consulta nazionale il programma del nostro partito, programma di unità nazionale per la ricostruzione nazionale e per dar vita ad una democrazia nuova, progressiva, chiedevo anche il disarmo delle bande fasciste, l’immissione dei partigiani nella vita civile, ed una seria epurazione dei ranghi della polizia e dell’esercito da ogni elemento compromesso con le imprese più odiose del fascismo, come condizione essenziale per la rinascita, su basi nuove, profondamente democratiche delle forze e dei corpi armati dello Stato.

Queste stesse richieste esprimevano la nostra sincera preoccupazione per il modo in cui avrebbe dovuto sorgere ed articolarsi il nuovo Stato, la democrazia italiana. Nella richiesta nostra di epurazione non c’erano intenti vendicativi (come dimostrerà poi l’amnistia promulgata da Togliatti quale ministro di grazia e giustizia) né propositi persecutori.

I responsabili di delitti e di azioni antipopolari consumati durante il ventennio fascista dovevano pagare per le loro colpe: era la stessa coscienza popolare a richiedere questo. Ma noi stessi sottolineavamo che occorreva distinguere tra coloro che si erano resi responsabili in prima persona di crimini e abusi contro il popolo e quanti – la grande maggioranza – erano stati costretti a prendere la tessera fascista che era stata ribattezzata «la tessera del pane». Precisavamo, in un discorso al congresso della federazione romana che «bisognava colpire in alto per recuperare in basso».

L’azione risanatrice, da noi sostenuta, però, sarà stroncata ben presto, in vista dell’utilizzazione che le forze conservatrici intendono fare anche dei relitti ed eredi del fascismo nella imminente lotta anticomunista che esse intendono condurre. In questo clima si rende così possibile la stessa costituzione di un partito neofascista e la proliferazione di organizzazioni che, impunemente, osano persino auto-proclamarsi eredi del nazifascismo.

Il divorzio tra la realtà che prende corpo nel nostro paese e il patrimonio politico e morale della recente guerra di liberazione diventa ogni giorno più evidente e più aperto. Col pretesto della incompetenza – denunciavamo agli inizi del 1946 – si vogliono scacciare dalla direzione della cosa pubblica i democratici, i combattenti che hanno dato il più alto contributo di sangue e di sacrificio alla causa della democrazia e della libertà del paese. Funzionari dello Stato mostrano, con il loro comportamento, di essere rimasti fermi alle direttive del regime fascista: Boldrini e Moscatelli, due delle più popolari ed eroiche figure della guerra di liberazione, vengono sistematicamente pedinati dai poliziotti. Siamo — come si vede — ai precedenti di quelle attività antidemocratiche, eversive, di stampo fascista, che in anni più recenti saranno smascherate come «deviazioni del Sifar» (schedatura sistematica di dirigenti politici e sindacali, spionaggio politico, liste di proscrizione, predisposizione di campi di concentramento) e che, in realtà, sono conformi ai piani di sovversione antidemocratica e di reazione antipopolare messi in atto dall’imperialismo americano in ogni parte del mondo per sostenere o acquisire posizioni di forza.

Nelle condizioni che venivano determinandosi in Italia subito dopo la liberazione, il cui segno prevalente era indubbiamente quello di una involuzione nei rapporti politici e sociali e di un logoramento della tessitura unitaria della Resistenza, Togliatti indicò una esigenza politica primaria: porre due saldi pilastri sulla via aperta dalla Resistenza con la fondazione della repubblica e il varo di una Costituzione che desse un quadro istituzionale certo alla avanzata dei lavoratori e del paese sulla via della democrazia e del socialismo.

Repubblica e Costituzione furono conquistate e si trattò di due conquiste meno facili o scontate di quanto qualcuno oggi possa ritenere. Tuttavia, non si può non riconoscere che in entrambi i casi fu ancora lo spirito rinnovatore e unitario della Resistenza a prevalere sulle manovre reazionarie, sugli intrighi di corte (ricordino i giovani di oggi che esisteva ancora una monarchia), sulle ambiguità e le reticenze dei capi politici moderati, sulle spinte conservatrici sempre più decise e sugli arroganti interventi dei governi e dei plenipotenziari anglo-americani in Italia.

