Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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« VincentNotte di campagna »

Il giudizio

Post n°32 pubblicato il 12 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 

Una stazione ferroviaria. Madido di sudore, ansante e lercio, un uomo siede sulla panca in legno infissa al suolo ed inchiodata alla parete da pesanti e lunghe barre di cemento butterato. Volge lentamente il capo poi, di scatto, lo riporta in posizione di partenza. Volge lentamente il capo poi, di scatto, lo riporta in posizione di partenza. Volge il capo. Lo riporta in posizione di partenza. Gli occhi, nudi cingoli dell’anima, percorrono un segmento di binario, si arrestano alla solita distanza e, come molle di indicibile violenza, si rivolgono al principio in un nistagmo abulico e pedante. 

Più su, da uno spuntone in piombo, conficcato in una trave che sostiene una tettoia di polistirolo espanso, penzola una grossa mezzaluna. Illumina a bagliori intermittenti porzioni di campagna circostante, rivelando fotogrammi di un paesaggio d’erba incolta ed incolore. S’accende una casella, mostra un ciuffo di gramigna e poi si spegne. S’accende una casella, appare un ciuffo di gramigna, poi si spegne. L’effetto è quello di nevrotica scacchiera in cui ogni luogo è identico a ogni luogo: disabitato e immobile frattale disadorno.

Da un dove imprecisato proviene repentino un ringhio sordo. Parte sommesso, poi si impenna astioso, infine cessa e lascia spazio ad uno schiocco e un gorgoglio. L’uomo continua ad inseguire quel segmento di illusoria eternità, ma dentro sente freddo, un tremito percorre un avambraccio.

« Chi c’è ? » domanda senza uscire dal nistagmo « Chi è là ? ».

Sopra il suo capo ticchettante, tra la luna e lo spuntone in piombo, s’intravede a lampi alterni una struttura bidimensionale dai contorni indefiniti. Qualcosa vi sta scritto, caratteri sfocati da una tenue ed azzurrognola foschia:

 

                                                      JASENOVAC

                                            ( STARA GRADIŠKA 187)

 

Un luogo? Un epitaffio? Poco importa! Ciò che conta è andarsene di lì. Tra poco passa un treno e lui ci sale ed il nistagmo s’interromperà. Tra poco.

Il ringhio si ripete, questa volta più marcato, più vicino. Più cattivo, s’aggrappa ad una nota di rancore. Riflessa dal sudore della fronte la mezzaluna vibra e oscilla, poi si spegne, tramutando la scacchiera in notte fonda. Lo schiocco. Il gorgoglio. Silenzio.

« Chi c’ è? Che cosa vuoi? » miagola l’uomo, ormai ubriaco di terrore.

« Sta a te dirmi chi sei! » risponde, bitonale, un epilettico barrito.

« Io sono... » balbetta l’uomo incerto « io sono... io torno dalla mia famiglia... c’è una donna che mi aspetta qui vicino! ».

« Nessuno aspetta te! » ribatte inesorabile la voce.

Le scosse del nistagmo si fanno ampie e frequenti. L’uomo annaspa in un sudore cristallino e il tremito conquista ora una spalla, ora le labbra, ora le dita di una mano.

« Mi aspetta eccome » insiste soffocato « non può stare senza me! ».

Il silenzio che segue è un abisso di mostri ancestrali. Deformi e sconnesse porzioni di aborti riemergono ed urtano cupi la chiglia. In quella bufera galleggiano volti, risuonano voci, compaiono apporti alquanto simili a ectoplasmi di ricordi.

« Nessuno aspetta te. Chiunque può sostituirti. » ringhia monotona la voce « Siete miliardi, decine di miliardi, centinaia di miliardi. Chiunque può sostituirti ».

« Ma io sono unico! Ognuno è unico! Che dici? Che ne sai di me? Chi sei? » pigola l’uomo dal nistagmo acquoso, tremebondo.

« Tu! Tu eri qui anche ieri. » si inalbera la voce « E l’altro ieri. E nel 1982. E nel 1231. E prima. E prima ancora. E da sempre e in ogni corpo mi rispondi nello stesso modo. È forse questa la tua unicità? »

« Che cosa intendi dire? » grida l’uomo disperato « Non mi sono mai trovato qua! Chi sei? Che vuoi? Maledizione! ».

