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Messaggi del 06/05/2011
Biologia/Antropologia/Uomo LA SCIMMIA NUDA, STUDIO ZOOLOGICO DELL'ANIMALE UOMO, di Desmond Morris (RCS 1968/2010).
Il libro denuda lo "scimmione nudo" più di quanto non abbia fatto l'evoluzione in milioni di anni. Divertente e provocatorio, basato su "accurate indagini" (ma siamo alla fine degli anni Sessanta), il libro ci spoglierà e ci farà capire quanto sia (in)utile nasconderci dietro un dito. A pag. 178 si legge: "Spesso i gesti di amicizia derivano da quelli di sottomissione (...) Questo si è verificato per le reazioni dei riso e del sorriso (che incidentalmente appaiono ancora quando vogliamo placare qualcuno sotto forma di sorriso timido e di risolino nervoso). La stretta di mano si manifesta come un rito scambievole tra individui più o meno dello stesso rango, mentre quando vi è una forte differenza di classe si trasforma in un inchino con baciamano." È molto bella la dedica che Luca e Francesco Cavalli-Sforza presentano all'inizio del loro saggio Chi siamo - La storia della diversità umana (RCS 2009): "dedicato alle donne che hanno trasmesso i loro mitocondri". A pagina 55 del libro di Ian Tattersall, Il mondo prima della storia - Dagli inizi al 4000 a.C. (Cortina 2009), si parla di Lucy, "che visse 3,18 milioni di anni or sono. Scoperta alla metà degli anni Settanta a Hadar, in Etiopia, Lucy è uno dei molti fossili...". "Lucy" è la più famosa di tutte le numerose specie di Australopithecus afarensis, gli antichi ominidi bipedi. EdMax |
Musica! Musica Popolare Ciao Mix! http://www.partonuvole.com http://www.myspace.com/crudomimmo http://www.facebook.com/pages/IL-PARTO-DELLE-NUVOLE-PESANTI/63507121345?ref=search&sid=1175465759.338125446..1 http://www.facebook.com/pages/MIMMO-CRUDO-2/112515115461715?sk=wall
Se state lavorando e siete collegati in rete, vi invito a visitare http://www.jazzradio.fr/ Secondo me, una delle migliori radio jazz online. In particolare, jazz mouchine, contemporary jazz e classic jazz. Ho scoperto questa radio per caso a Perugia, in un locale medievale in pieno centro, il Settimo Sigillo, con tanto di armature, salotti-tortura, draghi e un... collegamento in rete, oltre a una buona cucina economica. EdMax |
Matematica / Simmetrie 1) Marcus Du Sautoy, Il disordine perfetto – L’avventura di un matematico nei segreti della simmetria, RCS 2007 2) Mario Livio, L’equazione impossibile – Come un genio della matematica ha scoperto il linguaggio della simmetria, RCS 2005 3) Ian Stewart, L’eleganza della verità – Storia della simmetria, Einaudi 2008 4) Albrecht Beutelspacher, Piega e spiega la matematica – Laboratorio di giochi matematici (Ponte alle Grazie 2009, trad. Umberto Gandini) 5) Piergiorgio Odifreddi Penna, pennello e bacchetta - Le tre invidie del matematico Laterza 2005 Simmetria/1 «Alcuni ritengono che sia il triangolo più bello», scrive a pagina 15 Albrecht Beutelspacher nel suo libro Piega e spiega la matematica – Laboratorio di giochi matematici (Ponte alle Grazie 2009). Beutelspacher si riferisce al triangolo equilatero. Cerchiamo di costruirne uno seguendo il suo procedimento. (Un altro bel libro di Albrecht Beutelspacher è Le meraviglie della matematica - 66 esperienze spiegate attraverso i numeri, Ponte alle Grazie 2008.) Materiali di lavoro? Niente gomma, matita e compasso. Occorre un semplice foglio di carta A4. Scrive Beutelspacher nell’introduzione (pagina 5): «[…] non avrete bisogno di chissà che materiale (il più delle volte basterà un po’ di carta), né di strumenti insoliti (qualche volta vi occorrerà una forbice), né di una particolare abilità manuale (giusto quel tanto che basta per piegare un foglio). Il nostro motto è: più semplice è, meglio è. E in effetti – continua Beutelspacher – la maggior parte di questi esperimenti è adatta anche ai bambini, perfino a quelli che frequentano ancora la scuola materna, i quali potranno così avvicinarsi per la prima volta alla matematica». «Occorre una linea di riferimento. Per ottenerla, piegate il foglio a metà per il lungo, così che i suoi due lati lunghi vengano a coincidere. Riapritelo e tenetelo aperto davanti a voi. Ora viene il passo decisivo: piegate l’angolo inferiore destro del foglio in modo che soddisfi contemporaneamente due esigenze: innanzi tutto il vertice inferiore destro deve andare a toccare la linea centrale di riferimento, poi la linea di piegatura deve passare per l’angolo inferiore sinistro. Il triangolo che ne risulta non è ancora equilatero, però il suo lato maggiore è già il primo del poligono che vogliamo realizzare. Osservate il lato più breve del vostro triangolo. Figuratevelo prolungato verso sinistra e piegate la carta lungo questa linea. Se sarete stati precisi, il bordo della prima piegatura verrà a combaciare con il bordo destro del foglio. Ora non rimane che ripiegare la piccola parte che avanza a sinistra, ed eccovi il triangolo equilatero.» Beutelspacher consiglia di misurare i lati oppure piegare il triangolo lungo gli assi di simmetria per vedere se lati e angoli corrispondono. EdMax |