Al di là delle accese discussioni sulla «occasione perduta», sulla «rivoluzione mancata» e delle conseguenti accuse riversate sul nostro partito, c’è da dire che gli stessi sviluppi della situazione italiana di questo trentennio si sono incaricati di dimostrare la giustezza e la lungimiranza della intuizione di Togliatti. Infatti, nel sistema politico di cui la Costituzione repubblicana, nonostante i sabotaggi e gli inadempimenti, resta la base fondamentale ed unitaria, i lavoratori, le masse popolari non solo hanno potuto organizzarsi, strappare nuovi diritti e ottenere importanti conquiste, ma è proprio partendo da queste conquiste che essi, forti di una maturità, di un peso e di una autorità accresciuti, possono porre, oggi, concretamente e con autorità, la questione della loro partecipazione alla direzione politica del paese.

Tutto ciò non può impedire di chiederci se, nelle condizioni sempre più difficili del dopo liberazione e pur attribuendo valore del tutto preminente alle conquiste della repubblica e di una Costituzione democratica, non fosse egualmente possibile dar vita ad un movimento di massa più vasto e più all’attacco, ad una iniziativa più tenace e incisiva di quanto realmente non ci siano stati, per realizzare alcune conquiste sia sul terreno delle riforme economico-sociali sia su quello istituzionale (basterebbe pensare alla vergognosa sopravvivenza di codici, regolamenti e ordinamenti fascisti).

 

 
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Luigi Longo, introduzione al libro Chi ha tradito la Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1975

Post n°15676 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Il ricordo del comandante Gallo... assoluto protagonista, anzi principale; della resistenza:

La ricorrenza del XXX anniversario della liberazione nazionale; il profondo sommovimento politico di cui il voto del 15 giugno 1975 è stato, ad un tempo, una clamorosa manifestazione ed una leva ulteriore; la necessità di inventare nuove vie per affrontare positivamente i problemi della crisi italiana: tutti questi elementi, ultimamente, hanno sollecitato le forze politiche italiane ad interrogarsi sul proprio modo di essere e sul ruolo da assolvere nella nuova realtà del paese.

Da qui hanno preso un nuovo vigore la ricerca, l’analisi storico-politica, la riflessione sull’ultimo trentennio di vita italiana: un terreno questo che, in parte, è ancora da dissodare e nel quale, comunque, gli storici di mestiere e gli studiosi hanno grandi possibilità di lavoro e di confronto.

Poiché si tratta di un passato abbastanza prossimo, collegato per mille fili alla realtà di oggi, la ricerca storico-politica sul trentennio 1945-75ha un interesse immediato e può aiutare ad illuminare il cammino nuovo che l’Italia deve percorrere. Il partito comunista italiano non ha mancato di dare un proprio originale contributo a queste ricerche, ed è per questo che siamo ben lieti di poterci misurare e confrontare in questo campo con voci nuove e diverse dalle nostre.

A questo confronto ed a questa ricerca, ma, in generale, al dibattito politico in corso e alla sete dei giovani di conoscere e di comprendere fatti politici dei quali non hanno fatto in tempo ad essere protagonisti diretti, intendiamo venire incontro anche con la pubblicazione dei testi raccolti in questo volume.

Si tratta di una scelta sommaria di miei articoli e discorsi che coprono, appunto, l’arco di questo ultimo, tormentato trentennio della vita e della lotta politica italiana. Scritti e discorsi che esprimono la linea del partito nel commento da me dato nel corso dello svolgersi degli avvenimenti a cui fanno riferimento e che intervengono nel vivo di una situazione in continuo cambiamento. Di qui il tono spesso aspro e perentorio. Li accomuna, tuttavia, un elemento di fondo: il costante riferimento, cioè, alla politica unitaria, nazionale del Pci che trae la sua fondamentale ispirazione e, al tempo stesso, la sua esaltazione nel patrimonio politico, morale e ideale della Resistenza antifascista.

