Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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La solitudine

Post n°44 pubblicato il 20 Settembre 2013 da FenomenidiEmersione
 

Il professore con le labbra raggrinzite annoda i lacci della cartelletta in pelle. La lezione è terminata. In un istante l’aula magna, ormai deserta, è divenuta immensa e fredda e non rimane che un silenzio surreale in una sera di metà dicembre. La felpa della neve ottunde i suoni che provengono da fuori. La serie di finestre a dirimpetto sul giardino riproduce i fiocchi candidi, che planano in obliquo sopra al mondo come sogni abbandonati.

Il mondo?...

La classe è stata alquanto faticosa, il professore non si sente soddisfatto. Avrebbe fatto meglio a ribadire due concetti, forse tre. La gioventù ha barriere tali da respingere un attacco rasoterra di nozioni: meglio è il bombardarla a grandinata, farne piano levigato su cui erigere strutture più sicure, città nuove. Hai visto mai che dopo cresca come l’edera d’inverno?

L’inverno...

Sulla lavagna, incorniciata da un rettangolo tracciato con il gesso, un’equazione domina la stanza: S = KBlnW; seconda legge della termodinamica: i processi spontanei sono caratterizzati dalla conversione di ordine in disordine.

Il professore osserva a lungo quelle lettere accostate, prova a pronunciarle unite e ne esce un suono senza senso: Skblnw. Davvero in ogni lingua al mondo questo suono non ha un senso, eppure è ineluttabile realtà. Il mondo è ineluttabile realtà, la morte ne è spontanea conseguenza. È stato l’argomento più importante del semestre, ma comprenderlo necessita un’età che gli studenti sono lungi dall’avere.

La frustrazione impregna l’atmosfera, i fiocchi evanescenti della neve cadono seguendo traiettorie occasionali, imprevedibili percorsi mai una sola volta uguali, e fuori il buio ha avvolto la città come le spire di un serpente addormentato. Appena sette mesi prima le risaie popolate dalle ile gracidanti tratteggiavano dipinti sovraccarichi di luna ingravidata dal profumo di una donna. Era un aroma di sorriso e gomma che stordiva come farmaco potente, impertinente e sapido di vita. L’estate era alle porte e vi bussava dolcemente, come sposa che s’appresta ad indossare una corona ingioiellata di promesse, inanellando un’emozione dopo l’altra ed intessendo caldi arazzi di tepore. Si videro, la prima volta, in marzo. Lei si chiamava Lorna e aveva il capo raso ed una ruga sulla fronte parzialmente raddolcita da un foulard che aveva scelto con amore il dì seguente la sua prima chemioterapia. La voce era di viola pizzicata dall’archetto di incisivi un po’ sporgenti, come plettri in madreperla trafugata (tesori pirateschi abbandonati sul fondale d’una lingua che umettava spiagge pallide di labbra). La geografia di un corpo devastato di bellezza e malattia. Capirono da subito che il tempo era un nemico spaventoso, che una tenera alleanza avrebbe assassinato entrambi. Che sarebbero trascorse due stagioni, una stagione, un mese, un giorno, un’ora, solo un’ora di infinito. Che poi lei sarebbe morta e lui chissà. Ma il martire che, sorridendo, sfida il morso della belva è un santo, un folle o, più semplicemente, un idealista: S = KB ln W.

Qualcuno in strada suona un organetto – un mendicante? Un babbo di Natale? Le note si frammentano scomposte miscelandosi coi fiocchi. Pigre e amare, sbandano su scale a chiocciola d’orecchie intorpidite scatenando prolusioni di anatemi: il professore ha voglia di dormire, lasciatelo sognare, che diamine! Lo sa che ogni sistema chiuso è destinato a sottrazione di energia, lo sa che non c’è modo (proprio non esiste modo) di arrestare l’entropia. Ma il professore ha voglia di sognare, che diamine! Che mondo! Accorto, malaccorto, il mondo digerisce ogni risorsa e la trasforma in energia d’avere fame di se stesso: nulla nasce e nulla muore e tutto si disperde in nostalgia infinita, malinconia di nascita e di morte, brusio d’impertinenza.

Adesso un venditore di castagne abbrustolite sta gridando: oscenamente adesca dei passanti. Quell’organetto è suo. Sua quella nenia fastidiosa, ripetuta al solo fine di disfarsi della merce in cambio di denaro. Con quello comprerà nuove castagne e un po’ di cibo per se stesso, reiterando il monco ciclo di Carnot  dell’esistenza. « A quale pro? » si chiede il professore « a quale pro portarsi indosso questo sacco d’ossa e pelle se s’ ha da vuotare presto? ». Le sue pupille ora divergono nel vano tentativo di arrestare un pianto spastico ed osceno. Una cascata urlante sfonda gli argini del cuore ed il rigurgito di lacrime sconfina tra le pieghe del cervello frantumandone le dighe e lei gli manca, lei gli manca.