La bellezza in matematica
1) Godfrey H. Hardy, Apologia di un matematico (presentazione di Edoardo Vicentini, prefazione di Charles P. Snow, traduzione di Luisa Saraval), Garzanti 2002. 2) Marcus Du Sautoy, L'equazione da un milione di dollari – E altri enigmi matematici che rifiutano di lasciasi risolvere (trad. di Carlo Capararo e Daniele Didero), RCS 2010 3) Mondo matematico, La sezione aurea – Il linguaggio matematico della bellezza RBA 2011 4) Mario Livio La sezione aurea – Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni RCS 2003 5) Bruno D'Amore, Matematica stupore e poesia, Giunti 2009. 6) Graham Farmelo, Equilibrio perfetto – Le grandi equazioni della scienza moderna (trad. di Libero Sosio), Il Saggiatore 2005. Così scriveva Godfrey H. Hardy nel suo Apologia di un matematico (2002 Garzanti, pag. 66-67): «Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme. Se le forme che crea sono più durature delle loro è perché sono fatte di idee. Il pittore crea forme con i segni e i colori, il poeta con le parole […]». Ma il matematico, a differenza dei pittori e dei poeti, «non ha altro materiale con cui lavorare se non le idee; quindi le forme che crea hanno qualche probabilità di durare più a lungo, perché le idee si usurano meno delle parole.» E ancora: «Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle; le idee, come i colori o le parole, devono legarsi armoniosamente. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c’è un posto perenne per la matematica brutta.» Marcus Du Sautoy, che nel suo libro L'equazione da un milione di dollari – E altri enigmi matematici che rifiutano di lasciasi risolvere (RCS 2010) usa la citazione di Hardy per un “esperimento di crittoanalisi”, a pag. 238-239 scrive: «Lessi questo libro [Apologia di un matematico] quando andavo a scuola, e fu una delle ragioni che mi fece decidere di diventare un matematico». Ian Stewart, a pag. 312 del suo saggio L'eleganza della verità – Storia della simmetria (Einaudi 2008), scrive: «Eppure ci sono tante prove del fatto che la natura, in fondo, è bella». E cita il fisico Hermann Weyl che un giorno disse: «Il mio lavoro è sempre stato quello di unire verità e bellezza, e quando ho dovuto scegliere una delle due ho sempre preferito la bellezza». Il libro di Stewart si chiude così: «In fisica la bellezza non garantisce automaticamente la verità, ma aiuta a trovare la strada. In matematica, la bellezza deve essere anche verità, perché ciò che è falso non è bello.» (pag. 315). Sulla sezione aurea: Mondo matematico, La sezione aurea – Il linguaggio matematico della bellezza, RBA 2011 (in edicola tutti i venerdì un argomento di matematica diverso) e Mario Livio, La sezione aurea – Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni (RCS 2003). Il libro di Bruno D'Amore, Matematica stupore e poesia (Giunti 2009), raccoglie brevi articoli di diversi Autori. Dopo la premessa e i capitoli I (La matematica, espressione dell’essere umano) e II (Il linguaggio della matematica), si apre il capitolo III (Matematica e poesia) con uno scritto di Piergiorgio Odifreddi dal titolo Fare il verso alla matematica. Il capitolo IV (Matematica e arti) comprende un secondo articolo di Odifreddi dal titolo Le tre invidie del matematico (abbiamo già segnalato il suo libro Penna, pennello e bacchetta – Le tre invidie del matematico, Laterza 2005), nonché un breve intervento di Michele Emmer dal titolo Cinema e matematica. Vi segnalo anche il capitolo VIII (ma tutti gli articoli presentati sono davvero molto interessanti), Matematica e filosofia, con gli interventi di Umberto Bottazzini (Dimostrazioni di destra o di sinistra?) e di Giorgio Israel (Nulla e zero tra matematica, filosofia e teologia). Infine, il capitolo IX (Matematica, società e politica) chiude il libro con gli interventi di Sandro Graffi (Alcune riflessioni sul rapporto tra matematica e società verso la fine del Settecento) e di Ubiratan D’Ambrosio (Perché gli educatori e i ricercatori che si occupano di matematica non possono ignorare le istanze che vengono dalla politica?). Ma non potete non leggere, Equilibrio perfetto – Le grandi equazioni della scienza moderna (Il Saggiatore 2005) di Graham Farmelo, in particolare la prefazione dello tesso Farmelo dal titolo Dev’essere bella, con chiaro riferimento all’equazione. Anche questo libro, come il precedente di D’Amore, raccoglie una serie di interventi; ne cito solo tre: L’equazione del sestante E = mc2 di Peter Galison, Erotismo, estetica e l’equazione d’onda di Schrödinger di Arthur I. Miller, La matematica dell’evoluzione di John Maynard Smith. Infine, chiude questo bellissimo libro la postfazione di Steven Weinberg dal titolo Come sopravvivono le grandi equazioni. EdMax |