Gli sviluppi della situazione italiana in questi anni e quelli davvero dirompenti degli ultimi mesi, caratterizzati da crescenti processi politici, sociali, sindacali, civili e culturali profondamente unitari e rinnovatori, fortemente ancorati agli ideali, agli obiettivi e alle speranze della Resistenza, credo che confermino quanto giusta, utile e feconda sia stata e sia questa scelta di fondo del nostro partito. Scelta che nel trentennio successivo alla liberazione sarà sempre alla base dell’azione politica del Pci e orienterà le lotte dei comunisti italiani.

Scopo dichiarato di questa pubblicazione è di mettere in rilievo, di sottolineare la continuità di questo elemento basilare della nostra politica, anche nelle situazioni più difficili, buie e chiuse. E non per ricavarne la conclusione che sempre e comunque i comunisti hanno avuto ragione o, tanto meno, per andare a riscuotere elogi e riconoscimenti, ma per collegarci subito al vivo della grave crisi che travaglia l’Italia e per aiutare a vedere – chi ancora non riesce a vedere – gli sbocchi necessari per uscirne positivamente.

Oggi è ormai largamente riconosciuto e ammesso che alla base della crisi acutissima del paese c’è la politica delle vecchie classi conservatrici e reazionarie, realizzata dalla Dc; politica che, sempre, nel corso di questi trent’anni, si è posta in netta antitesi rispetto alla politica di unità nazionale, democratica, popolare, antifascista, indicata e sostenuta da noi comunisti attraverso vigorose lotte di opposizione, unitarie e di massa.

Dai testi qui raccolti emergono le successive e significative tappe della involuzione contro la quale, con risultati alterni, ma con costante tenacia, ci siamo battuti, nella consapevolezza che era nostro dovere evitare ai lavoratori italiani e alla nazione sacrifici più duri e pericoli gravi, e garantire la agibilità del terreno di lotta e di iniziativa democratica prescelto dal nostro partito sotto la guida di Palmiro Togliatti.

Questa è l’idea e il sincero convincimento che continueranno a guidarci dopo le conquiste unitarie della repubblica e della Costituzione, e dopo il colpo del 1947, che – nel quadro della guerra fredda internazionale e delle pressioni dell’imperialismo americano — venne attuato con la cacciata di comunisti e socialisti dal governo e la conseguente rottura della unità della Resistenza.

Attraverso quel colpo si voleva interrompere il corso della rivoluzione democratica e antifascista avviato dalla lotta armata contro i nazifascisti e aperto dall’insurrezione vittoriosa. Si voleva imporre, da parte delle vecchie classi dominanti (le stesse che avevano incoraggiato l’ascesa del fascismo e che dal regime di Mussolini avevano tratto gli unici vantaggi), un tipo di sviluppo economico e sociale fondato sul profitto monopolistico e sulla speculazione, impedendo la piena attuazione della Costituzione e le riforme che avrebbero dovuto recidere le radici del fascismo nella società nazionale.

I fatti dei primi decenni successivi alla liberazione dicono che questi obiettivi della conservazione sociale e della reazione non sono rimasti sulla carta. Per realizzarli, i governi diretti dal partito democristiano hanno dovuto fare ricorso alla discriminazione cieca e anticostituzionale contro la parte più avanzata del movimento popolare, spaccando l’unità del paese e seminando così, nella coscienza dei cittadini, i germi di una crisi sempre più acuta.

Al tempo stesso, la Dc, i suoi governi e gli alleati del momento hanno dovuto far leva sulla creazione di un sistema di potere fazioso, oligarchico, fondato non già sul riconoscimento delle capacità e delle competenze, bensì sul servilismo e sulla logica di gruppo.

Da qui la degenerazione sempre più diffusa di organi, corpi, apparati statali, amministrazioni ed enti pubblici, coinvolti e travolti dalla logica del sottogoverno e della corruzione che, alla lunga, ha portato alla inefficienza e alla paralisi nel funzionamento dello Stato. Si deve certamente a tutta la nostra azione di questo trentennio se questo lungo processo involutivo, anziché trovare sbocco in spinte disgreganti di tipo qualunquista o, peggio, in soluzioni apertamente autoritarie (verso le quali non sono mancate le tentazioni) è approdato, col voto del 15 giugno di quest’anno, alla espressione di una matura coscienza democratica di una parte grandissima di lavoratori, di giovani, di intellettuali e di ceti produttivi, uniti nella volontà di cambiare, di andare avanti proprio sulla via che noi non ci siamo mai stancati di indicare.