« Ora ti mostro la realtà »  chiosa la voce. Quindi si accende una casella, mostra un ciuffo di gramigna e questa volta non si spegne. Sull’erba appare una ragazza inginocchiata, il viso sfigurato da una smorfia, la testa fra le mani. Indossa una divisa a strisce verticali, un fazzoletto attorno al capo lascia libera una fronte intelligente, segnata da una cicatrice chiara ed ampia come ali di farfalla. È scalza. « Ti prego amore mio, portami via! Ti prego! » geme con lo sguardo appeso al cielo.

Nel buio circostante cani latrano insistenti, minacciosi. Il bercio di un comando rauco ne riduce gli arti a canne di bambù divelte e l’erba fruscia di bestiame che si accuccia in un guaito di paura.

« È Irene! » strilla l’uomo « È la mia Irene! È la sua voce! ».

Nel misero ritaglio illuminato, compare uno stivale militare in cuoio nero. La punta rinforzata in piombo grigio s’accosta alla ragazza genuflessa che, atterrita, lancia un grido acuto, disperato:  « Non eravamo uomini? Cosa eravamo? Cosa siamo? » 

« Человечество – Зверь и вещь » ruggisce il militare –  « L’Umanità è soltanto bestia e roba! Taci, vecchio sacco d’immondizia! ». L’insulto è insalivato, la lingua dall’accento imbellettato di sterminio è carta vetro su ferita esposta. La conta della sera trova vivi solo quattro cani magri e settecentoventi prigionieri. I cani erano cinque: uno mancante. « Dov’è il cane? » domanda lo stivale scalpitando come raffica di mitra « Dov’è il cane? ».

Bava di cielo cola sulle tempie della donna. Rugiada serra, gelida e pietosa, le ciglia dei cadaveri gettati sopra a sacchi di usurata juta. Di fronte, blocco 24, avvengono, su brande, coiti frammentati al prezzo di una sigaretta o di granaglie di pagnotta insanguinata.

La donna china il capo lentamente e la bugia dentro di lei si incarna. Solleva due occhi cheti, luminosi di risorto orgoglio: « La cagna sono io! Prendetemi e mangiate tutti, questo è il corpo mio. Rimetto i tuoi peccati, che il buio abbia la luce in mia memoria! ». Un tuono di metallo cavernoso innesca una catena di bagliori: scotomi scintillanti prima azzurri come cielo, infine rossi come il sangue; corpuscoli di luce, sono esplosi a illuminare i volti della donna, ormai cadavere di carne macinata in una posa innaturale, e del suo boia. Appare questi ansante e lercio. La bocca, una tetanica abrasione, si tende a mo’ di fionda caricata di macigni incandescenti a sostenere un naso stretto come graffio di felino. L’elastico sottende l’altalena dello sguardo e, a tratti rilasciato e teso, si traduce in un abulico nistagmo.

Si spegne la casella. Un urlo di dolore, poi singhiozzi. Poi silenzio.

« Tu uccidi sempre chi ti aspetta » ruglia la voce « ed ogni volta fuggi e ti ritrovo qui, svuotato della tua memoria. Osserva ancora la realtà! ». S’accende una casella: accanto al ciuffo di gramigna un pagliericcio accoglie un sudicio fardello antropomorfo. Una coperta traforata dalle tarme lo ricopre. È una bambina. Respira piano, fa le fusa come un gatto. Dorme? Struscia un piede, scalcia dolcemente l’aria. Sogna? La notte è rotta da uno sbattere di porta: passi grevi su di pavimento in legno, scricchiolii di ghiaccio frantumato, lezzo d’uva fermentata, digerita, vomitata. Il ritmo del respiro cresce, pare un cane accalorato. I passi s’avvicinano, la bimba si rannicchia, piccolo insetto in agonia finge la morte per sfuggire al predatore. Ma questi strappa la coperta, afferra una caviglia, trascina a se quel piccolo groviglio di terrore. Stracci dilaniati assumono le geometrie di carni rosee: rettangoli di coscia, ottagoni di ventre, triangoli di orrore, circonferenze d’ansiti e grugniti. L’urlo! La madre si risveglia, accorre scarmigliata, sferra un colpo di badile a quella schiena denudata e sbronza, irta di pelo. Con scatto idrofobo di lupo, il predatore si rivolta, lotta, s’impadronisce di quell’arma impropria, la solleva al cielo e, col furore di più vite già abusate, la riabbassa in un fragore in pelle ed ossa. La guancia della bimba luccica di sangue, i labbri irregolari di ferita separano la fronte in due paesaggi speculari di una stessa emorragia, due ali di farfalla dispiegate in volo. La madre perde i sensi, crolla accanto al predatore che, tremante, osserva il corpo senza vita della figlia. Chiude gli occhi per il tempo di un singhiozzo e li riapre in un abulico nistagmo.