Musica I Ribossa e Luciano Ceriello Ribossa è il nome di un gruppo musicale bolognese che purtroppo ora non esiste più. Ribossa era un tentativo di riproporre la bossanova brasiliana. La “bossa” era il nostro genere musicale. Per intenderci, quella di Antonio Carlos (Tom) Jobim, autore di brani intramontabili come Garota de Ipanema, Wave, Desafinado, Insensatez, Aguas de Março, Eu Seu Que Vou Te Amar, Agua de Beber, A felicidade, Se Todos Fossem Iguais A Vocè, Olha Maria, … Ma non c’era solo Jobim nel repertorio dei Ribossa. C’erano anche Djavan, João Bosco, Milton Nascimento, Caetano Veloso, Edu Lobo, Elis Regina, Jorge Vercilo, Ivan Lins, … E poi c’era la musica fusion! “Bossafusion” era il nostro genere musicale. Pat Metheny, John Scofield, Mike Stern, David Sanborn, John Patitucci, Dave Weckl, Vinnie Colaiuta e tanti altri musicisti fusion dei nostri tempi. E poi c’era il jazz! “Bossafusionjazz” era il nostro genere musicale. E poi il blues e il progressive-rock. E poi i nostri brani personali, come PsychoFusion, Black Box, Parallasse, Not(t)e di colore, Red, Frammento d’estate,… Chi era la band dei Ribossa? C’ero io (chitarra), Fulvio Leone (sax contralto, flauto e percussioni), Marco Saggiorato (piano e tastiere), Roberto Gambini (basso), Luciano Ceriello (chitarra e voce). Tra i vari batteristi che hanno contribuito alla parte ritmica dei Ribossa desidero ricordare Paolo Zanella. Luciano Ceriello (Celux73) è compositore, cantante e chitarrista napoletano. Io e Luciano intendiamo registrare alcuni nostri brani. Abbiamo già registrato un CD con i suoi brani, tra cui Il Viaggio, Con me stesso, Allegria e Je crero. Allegria e Je crero sono in rete: Allegria è su http://www.youtube.com/watch?v=tAuGHB14djw Je crero è su http://www.youtube.com/watch?v=8IERomRzHVA Ciao, Luciano. E saluta i tuoi gatti... matematici! EdMax
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Matematica – Ipazia 1) Adriano Petta, Antonino Colavito, Ipazia – Vita e sogni di una scienziata del IV secolo (prefazione di Margherita Hack), La Lepre Edizioni 2010. 2) Silvia Ronchey, Ipazia – La vera storia (RCS 2010). 3) Carl B. Boyer, Storia della matematica (prefazione di Lucio Lombardo Radice, traduz. di Adriano Cargo), Mondadori 2004. Scrive Adriano Petta a pag. 228-232 (la seconda parte del libro è scritta da Antonino Colavito): «[…] Dal buio salta fuori una marea di monaci paraboloni che, in un baleno, circondano i nostri cavalli […] Ipazia e io ci troviamo sbattuti per terra, eppure riesco a sfilare il gladio e il pugnale, grido come un indemoniato, riesco a trapassare il petto di due, tre, quattro maledetti, poi mi passano delle corde attorno al corpo, ferisco, lotto con tutte le mie forze, chiedo aiuto, mi vogliono imbavagliare, urlo il nome di Ipazia, odo un suo grido strozzato che m’implora di fuggire […] Ipazia è a pochi passi da me, le hanno strappato di dosso il mantello, il cuore mi scoppia, i suoi occhi innocenti mi cercano. Pietro il Lettore si fa consegnare da un’ombra fremente alle sue spalle una grossa conchiglia affilatissima, squarcia la tunica bianca della mia maestra: in pochi attimi le strappa di dosso ogni indumento, lasciandola nuda. Ipazia cerca di girarsi verso l’altare, le viene impedito con calci e schiaffi da alcune belve di monaci che la tengono inchiodata davanti a me… mentre io – ormai legato mani e piedi – sono tenuto in ginocchio con la forza da una decina di maledetti […] Si gira, torna da Ipazia, con la conchiglia affilata le rompe il bavaglio: “Tu non sei una pagana qualunque: il tuo sacrificio deve servire da monito, deve accelerare le conversioni in massa!” […] Pietro porge la sua conchiglia a un monaco che gli sta accanto, afferra Ipazia per i capelli dietro la nuca, la immobilizza con la mano sinistra, si fa aiutare dagli altri due… dio… dio! E con due dita dotate di quelle spaventose… amore! amore! e con due dita, con quelle unghie spaventose cava un occhio alla mia Ipazia, che emette un grido straziante… dio… dio ferma questo demonio! […] il carnefice getta sull’altare, tra i petali bianchi, l’occhio del mio amore […]». Mi fermo qui. E’ veramente straziante la morte di Ipazia. Qualcuno avrà visto il film Agorà su Ipazia (io purtroppo no) e mi chiedo se le scene del film rispecchiano la storia che Adriano Petta e Antonino Colavito scrivono nel loro bellissimo libro. Ipazia è documentata dalla bizantinista Silvia Ronchey in Ipazia – La vera storia (RCS 2010). Chi era Ipazia? Secondo alcuni – scrive Ronchey a pag. 10-11 –«una scienziata, la più importante fino a Madame Curie», «una filosofa allieva di Plotino», una «sacerdotessa e una teurga», una «eroina protofemminista», «martire della libertà di pensiero», «agnello sacrificale dell’ultimo paganesimo», «prima strega bruciata sul rogo dall’inquisizione ecclesiastica». E poi: «illuminista e romantica, decadente e parnassiana, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. È stata un Galileo donna e una Mademoiselle de Maupin, una George Sand e un’Odette, un asteroide e una stella