Errori, lacune, ritardi, incomprensioni, illusioni, anche, non mancano, certamente, nelle nostre lotte di questo trentennio. Ne abbiamo parlato, in passato, e ne continueremo a parlare senza complessi e senza reticenze, per trarre dall’esperienza tutti gli insegnamenti.

Sarà questo un contributo alla necessaria opera di continuo e reale rinnovamento e di adeguamento che i lavoratori, che il paese richiedono e sempre più esigeranno dalle forze politiche organizzate, pena la loro decadenza e sconfitta.

A questo proposito mi sembrano assai significativi i modi e le forme nelle quali, questa estate, dopo il voto del 15 giugno, è culminata e si è espressa la profonda, lunga crisi della democrazia cristiana, i cui dirigenti non sono riusciti ad indicare o ad abbozzare le linee di un serio programma politico di rinnovamento e di risanamento, corrispondente in qualche modo alle esigenze e alla domanda nuova del paese. Non è – ad esempio – che nelle travagliate vicende interne della Dc, seguite alla sconfitta elettorale, non siano mancati accenti autocritici o abbozzi, anche interessanti, se si vuole, di una analisi del «cambiamento italiano» manifestatosi il 15 giugno. Ma tutto questo non può che restare confinato nell’ambito della sociologia o peggio delle giustificazioni e non porta ad alcuna delle necessarie conclusioni politiche, ove non faccia posto ad una rigorosa riflessione, ad una impietosa autocritica sul terreno storico-politico, capace di mettere a fuoco il ruolo assolto, subito dopo la liberazione e poi in questi decenni, dal partito della Dc, ed il fatto che le mutate condizioni interne ed internazionali hanno finito per fare entrare la politica e il sistema di potere della Dc, già così logorati, in stridente contraddizione con le nuove e più sentite esigenze di libertà, di giustizia, di progresso, di partecipazione democratica delle grandi masse e con le esigenze di sviluppo e di rinnovamento complessivo del paese.

Siamo, quindi, i primi ad augurarci che anche nel campo democristiano e nella vasta area del mondo cattolico, venga raccolta l’esigenza di una seria riflessione, di studi, di ricerche sul trentennio trascorso, per contribuire – pur nella diversità di tesi e di impostazioni – ad una intesa più profonda e leale tra le grandi correnti popolari del nostro paese.

Dicevo all’inizio che scopo dichiarato della pubblicazione di questa raccolta di discorsi e articoli è quello di documentare la continuità e la coerenza della politica e dell’azione del Pci nel corso di questo trentennio. Politica e azione saldamente ancorate agli obiettivi di progresso sociale, di libertà, di democrazia, di pace, di indipendenza e di dignità nazionale che, pur nelle profonde differenziazioni delle componenti politico-militari che parteciparono alla guerra di liberazione, ispirarono – nel complesso – la lotta e il sacrificio dei combattenti antifascisti ed ebbero, successivamente, la loro sanzione unitaria nella repubblica e nella Costituzione.

Penso che la tenacia e la coerenza con la quale abbiamo sostenuto, difeso e portato avanti la sostanza di questa politica, stiano alla base dei successi e delle adesioni sempre più estese che essa ha riscosso e continua a riscuotere. Nei processi di disgregazione, di degenerazione, di crisi politica, sociale, economica e morale, provocati dalla gestione monopolistica del potere da parte della democrazia cristiana, la nostra politica e le nostre proposte unitarie hanno rappresentato, infatti, un elemento stabile di aggregazione, di ricomposizione a livelli più avanzati di unità e di lotta delle diverse componenti democratiche e progressive della società italiana e hanno costituito una indicazione positiva per una alternativa democratica fondata sulle grandi componenti storiche del popolo italiano e sulla loro capacità, se unite, di rinnovare profondamente indirizzi e metodi di governo.

Ci si potrà rendere conto di quanto lungo, difficile e faticoso sia stato il cammino di questa nostra politica attraverso il tunnel della guerra fredda, del monopolio clerico-reazionario del potere, della crociata sanfedista, della persecuzione antipopolare, culminata nell’attentato a Togliatti e negli eccidi di operai, dei tentativi di avventure autoritarie, di imbavagliamento sistematico di ogni libera espressione del pensiero e della cultura e, più in generale, di annientamento di qualsiasi forma di dialettica democratica.