Lei gli manca, come un brano improvvisato, sciolto alla sua prima strofa, consono alle note che sarebbero seguite e, invece, muto. La treccia contro al cielo variopinto dagli scarichi di fabbrica lontana, il senso di abbracciarla nel profumo di una piovra di emozioni che divora mani e gambe, cuore, amore, padre, madre. Il gracidio di rana scostumata in uno stagno reclinato appena dietro alla vetrina dei suoi occhi di bambina docile di rabbia e noia, intabarrata in una coltre di malinconia perenne che nemmeno quella disforia perfora. E se le mani erano feticci di emozioni trattenute dal colore inverecondo dello smalto ed i suoi seni due fortezze di Volterra prossime allo sfascio, le sue labbra si muovevano in un canto disperatamente vivo, una canzone d’embrione innamorato della luce nel bel mezzo di un aborto, il cielo che si flette ad insegnare un catechismo di preghiere senza mani, un episodio di malvagità divina, abbraccio del demonio; un nulla intero, di quelli che se sciogli il pugno, la tua mano è piena di sciocchezze e queste, dalla prima all’ultima, sono gli archetipi che reggono la vita. La vita...

S = KB ln W.

« S sta per Solitudine » - delira il professore - « Ln sta per Lorna. KB non può esser altro che la costante dei baci, quelli dati, ricevuti e persi, o solamente immaginati ».

Ora la musica s’attenua, lascia strascichi di note che rimbalzano gommose lungo i muri delle case, poi, lontana ed ovattata, sprofonda nel cotone del silenzio: il venditore di castagne, soddisfatto o insoddisfatto del guadagno, cambia piazza. Nei corridoi dell’ateneo risuona un battito cardiaco puntuale, acquoso, fluido. Un rubinetto incontinente (chissà dove, chissà come) batte il tempo. L’eco penetra il cervello.

« W sta per Water, Wasser! Il tempo è acqua » - esulta il professore - « precipita ed evapora per poi precipitare. Questo in comune hanno il principio di Talete e il fiume di Eraclito: l’acqua! L’acqua che non è mai un’entità, ma un susseguirsi di entità. L’acqua ch’è una ed infinite acque, dal Tutto uno, dall’uno Tutto ». Poi si alza e, con il gesso, traccia simboli sul muro mutuati dalla logica applicata, ripescati dall’inconscio collettivo.

« In questo caso » - a questo punto il professore sta gridando – « la costante KB non è dei baci, ma del buio. E il buio è terra di nessuno, zona franca tra sostanza ed apparenza in cui le essenze si nascondono da sempre. Ciò significa che il mondo e i suoi abitanti sono solo proiezioni di qualcosa che sta altrove; che la morte non è altro che un rinnovo delle forme, ma l’essenza d’ogni cosa resta eterna ». Con la gioia che gli sventra le parole quindi urla: «Lorna è viva! ».

D’un tratto s’accorge di quanto sia insulso il dolore, di quanto insensate le azioni. Il gesso gli cade di mano, le labbra s’incollano al muro in un bacio profondo che umetta la calce; un bagliore, un’idea si fa strada: ora sa che l'averla voluta è una sterile colpa d’ingenuo. L'averla ottenuta un traguardo di spaventapasseri inerte. L'averla perduta è la logica essenza di tutto. Ora sente che il tempo è un concetto scandito dallo scorrer del sangue d’un cuore malato di malinconia. Il vivere è puro onanismo di stelle sfasciate anzitempo, pianeti insicuri di essere tondi, voragini di anti-materia. La sfera del mondo, spirale contorta, non ha sentimento ed il Tutto non vive, non muore: soltanto è sé stesso, da sempre. Per sempre.

Eppure continua a mancargli – lenzuola sudate, strappate con le unghie – e nessuno lo sa tranne il mondo.

Il mondo...

Sta notte nel cielo, rigata dai fiocchi di neve, la luna ha un aspetto acciaccato, di vecchio sfondato di vita, sperduto in un campo, cadavere antico, attraente canzone d'amore. Campane lontane si perdono lungo un sentiero di ghiaccio e il brusio delle stelle percorre il declivio d’imbuto celeste per cogliere il mondo alle spalle. La folla che corre giù in strada – decine di piccole teste che viste dall’alto ricordano atomi d’acqua che bolle – lo sa d’esser viva per puro accidente? Lo avverte il continuo rimescolamento dei corpi, il ricambio incessante di forma, la pelle che crolla sfaldata? Di certo lo avverte: è per questo che s’agita tanto. Alla fine del giorno ciascuno si chiude nel proprio castello, a proteggersi dall’imbrunire; si gode i congiunti, ci scambia due o tre informazioni, talvolta, magari, un abbraccio; si spoglia, s’infila nel letto, rimugina un poco gli eventi passati e poi dorme. Nel sonno si è soli; il cervello lo sa e se ne duole. È per ciò che rimedia col trucco dei sogni, virtuali e stravolte realtà modellate sul proprio ideale di vita: per illudersi ancora di un poco, quel poco che basta a non perdere il senno.