invisibile dalla prodigiosa forza d’attrazione, un buco nero». A pag. 223 della sua Storia della matematica, Carl Boyer scrive a proposito di Teone di Alessandria e di sua figlia Ipatia: «Teone fu responsabile anche di una importante edizione degli Elementi, che ci è pervenuta; egli viene ricordato anche come il padre di Ipatia, una dotta giovane donna autrice di commenti a Diofanto, Tolomeo e Apollonio. Ardente ammiratrice della cultura pagana, Ipatia si attirò l’odio di una plebaglia fanatica di cristiani in mano ai quali trovò una morte crudele nel 415. La profonda impressione che la sua morte suscitò ad Alessandria indusse alcuni ad assumere tale anno per contrassegnare la fine della matematica antica; tuttavia è più appropriato farla terminare un secolo più tardi». EdMax
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NUMERI_1 1) Philip e Phylis Morrison (con lo studio di Charles e Ray Eames), Potenze di dieci – Cosa succede aggiungendo un altro zero, Zanichelli 1986 2) Alfred S. Posamentier, Ingmar Lehmann, I (favolosi) numeri di Fibonacci, Muzzio 2010 «Un uomo e una donna fanno un picnic in un prato. Questo picnic è il centro di tutte le precedenti immagini verso l’esterno, sino alla visione dello spazio intergalattico». Seguite il quadrato blu disegnato sulla mano destra dell’uomo. Poi scegliete: potete scorrere le pagine da una parte, e vi avvierete verso l’estremamente grande, o dalla parte opposta, verso l’infinitamente piccolo. Dal protone che costituisce un singolo atomo della mano dell’uomo, all’universo uniforme in cui «le novità andrebbero cercate nel tempo più che nello spazio». Cioè: da 1025 m a 10–16 m. Sono ben quaranta le potenze di 10 che Philip e Phylis Morrison presentano in Potenze di dieci – Cosa succede aggiungendo un altro zero. Un bellissimo libro corredato da immagini mozzafiato! «Quanto più grandi sono i numeri di Fibonacci, tanto meglio il loro quoziente approssima la sezione aurea», scrivono Alfred S. Posamentier, Ingmar Lehmann in I (favolosi) numeri di Fibonacci (pag. 16-17).
«Consideriamo il quoziente della coppia di numeri di Fibonacci consecutivi», come 13/8, 55/34, 144/89, 4181/2584 …, ecc. Il quoziente tra il 40° e il 41° numero di Fibonacci è: 165580141 / 102334155 = 1,6180339887498948909091,00681×1017… «Confrontare quest’ultimo quoziente con il valore della seziona aurea: 1,6180339887498948482045868343656…». Il libro discute anche la relazione che esiste tra i numeri di Fibonacci e il mondo vegetale, il triangolo di Pascal, le frazioni continue, arte e architettura, … Insomma, un gran bel libro! Se volete saperne di più: Mario Livio, La sezione aurea – Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, RCS 2003. EdMax |
Numeri_2 Zero e infinito 1) Constance Reid, Da zero a infinito – Fascino e storia dei numeri (trad. di Domenico Minunni), Dedalo 2010 2) John D. Barrow, Da zero a infinito – La grande storia del nulla, Mondadori 2001 3) Robert Kaplan, Zero – Storia di una cifra, RCS 1999 A pag. 24-25 del bellissimo libro Da zero a infinito – Fascino e storia dei numeri, Constance Reid conclude il capitolo iniziale, dal titolo 0 Zero, con queste parole: ««Zero è l’unico numero che può essere diviso da ogni altro numero. Zero è l’unico numero che non può dividere nessun altro numero […] Zero è sufficientemente simile a tutti gli altri numeri per essere uno di loro, ma abbastanza diverso da essere considerato un numero singolare: l’ultima, e la prima, delle cifre.» A pag. 30-31 del successivo capitolo, dal titolo 1 Uno, si legge: «Uno è l’unico numero che divide ogni altro numero. Uno è l’unico numero che non può essere diviso da nessun altro numero […] l’unico numero sempre collegato alla sua antitesi – zero. Mentre uno divide tutti i numeri, zero non ne divide nessuno; uno non è divisibile per nessun altro numero, mentre zero è divisibile per tutti quanti.» Il capitolo non poteva non chiudersi in questo modo: «Ogni numero è divisibile per uno. Ogni numero è divisibile per se stesso.» Gli ultimi due capitoli del libro riguardano il numero e di Eulero e l’insieme Aleph con zero, passando ovviamente per i capitoli da 3 Tre a 9 Nove. Nel primo capitolo (pag. 7) dal titolo 0 Nullologia: volare da nessuna parte del bellissimo libro Da zero a infinito – La grande storia del nulla, John D. Barrow scrive: «[…] niente, nessuna cosa, nullità, zero… insomma c’è un nulla per ogni occasione. Vi sono zeri di tutti i tipi su cui concentrare l’attenzione, dai punti zero alle ore zero, dalle cifre nulle ai nulliversi. Vi sono concetti che sono vuoti, luoghi che sono svuotati, e vuoti di tutte le forme e le dimensioni. Passando agli umani, ci si imbatte in nichilisti, nichiliani, nullisti, nullità e “signori nessuno”». A pag. 9 recita «un divertente enigma che gioca sul doppio significato della parola cipher: U 0 a 0, but I 0 thee. O 0 no 0, but O 0 me. O let not my 0 a mere 0 go, but 0 my 0 I 0 thee so. Che, decifrato, significa: Tu