Tutto ciò mentre si cercava di provocare una rottura profonda e duratura tra le diverse componenti del movimento operaio, nell’illusione di potere isolare e diminuire la forza e la combattività delle classi lavoratrici e infliggere una definitiva sconfitta al partito comunista.

Ed ancora – ma già siamo alla cronaca – attraverso i campi minati dei complotti eversivi, della strategia della tensione, delle stragi e delle criminali trame fasciste ispirate dal folle disegno delle forze più cieche della reazione interna e internazionale, di riconquistare, col terrore e col sangue, il terreno conquistato dai lavoratori, dalle forze democratiche e antifasciste, dalle donne, dai giovani, sull’onda delle grandi stagioni di lotte unitarie.

Ma, direi che, proprio perché «l’Italia nuova» di cui s’è parlato all’indomani del risultato elettorale del 15 giugno, è venuta crescendo e si è maturata lungo questo tormentato cammino, proprio per questo essa si è manifestata sotto il segno dell’unità democratica e antifascista, respingendo i rinnovati appelli di parte democristiana alla rottura, allo scontro frontale, alla contrapposizione permanente e radicale. Questa «nuova Italia», cresciuta attraverso tante dure battaglie, si è manifestata nel segno di una straordinaria vitalità degli ideali, degli obiettivi e della ispirazione unitaria e nazionale della Resistenza, chiedendo una gestione del paese conforme ai principi della Costituzione antifascista che dalla Resistenza è nata.

Il fatto, poi, che questa «Italia nuova» abbia dato il riconoscimento ed il consenso più grande al partito comunista, dimostra quanto le nostre lotte di questo trentennio abbiano profondamente inciso nella realtà nazionale e in quale misura siano state proprio queste lotte ad indicare la direzione, i contenuti, i modi stessi del cambiamento: di quello che già c’è stato e di quello che ancora dovrà esserci.

Le prese di posizione immediatamente successive alla liberazione mi sembrano una valida testimonianza del fatto che il nostro partito usciva dalla Resistenza avendo maturato un progetto sufficientemente chiaro e coerente per la fondazione e lo sviluppo della nuova democrazia italiana. Lo stesso spirito unitario, patriottico e popolare che aveva animato la Resistenza, circola nel programma comunista per la ricostruzione, la rinascita ed un rinnovamento profondo del paese.

«È alle forze democratiche sincere, che esistono e probabilmente sono prevalenti in tutti i partiti, che noi facciamo appello, — scrive Togliatti all’indomani della liberazione. — È di esse che noi auspichiamo l’unità, con un programma nuovo che soddisfi le aspirazioni delle masse lavoratrici e patriottiche di tutto il paese, che guidi tutta l’Italia a liberarsi del tutto e per sempre del passato fascista, e a non ricadere negli errori che ci portarono al fascismo. In un clima nuovo, in un clima di vera unità e solidarietà nazionale noi potremo così iniziare l’opera di ricostruzione, potremo liquidare col minimo di dolori e di sacrifici la terribile eredità del nazionalismo e del fascismo, riaffacciarci alla vita internazionale e darci, tra pochi mesi, attraverso l’Assemblea costituente liberamente eletta, una nuova struttura politica, democratica, repubblicana progressiva, sulla base della quale tutte le sane energie della nazione possano collaborare».

Questa nuova struttura, a nostro avviso, per essere davvero tale, per rompere nettamente col regime fascista e col vecchio Stato pre-fascista, burocratico e reazionario, doveva poggiare sulla più larga partecipazione unitaria delle masse popolari. Per questo, in contrasto con quanti già tendevano a declassare i comitati di liberazione nazionale ad organi di puro e semplice collegamento tra i partiti antifascisti, noi indicavamo la creazione di un ordine popolare proprio attorno ai CLN, concepiti come base di potere nuovo, soggetti di organizzazione e di disciplina della vita politica e sociale, motore fondamentale della nuova vita democratica del paese.