Si spegne la casella. La notte pare grotta di metallo. Stalattiti e stalagmiti di sinapsi –  ragnatele di coscienza – si trasmettono segnali, gocce infinitesimali di memoria ne congiungono le estremità, serrando il cuore in un’antica morsa.

« Ora ricordi? »

L’uomo vorrebbe sciogliere il nistagmo, liberare gli occhi da quel reiterato fotogramma di binario, alzarsi, correre lontano. Ma l’attesa di quel treno, la fiducia nel suo arrivo, paralizza. La speranza supera il terrore, ottunde i sensi, nega l’evidenza.

« Ricordi ora? »

La mezzaluna, il tabellone, la panca, le caselle: attorno non v’è altro. Quel segmento di rotaia non ha inizio e non ha fine: è sommatoria di se stesso a dare un’infinita retta, a costruire l’illusione dello scorrere del tempo. Cosa c’è da ricordare? Ogni ricordo è padre di dolore, e il padre va sconfitto, superato, depredato della madre e ucciso. Perché accecarsi volontariamente? La coscienza acceca!

« Rammenti? »

Acceca! Spalanca i pori della mente, si insinua in ogni circonvoluzione cerebrale ungendola di pece scura, appiccicosa e corrosiva, da qui diffonde in ogni cellula del corpo e induce alla contrattazione, depreda l’individuo della forza sacrosanta di negare e di negarsi per potersi preservare dalle insidie della vita: l’istinto vince, la ragione uccide.

« Ne hai memoria? »

Uccide! Illumina la fine del sentiero, costringe ad accettare le presenze altrui, mitiga l’ira, punisce il furto, crea infelicità. La bestia che c’è in noi è la vera essenza. L’amor proprio è oblio, dimenticanza, digestione ed escrezione del passato, protratta fanciullezza rinnovata ad ogni passo, ad ogni istante. Memoria è distorsione del presente, distruzione del futuro, giudice implacabile e tiranno. La bestia non ricorda e non prevede, per questo si conserva pura, esente da ogni colpa.

« Vedo i tuoi pensieri » riprende sterile la voce « li conosco molto bene, sono antichi. Non puoi stare qua per sempre, arrenditi! ».

« Arrendermi a che cosa? »

« Alla memoria. Altro non sei. »

« Irene non esiste, Irene non è mai esistita! » sbraita l’uomo « L’ ho uccisa per salvarmi!  Voleva che io l’amassi, che la ricordassi! Mi costringeva ad essere presente. Chiedeva che io restassi uguale, giorno dopo giorno identico a me stesso, imprigionato in una forma, in un’identità. » il tremito si cheta, l’avambraccio si rilassa «Coerenza, integrità, stabilità: menzogne! Io sono molte vite, posso essere chiunque, voglio essere chiunque! Si tenga la sua unicità, si strozzi di coscienza: io sono libero!».

Il capo ora si muove lentamente, la fronte si fa secca di sudore evaporato ed il nistagmo si dissolve, condensandosi sereno nel riposo dell’assoluzione. La luna si rigonfia, illumina un sentiero dissestato, circondato di ginepri e salici piangenti. Alacremente l’uomo lo percorre. S’allontana. Non lo scorgi più. Le colpe – in verità soltanto quella d’esser nati – si risolvono in ammenda di reincarnazione, appuntamento rinnovato, giuramento di continuità. Un fischio graffia l’aria: arriva un treno. Fanali come occhi di falena gettano luce sui binari, li divorano sbuffando vento; la gramigna ondeggia, si china, vibra, si rialza: è passato. Le rotaie si conficcano nel nulla, rinnovata, primordiale oscurità. Si leva un fiato dolce, una sommessa brezza anima steli di ranuncoli neonati: un delicato tango irresistibile, struggente, si dipana, sale al cielo e lo dissemina di piccoli puntini luminosi, note sciolte, liberate dal collare della melodia. Li vedi quei puntini luminosi? La senti la canzone? Rincorrila, traducila, ricordane il refrain: l’espresso della notte passerà di qui, lo aspetteremo insieme. Abbi fiducia. Vedrai che arriverà.

 

Y. Stratos ®

 
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