sospiri per una nullità, ma io sospiro per te. Oh, non sospirare per una nullità, ma sospira per me. Oh, non fare che il mio sospiro sia speso per una semplice nullità, ma sospira per il mio sospiro, perché io sospiro per te così.» Un bell’esempio di zero (pag. 12): la «composizione di John Cage intitolata 4’33” – accolta in alcune sale da entusiastiche richieste di bis – consiste in quattro minuti e trentatré secondi di ininterrotto silenzio, eseguito da una brava pianista in abito da sera seduta immobile sullo sgabello di fronte a uno Steinway pronto per l’uso. Cage spiega che la sua idea è creare l’analogo musicale dello zero assoluto delle temperature». E poi «l’Essay on Silence di Elbert Hubbard contiene solo pagine bianche […], un volume vuoto intitolato The Nothing Book, fu pubblicato nel 1974 […]». E Barrow cita ancora John Cage (pag. 35): «Non ho nulla da dire… e lo sto dicendo, e questa è poesia». Nel suo libro Zero – Storia di una cifra, Robert Kaplan inizia il capitolo 2 Per i Greci non aveva nome (pag. 30) con queste parole: «Perché è occorso tanto tempo per dire niente? Perché, in seguito, l’uso dello zero continuo a essere così esitante? E perché, dopo essere emerso, tornò a inabissarsi?» Ovviamente, Kaplan cita anche Ulisse/Nessuno e Polifemo. E poi, a pag. 67: «È come osservare al rallentatore il formarsi di un’idea: il passaggio da un “nominato” a una notazione puramente posizionale, da un posto vuoto che qualunque cifra può occupare al “numero vuoto”: un numero a pieno titolo, che costringe gli altri nelle giusta posizioni». Al prossimo “zero”! EdMax |
Numeri_3 Zero e infinito 4) John D. Barrow, L'infinito – Breve guida ai confini dello spazio e del tempo, Mondadori 2005 5) Ròzsa Péter, Giocando con l'infinito – Matematica per tutti, BUR 2010 6) Antonino Zichichi, L'infinito – L'avventura di un'idea straordinaria, Il Saggiatore 2004 Dalla tartaruga di Zenone all’albergo di Hilbert, dall’infinito potenziale di Aristotele a Georg Cantor, da Shakespeare a Luca Ronconi,… Molto bello il libro di John D. Barrow L'infinito – Breve guida ai confini dello spazio e del tempo. A pag. 47 del libro, un’immagine illustra «l’Albergo Infinito nella scena di apertura dello spettacolo Infinities dell’autore, rappresentato con la regia di Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano nel 2002 e nel 2003». Altre due immagini dello spettacolo (pag. 155) sono commentate dalla seguente didascalia: «Il paradosso della replicazione infinita in un universo dove nulla è originale, reso drammaticamente vivo nella messa in scena milanese di Infinities, con la regia di Luca Ronconi». Interessante la nota 3 del capitolo III, in cui si legge: «Sembra che la storiella dell’Albergo Infinito gli sia stata attribuita senza che egli [Hilbert] abbia mai scritto nulla in proposito. La storia acquisì una certa notorietà quando fu brevemente riferita da George Gamow nel suo libro Uno due tre… infinito […]». Segnalo anche il libro della matematica ungherese Rózsa Péter (Budapest, 1905–1977), Giocando con l'infinito – Matematica per tutti, con la postfazione di Giulio Giorello. A pag. 190 si legge: «Si potrebbe pensare che, dato che è così rigorosamente vietato, non dovrebbe capitare a nessuno di dividere per 0. In forma così evidente forse no, ma qualche volta 0 “si traveste”, per esempio nella seguente forma (x + 2)2 – (x2 + 4x + 4)». E poi (pag. 191): «C’è sempre una qualche divisione per tali zero nascosti nelle “dimostrazioni” in cui si dimostra per esempio che 1 = 2 […] La prima cosa che si nota a proposito di questa curva [l’iperbole] è che si compone di due parti. Ciascuna parte è regolare e continua, ma al punto zero vediamo un grande salto, una grande “lacerazione” verso l’infinito: la parte sinistra tende inferiormente all’infinito, quella destra superiormente. E tra di esse sta l’asse delle y, come una spada sguainata: “Puoi avvicinarti, ma non giungerai al divisore zero!”». «Se vuoi leggere un buon libro sull’infinito comincia da quello di Zichichi. È un buon inizio», mi disse un giorno un amico insegnante di matematica. Si riferiva a L'infinito – L'avventura di un'idea straordinaria, in cui Antonino Zichichi racconta, oltre i “fatti”, anche la favola della Principessa Cristina che aveva inventato la corrispondenza biunivoca. «È proprio questa invenzione – scrive Zichichi alla fine del capitolo L’invenzione della Principessa Cristina: la corrispondenza biunivoca – che permetterà all’uomo di capire l’Infinito». Al prossimo “zero”! Edmax |