Questa concezione nuova della democrazia, che scaturiva direttamente dalla esperienza luminosa della Resistenza, si scontra, però, con quella «serie di manovre insidiose, tortuose, perfide le quali tendono a prendere l’aspetto di una vasta campagna» già denunciate da Palmiro Togliatti alla fine del ’44. E occorre dire che quelle prime avvisaglie, nel breve giro di un anno, sempre più avevano preso corpo. Erano divenute consistenti iniziative delle forze moderate e conservatrici interne allo stesso schieramento antifascista, le quali con lo stimolo, l’incoraggiamento e l’aperto sostegno degli anglo-americani, miravano a ripristinare l’ordine conservatore e borghese dell’Italia pre-fascista e ad escludere, alla prima occasione, comunisti e socialisti dalla direzione del paese.

In una conferenza tenuta nel gennaio 1947 a Firenze, Togliatti non farà mistero che sono stati gli anglo-americani, in prima persona, ad intimare l’alt al sistema dei CLN e riconoscerà francamente che non si era in grado di respingere la decisione degli alleati. Ma al di là dell’atteggiamento degli anglo-americani, che pure non poteva non avere il suo peso dal momento che i loro eserciti occupavano ancora l’Italia, di fatto, c’era stata al Sud, e ora — dopo la liberazione del Nord — proseguiva febbrilmente in tutto il paese la corsa delle vecchie classi possidenti, dei vecchi gruppi dirigenti, delle caste burocratiche per recuperare tutto intero il potere ed i privilegi, che, per un momento, erano potuti apparire coinvolti nel crollo rovinoso del fascismo.

A quest’azione multiforme di recupero delle tradizionali forze reazionarie e parassitarie corrispondono, del resto, sul piano più propriamente politico, le iniziative di quei settori dello schieramento antifascista le quali, sostenendo la cosiddetta «continuità dello Stato», miravano, nei fatti, a impedire che la nuova democrazia italiana nascesse in netta rottura e in polemica col vecchio Stato pre-fascista e che essa potesse camminare con le gambe degli operai, dei contadini, delle forze intellettuali e produttive democratiche e progressive.

Nella fase in cui si trattava di decidere l’assetto da dare al nuovo Stato, venivano così alla luce, in un confronto aperto, le diverse anime che nella Resistenza erano riuscite a stabilire una comune base di convivenza e che avevano trovato il loro punto di fusione nella lotta patriottica contro i nazifascisti.

 

 
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25 APRILE 1945 - 25 APRILE 2020

Post n°15675 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

25 APRILE 1945 - 25 APRILE 2020
75 anni

Ricordare la #Resistenza è combattere ancora oggi per le stesse ragioni. Per la liberazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, per la pace, contro la sopraffazione imperialista. Fedeli alla nostra storia, avanti fino alla vittoria!
#25aprile

ANTIFASCISMO E' ANTICAPITALISMO

 
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Fischia il vento

Post n°15674 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

 
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Diretta 25 aprile

Post n°15673 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

- Sabato 25 aprile ore 11:00 - in diretta Facebook
Antifascismo è anticapitalismo
75° della resistenza

Intervengono:
Davide Conti - storico
Alessandro Barbero - storico
Marco Rizzo - Segretario generale PC
Benedetta De Vanni - Giovane PC Livorno
Introduce il segretario di Livorno PC Lenny Bottai

Quest'anno particolare, dove per una ricorrenza così importante siamo costretti a non poter manifestare pubblicamente il ricordo e le idee di chi ha lottato ed è morto per una Italia migliore una Italia socialista contro il nazifascismo

 
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Bella Ciao - Tosca

Post n°15672 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

 
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Il mondo canta Bella ciao

Post n°15671 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

 
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75° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE - PC LIVORNO