« Ma il senno è soltanto una porta dischiusa » – questo pensa, ormai estasiato, il professore – « dischiusa a motivi ritriti del cuore. Nascere, amare, morire. Nascere, amare, morire. Fede, Speranza e Carità, Fede, Speranza e Carità in un trittico di angoscia a tinte vive. Tumore, dolore, abbandono, tumore, dolore, abbandono: triade di sacra accettazione Quanto è grande la vita! ».

Da fanciullo possedeva un manuale sulla tecnica dei nodi marinari; tra le pagine di un’enciclopedia lesse la storia di Condé¹.

Il professore ha sciolto i lacci della cartelletta in pelle. Il tutto, com’è logico che avvenga, s’è incarnato in automatica gestualità di indissolubili grovigli, corde tese all’infinito, nodi morbidi, scorsoi. Si accendano le luci, si indossino i costumi: la lezione è veramente terminata.

 

Il silenzio è spezzato da un grido. Un giudizio, un’accusa, un insulto volteggia nell’aria per poi ricadere a strapiombo:

« Chi c’è dentro lì? » bercia rauco qualcuno.

« Che importa chi è? Tiriamolo fuori a cazzotti! »  ribatte una voce affilata.

« Sta a vedere che è ancora il barbone di via Boniperti, quell’uomo a cui è morta la moglie, quel matto che crede d’avere una cattedra qui! ».

« Chi? Dici il Tugnin che dormiva in stazione centrale? Quello strano che parla di un Can? »

« Sì, l’è cul lì che disturba col Kant! L’è un filosofo, dice. »

« Ma povera patria! Tiriamolo fuori sto povero Socrate! »

 

L’ingresso è forzato. Le luci violente rovistano l’aula. È deserta. Soltanto, tracciate col gesso su ardesia, in scrittura minuta troneggiano queste parole:

« S = KBlnW

La morte è intrinseca alla vita e ne costituisce il prezzo. La vita è intrinseca alla morte e ne costituisce il prezzo. Il prezzo è interpretazione umana del passaggio di stato. Il passaggio di stato è la modalità elettiva tramite cui le cose si compenetrano. Le cose tendono a compenetrarsi per garantirsi la sopravvivenza. Sopravvivere significa occupare spazio altrui. La vita è possibile soltanto laddove sottratta ad un altro ».

 

Ai confini dell’orbe terracqueo, oltre il Tavan Bogd uul (al di là forse anche del tempo, forse anche di un nome), un airone si libra maestoso su un campo di riso. Là in basso, interrotto da rari e sdruciti Dŏu lì², l’acquitrino somiglia ad un piccolo teschio trapunto di corti capelli dorati. Ogni stelo è proteso alle stelle, ma inchiodato in un mondo melmoso e stagnante, popolato da mille creature in perenne subbuglio. L’ardeide dal capo piumato raccoglie di un poco le ali, s’inclina all’indietro ed atterra leggero, elegante. Così, con gli artigli ancorati ad un labile appiglio di limo (a suo modo convinto che questo sia il centro del cosmo), rimane impettito ed assorto a scrutare le prossime prede: salamandre, batraci, roditori di piccola taglia, bestiole impegnate nel farsi la guerra a vicenda per non rinunciare a quel misero brano di carne che è chiave d’accesso alla vita.

Accecato ed ignaro di quel predatore – e per questo felice – un girino con tenere gemme di zampe s’appresta alla muta: da bimbo ad adulto. Da adulto ad anziano relitto.

Poi, cibo a nutrire il creato.

 

¹ Luigi Enrico di Borbone principe di Condé. Si tolse la vita impiccandosi.

² tipico cappello di paglia cinese

 

 Y. Stratos ®

 

 