Numeri_4 Chiudiamo questa breve rassegna di libri (tra l’immensa letteratura disponibile) su Zero e infinito con altri due riferimenti bibliografici: 7) Amir D.Aczel, Il mistero dell'alef – La ricerca dell'infinito tra matematica e misticismo, Il Saggiatore 2010 8) Jean-Pierre Luminet, Marc Lachièze-Rey, Finito o infinito? Limiti ed enigmi dell'Universo, Cortina 2006 «Il 6 gennaio del 1918 un uomo stanco ed emaciato moriva a causa di un collasso cardiaco presso la Halle Nervenklinik, una clinica psichiatrica universitaria nella città industriale tedesca di Halle. Il suo corpo venne trasportato con grande discrezione attraverso la città e fu sepolto in un piccolo cimitero. Soltanto poche persone parteciparono al funerale protestante, tra queste la moglie del defunto e i cinque figli. Il cimitero ora non esiste più; è stato smantellato per far posto ad abitazioni private. Ma qualcuno è riuscito a salvare la lapide, che è stata collocata anni dopo, e senza il corpo, in un altro piccolo cimitero di Halle, dove si trova ancora oggi. Vi si legge questa iscrizione: Dr. Georg Cantor Professor d. Mathematik 3.3.1845-6.1.1918». Questo è l’inizio di Il mistero dell'alef – La ricerca dell'infinito tra matematica e misticismo, in cui Amir D.Aczel racconta la vita di Cantor e i suoi “incubi”: i numeri transfiniti, l’ipotesi del continuo, Shakespeare e la malattia mentale. A pag. 121 si legge: «Anche se non esiste un numero più grande di tutti […] è tuttavia possibile che esista un numero più grande di tutti i numeri finiti. Cantor chiamò il suo primo numero transfinito w, utilizzando l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Se il numero 1 era l’“alfa”, il primo numero, allora il più piccolo numero infinito più grande di tutti i numeri finiti era l’“omega”. A questo punto assunse che il principio di generazione dei numeri si potesse estendere in modo naturale ai numeri transfiniti, riuscendo così a definire i numeri transfiniti w + 1, w + 2, …, 2w, …, w2, …, ww, … e così via. In questo modo aveva ottenuto un numero infinito di numeri infiniti […] Ma qual è il numero cardinale dell’insieme di tutti gli interi? E dell’insieme dei numeri razionali? Qual è il numero cardinale di un insieme infinito? In un primo momento, Cantor utilizzò il suo w per denotare il numero cardinale di un insieme contabile quale l’insieme di tutti gli interi. Usò anche il simbolo […] per denotare l’infinito: µ. Ma in seguito decise che per i numeri cardinali erano necessari simboli nuovi. Decise quindi di fare riferimento ai suoi infiniti (i suoi numeri cardinali transfiniti) usando la lettera alef, À, dell’alfabeto ebraico[…] Perché scelse l’alef?», si chiede Aczel. Nel capitolo 14 (pag. 135) intitolato Shakespeare e la malattia mentale, Aczel scrive che Cantor «iniziò a studiare la letteratura inglese, animato dall’intento di dimostrare che Francesco Bacone era il vero autore delle opere teatrali di Shakespeare (corsivo mio)». Il capitolo 14 inizia con queste parole: «È stato suggerito che la malattia di Cantor fosse uno scompenso bipolare: depressione maniacale». E così sia. Aleph! «L’onnipresenza dell’infinito in matematica è sorprendente, poiché l’uomo è un essere finito, limitato, collocato su un pianeta limitato e finito. Eppure, questo essere finito esamina l’infinito e se ne serve, al punto che l’infinito gli risulta indispensabile per comprendere il finito stesso». Qesta citazione è parte del prologo di Finito o infinito? Limiti ed enigmi dell'Universo di Jean-Pierre Luminet e Marc Lachièze-Rey. E concludo con una celebre metafora sull’infinito: «Le grandi pulci hanno sulle loro spalle delle piccole pulci che mordono, le piccole pulci hanno sulle loro spalle pulci ancora più piccole, e così all’infinito. Le grandi pulci hanno, a loro volta, pulci più grandi su cui salire, mentre queste ne hanno di ancora più grandi, e più grandi e più grandi, e così via». Edmax |
Personaggi della matematica e delle scienze Léon Foucault Amir D. Aczel, Pendulum – Léon Foucault e il trionfo della scienza, Il Saggiatore 2006 Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo – I dieci esperimenti più belli nella storia della scienza, Longanesi 2007. «Dopo una doppia oscillazione durata sedici secondi, lo vedemmo ritornare circa 2,5 millimetri a sinistra del punto di partenza. Poiché lo stesso effetto continuava a verificarsi a ogni nuova oscillazione del pendolo, questa deviazione aumentava continuamente in proporzione al passare del tempo». Questa è una citazione (pag. 127) del libro Pendulum – Léon Foucault e il trionfo della scienza (capitolo 10, Il Panthéon) in cui l’autore, Amir D. Aczel, racconta la storia del «genio solitario che non aveva compiuto studi scientifici regolari né si era laureato in una delle famose università che avevano conferito alla capitale francese il primato nel campo delle idee e del sapere. La storia che sto per raccontare – scrive Aczel nella prefazione – è quella di Jean Bernard Léon Foucault (1819-1868) e del suo pendolo, con il quale dimostrò che la Terra gira, mettendo fine a secoli di ostinato scetticismo e di conflitto fra scienza e fede». A proposito di pendolo: Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo – I dieci esperimenti più belli nella storia della scienza, Longanesi 2007. I dieci esperimenti di cui parla Crease sono: 1) la misura della circonferenza terrestre di Eratostene; 