Post n°15670 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Quest'anno ricorre il 75° anniversario della vittoria della Guerra di Liberazione. Per la prima volta non sarà possibile celebrarlo pubblicamente nelle strade e nelle piazze del paese.
Se ciò fosse stato possibile lo avremmo fatto organizzando una manifestazione pubblica non solo per ricordare una data che ha segnato una tappa storica nella storia d'Italia con la sconfitta del fascismo e del nazismo; ma anche e soprattutto per ricordare che i partigiani non lottarono soltanto per cacciare i tedeschi e battere i fascisti, ma furono animati da grandi ideali di giustizia sociale, democrazia e libertà. E per ricordare e ricordarci che quegli ideali sono rimasti, ad oggi, irrealizzati.
Proprio in questi giorni possiamo vedere come quella Costituzione della Repubblica, nata dalla Resistenza e da quel 25 Aprile, che già negli ultimi decenni è stata aggredita e violata più volte, rimane lettera morta nel garantire a tutti i cittadini il diritto alla salute e ad una vita degna.
Anche per questo non ci uniremo ai “cortei virtuali” promossi in questi giorni che come unico scopo hanno quello di promuovere un mito unificatore necessario a raccogliere il consenso della gente e nascondere non solo il drammatico fallimento di questo sistema sociale e le responsabilità di chi governa il paese, ma anche il fatto che i lavoratori e le loro famiglie devono prepararsi ad affrontare condizioni di vita, di lavoro e di sfruttamento ancora più feroci, ancora più disumane.
Perché solo a questo prezzo verranno garantiti i profitti dei padroni!
Da parte nostra il 25 Aprile ci ricorda che la classe operaia, i lavoratori del nostro paese hanno saputo lottare in passato sfidando il tallone di ferro dei nazisti e dei fascisti; sfidando il fuoco dei cannoni e delle mitragliatrici; sfidando il pericolo della deportazione nei lager. E alla fine hanno
vinto! E il prezzo che i padroni hanno dovuto pagare per aver sostenuto il fascismo è stato enorme: dopo vent'anni si sono trovati ad avere le fabbriche rovinate, distrutte dai bombardamenti ed il paese portato alla rovina.
Il 25 Aprile ci serve a ricordare e a far ricordare che è impossibile governare democraticamente senza e contro gli operai organizzati, senza e contro la classe opeaia ed i lavoratori uniti.
Oggi una società nuova, in cui non esista più lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, in cui siano veramente garantiti il diritto al lavoro, il diritto allo studio, il diritto ad un alloggio dignitoso, il diritto ad un'assistenza sanitaria gratuita per tutti, il diritto a vivere una vita degna, sembra essere irraggiungibile. Ma non è così! Ciò che oggi appare come irrangiungibile, è in realtà l’unica scelta ragionevole: il potere nelle mani dei lavoratori!

 
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VIVA IL 25 APRILE!!!

Post n°15669 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

“I valori della Resistenza sono base della nostra storia”... bene, ricordatelo anche quando fate paragoni schifosi e vergognosi; quando fate revisionismo storico; quando si vuole paragonare chi è morto per la patria e chi è morto per gli occupatori nazi-fascisti. I miei nonni, i miei zii, quei giovani e quelle giovani che hanno combattuto per ridare dignità a questo paese, che hanno combattuto per riscattare la patria dalla dittatura, dalla vergogna della guerra, che sono morti, sono stati mutilati, sono stati torturati dalle canaglie occupatrici; non meritano questa mancanza di rispetto, e la fine che ha fatto questo paese. C’è ancora aimè molto da fare e il nemico è sempre lo stesso il grande capitale.
Onore ai partigiani!!! #oraesempreresistenza #vivail25aprile #bellaciao #vivalebrigategaribaldi

 
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curiosità sulla resistenza

Post n°15668 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Mentre recitava al teatro Anna Magnani salirono sul palco i fascisti e con i mitra intimavano di far smettere lo spettacolo e la grandissima Anna Magnani gli risposte con un sonoro "m'annate a mori ammazzati"

 
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frasi sulla resistenza

Post n°15667 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Pier Paolo Pasolini

«Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero.

Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale».

Scritti corsari anno 1975

 
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frasi sulla resistenza

Post n°15666 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

Dopo venti anni di regime e dopo cinque di guerra, eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà
(Norberto Bobbio)

 
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(Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny)

Post n°15665 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la reiugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.
(Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny)

 
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La madre del partigiano

Post n°15664 pubblicato il 25 Aprile 2020 da Ladridicinema

La madre del partigiano
Sulla neve bianca bianca
c’è una macchia color vermiglio;
è il sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà.
Quando il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà.
Quando scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
(Gianni Rodari)

 
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