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Commenti al Post:
DONNADISTRADA
DONNADISTRADA il 21/09/13 alle 22:25 via WEB
... hanno insegnato che chi si accontenta gode e che bisogna perdonare per raggiungere la pace!! Mah!!
saggio è invece chi vive le proprie illusioni, in barba al senno e al senso comune e in contrasto con le dottrine apprese il mondo non ha ancora imparato ad accettare l'uscita di scena altrui. Povero stupido, esclamano gli altri!! Eppure anche gli altri non fanno altro che illudersi. Ieri sera sulla statale n 3 che da Lovanio porta a Bruxelles per trenta chilometri e più un susseguirsi di almeno un centinaio di night club dove c'erano delle vetrine illuminate e arredate. Uno sgabello, una poltroncina e in alcune vetrine delle ragazze stavano sedute o in qualcuna danzavano. Le ho viste dal finestrino dell'automobile. Com'è bello pensare che una donna stia a danzare per me. Giochi con me. Mi abbracci, mi desideri come io la desidero. (se fossi un uomo sarei felice di questo)
Le illusioni si possono vendere e acquistare e non è diverso dal tuo venditore di caldarroste.
Grande illusione la vita, dal gioco dei bambini fino alla fine dei giorni.
Anche illusioni le mie fughe. I miei viaggi. La mia strada. I falsi amici che ridono alle spalle. Tutto è illusione. Nostalgia. Rimpianto.

ps. Tocca il cuore il tuo racconto e fa pensare!

 
 
FenomenidiEmersione
FenomenidiEmersione il 26/09/13 alle 16:50 via WEB
Non ho ancora capito se a spaventarci sia la vita (vedi Emil Cioran) oppure la morte (vedi Blaise Pascal). Non mi è ancora chiaro se la ricerca di illusione sia intrinseca all’umanità o sia un espediente escogitato per sopportare l’esistenza (il semplice esistere, indipendentemente da come esso sia). Non so se il saggio sia colui o colei che ha visto e non si illude più o chi, pur avendo visto, accetta l’illusione e vi si cala. Meglio sarebbe il non avere visto mai, difficile è tornare indietro superata quella soglia, qualunque soglia. In questo “racconto” v’era una frase ch’è poi stata tagliata: « Chi torna o non è mai partito o ha chiuso gli occhi! ». D’altronde la nostra fisiologia si basa sull’interpretazione della vita, non sulla vita stessa: ogni cosa (suoni, immagini, colori, forma, profumi, odori...) è filtrata dai sensi e quasi certamente distorta. Non irreale, ma “para-reale”. Se la nostra matrice non fosse avida di illusione, probabilmente non saremmo più qua. Ogni giorno siamo “felici” di qualcosa che non c’è (una donna che danza, che gioca, che abbraccia non si discosta di molto da ogni altra illusione. Chi acquista una donna non acquista che una parte di sé, rincorsa vanamente e in perpetuo). A nutrire i filari umani che da Lovanio a Bruxelles – e da qui in ogni parte del mondo – abitano le vetrine non è il sesso, ma la solitudine. Ed il contatto umano, anche se blando, delicato, rispettoso ed amorevole, costituisce sempre una sorta di autoaffermazione, un esercizio del potere d’esser vivi. La solitudine, io credo, nasce da questo potere frustrato, da questa non-affermazione dell’Io. Ma questi (i miei intendo) sono discorsi pesanti, noiosi, terribilmente soggettivi ed inevitabilmente, se pur involontariamente, moralistici. Anch’essi – come tutto – nascono da un bisogno di autoaffermazione. E forse il vero saggio è chi comprende la vanità di tale bisogno e si astiene, in una sorta di taoismo personale, dalla pubblica competizione. Viaggiare è tra le illusioni più belle e sensate. P.S. Grazie.
 
   
DONNADISTRADA
DONNADISTRADA il 30/09/13 alle 23:56 via WEB
Chissà se ci spaventa di più la vita o più la morte!
Ci sono quelli che riempiono le loro giornate e le loro notti di millanta cose da fare sottraendo tempo prezioso al sonno oppure all'ozio. Che non sia per la paura di stare da soli con se stessi?

E' molto bella la frase che hai tagliato, chissà perché l'hai tolta? Amo moltissimo l'oriente in genere e l'India in particolare, ma non sono pronta per percorrere la strada della saggezza, non so se mai lo sarò. Non so neanche se mi piacerebbe vivere senza desideri e senza illusioni. Non sarebbe noioso? :)))

 
     
FenomenidiEmersione
FenomenidiEmersione il 04/10/13 alle 12:00 via WEB
« Me miserevole! Per quale varco potrò mai fuggire l'ira infinita e l'infinita disperazione? Perché dovunque fugga è sempre l'inferno; sono io l'inferno (...) » (John Milton, "Paradiso Perduto", libro IV, vv. 76-78) Forse la strada della saggezza la si percorre pur non essendone pronti, inconsapevolmente. Non è anch'essa un viaggio altro?
 
lotus.house
lotus.house il 23/09/13 alle 10:51 via WEB
è molto bello.. e mentre lo leggo vivo questo istante..e mi nutro
 
 
FenomenidiEmersione
FenomenidiEmersione il 26/09/13 alle 16:50 via WEB
Grazie, è molto bello quello che dici. Perché, per quanto si scriva per se stessi, lo scopo rimane quello di placare una fame interiore che non tende quasi mai a scemare. Nutrire è ancora più piacevole che nutrirsi.
 
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