2) la caduta dei gravi e la «leggenda del campanile pendente»; 3) il piano inclinato di Galileo; 4) la scomposizione della luce di Newton; 5) L’«austero» esperimento di Cavendish; 6) l’«illuminante analogia di Young»; 7) il pendolo di Foucault; 8) l’esperimento di Millikan; 9) il nucleo di Rutherford; 10) l’interferenza quantistica. Crease alterna ai dieci capitoli altrettanti «interludi» interessanti. Nell’interludio Perché la scienza è bella, Crease scrive (pag. 33): «Concentrare l’attenzione sui caratteri estetici esteriori della scienza è il modo più rapido per perderne di vista la bellezza. La bellezza di un esperimento sta nel modo in cui esso mostra il suo operato […] La bellezza dell’experimentum crucis di Newton non ha niente a che fare con i colori prodotti dai suoi prismi (in effetti Newton, per escogitare il suo esperimento, dovette guardare oltre i colori), bensì consiste nel modo in cui rivela il suo trattamento della luce […]». Nell’interludio Il confronto Newton-Beethoven, a proposito della contrapposizione tra scienziati e artisti, Crease cita Kant, secondo il quale «il “genio” […] non si trova fra gli scienziati, che sono in grado di spiegare a se stessi e agli altri quel che stanno facendo, ma solo fra gli artisti. Mentre gli scienziati possono rendere comprensibile ad altri la loro attività, gli artisti producono opere originali, il segreto della cui creazione è ignoto e in conoscibile […] Né Omero né alcun grande poeta – scrive Kant – potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri». Nell’interludio La scienza distrugge la bellezza?, Crease cita il fisico Richard Feynman quando dice: «La conoscenza scientifica può solo accrescere l’ammirazione, il senso di mistero e la reverenza che proviamo dinanzi a un fiore». Nell’interludio Capacità artistiche nella scienza, Crease parla del suo vecchio progetto di «ripetere l’esperimento con cui Rutherford scoprì il nucleo atomico» che fu proposto al fisico Samuel Devons, che aveva collaborato con Rutherford. «Il mio progetto fece sghignazzare a lungo Devons», il quale spiegò che «l’esperimento [scientifico] è vero artigianato, come costruire un violino […] Supponiamo che lei andasse da un liutaio chiedendo uno Stradivari […] Egli sorriderà, proprio come ho fatto io poco fa. Perché l’abilità dell’artigiano sta nella conoscenza che ha sulle punta delle dita, che consiste nella lunga pratica e nei ripetuti tentativi fatti per ottenere un risultato migliore. Ci si imbatte in piccoli inconvenienti e si pensa: come posso superarli? E poi si trova un modo […] Quando si spingono le proprie apparecchiature al limite, è maledettamente facile avere risultati spuri. Ogni volta si gratta il fondo, e non si sa che cosa ci è sfuggito. Ogni sperimentatore ha compiuto errori terribili una volta o l’altra, e conosce casi di amici che hanno perso la faccia per avere ottenuto risultati spuri e averli pubblicati troppo in fretta. Eppure ci siamo abituati a portare al limite ciò che sappiamo. Se non lo facciamo noi lo farà per primo qualcun altro. È una cosa terribile essere preceduti dagli altri. Si conoscono moltissimi casi di scienziati che si sono lasciati sfuggire una scoperta alla loro portata per essere stati troppo prudenti o perché qualcun altro è stato più abile di loro. C’era un’intera scuola austriaca che stava lavorando sugli stessi problemi studiati da Rutherford, pressappoco nello stesso tempo, e oggi nessuno ne ha mai sentito parlare. Perché? Perché Rutherford fu solo un pochino più audace e più abile». Nell’ultimo interludio Gli sconfitti, Crease fa riferimento agli esperimenti che non figurano nella top ten. Il libro si conclude con La scienza può ancora essere bella?, le cui ultime parole sono quelle di Henri Poincaré: «Lo scienziato non studia la natura perché sia utile farlo. La studia perché ne ricava piacere, e ne ricava piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena di conoscerla e la vita non sarebbe degna di essere vissuta» (pag. 223). EdMax |
Didattica della matematica [Dai miei appunti di didattica della matematica – Università di Ferrara] Trascrivo in questo blog alcuni appunti e riflessioni di natura didattica. Esercizio o problema? È interessante la distinzione che viene operata tra “esercizio” e “problema”. In un esercizio la risoluzione prevede l’utilizzo di regole e procedure già apprese, mentre in un problema una o più regole e procedure non sono ancora padroneggiate, e si richiede dunque un atto creativo. Il problema è quindi strumento di acquisizione di conoscenza, mentre l’esercizio è uno strumento per consolidare conoscenze e abilità. E se il problema privilegia processi e strategie, l’esercizio si concentra invece su prodotti e risultati. L’insegnante, a sua volta, segue i processi nel caso della risoluzione dei problemi, ma corregge e valuta i prodotti degli esercizi. In altre parole, nella risoluzione di un problema il soggetto ha un ruolo produttivo, mentre nell’esercizio il soggetto svolge un ruolo esecutivo. Una tecnica del problem solving, quella dei cosiddetti esercizi anticipati, consiste nel proporre un esercizio in una classe inferiore: in tal modo l’esercizio diventa un problema. Ma perché emergono problemi nel risolvere i “problemi”? Le difficoltà nella risoluzione di problemi possono avvenire nella fase iniziale di lettura del testo, ma più spesso riguardano la comprensione del testo, la sua “trasformazione” formale, l’applicazione della tecnica risolutiva appropriata e la codifica della risposta nel linguaggio matematico opportuno. Risolvere problemi dello stesso tipo ma in ambienti diversi significa trasferire il sapere da una situazione all’altra in modo naturale, implicito e spontaneo. E, soprattutto, senza il bisogno di ulteriori richieste cognitive specifiche per la nuova situazione di apprendimento. Invece, le capacità procedurali rimangono spesso ancorate all’ambito nel quale si sono acquisite: non si ha il trasferimento della conoscenza. La difficoltà riguarda il fenomeno di transfer cognitivo, che trasforma la conoscenza artificiale, costruita su misura in un ambiente opportuno, in conoscenza generalizzata, capace di produrre abilità cognitive e procedurali in altre situazioni. Contratto didattico Per “contratto didattico” s’intende «l’insieme dei comportamenti e delle attese reciproche dell’insegnante e dell’alunno nei confronti del sapere». Il contratto didattico è sorretto da regole implicite, vere e proprie clausole che devono essere individuate e annullate per determinare apprendimento. Una prima clausola del contratto didattico è l’immagine (di solito pessima) che si ha dei “problemi di matematica”. Il problema di matematica non è altro che un testo scollegato dalla realtà che riporta dati essenziali e richieste specifiche. La soluzione del problema esiste, è unica e si determina in poco tempo. Per giungere alla soluzione occorre usare sempre i calcoli. Il “problema di matematica” è diverso dal “problema reale”. Eccetera. È possibile rompere o limitare questa clausola assegnando problemi in cui si chiede se c’è qualche dato mancante o superfluo, o problemi che hanno più soluzioni o che permettono di giungere alla soluzione in più modi,… Una seconda clausola è la cosiddetta esigenza della giustificazione formale (egf), che si verifica anche nella scuola media. Questa clausola costringe l’allievo/a a percorrere solo la strada indicata dall’insegnante, e impedisce di risolvere autonomamente l’esercizio per timore di commettere qualche errore di procedura o di forma. La clausola della delega formale consiste nell’assenza di controllo/verifica della coerenza tra dati e soluzione: lo studente legge il testo e decide le operazioni da svolgere, ma poi non controlla più il suo operato in quanto “delega l’algoritmo”. E se il risultato è errato, spesso non ne prende atto, trascurando le incongruenze interne alla propria risoluzione. In altre parole, lo studente non esercita il controllo semantico. Il cosiddetto effetto einstellung si verifica quando la ripetitività nella risoluzione di esercizi, che consolida le abilità tecniche, induce ad “applicare formule anche quando non è più necessario”. Infine, l’obbligo parassita impone, per esempio, di disegnare figure geometriche sempre nello stesso modo poiché orientazioni diverse possono indurre qualche perplessità: per esempio, un rettangolo con la “base” minore dell’altezza o un parallelogramma con l’altezza diretta al prolungamento del lato opposto. Conoscenza intuitiva e conoscenza logica Le nozioni cosiddette intuitive sono direttamente accettabili perché autoevidenti; le nozioni cosiddette logicamente basate sono invece accettabili indirettamente sulla base di una certa dimostrazione esplicita. Spesso si crea un conflitto tra nozioni intuitive e nozioni acquisite. E se l’intuitività di una certa proprietà tende ad oscurare nella mente dello studente la sua importanza matematica, una proprietà apparentemente banale sembra eliminare la necessità e l’utilità di enunciarla esplicitamente, di dimostrarla o di definirla. Per esempio, si considerino i due seguenti problemi: 1) “Un litro di succo di arancia costa 2 euro. Quanto costeranno 3 litri? Con quale operazione si arriva alla soluzione?" 2) "Un litro di succo di arancia costa 2 euro. Quanto costeranno 0,75 litri di succo di frutta? Con quale operazione si arriva alla soluzione?" La soluzione del problema 1) è ottenuta intuitivamente ed è semplice e diretta. La soluzione del problema 2) è meno semplice: viene spontaneo rispondere con la divisione 2:0,75 (= 2,67 euro!). Questa è una risposta intuitiva scorretta legata all’idea che “la moltiplicazione accresce e la divisione riduce”. Ricorrendo alla relazione di proporzionalità fra costo e quantità 1 litro : 2 euro = 0,75 l : x, si ha che x = 2 × 0,75 (= 1,5 euro), cioè una moltiplicazione e non una divisione! Analogamente, sembra intuitivamente plausibile che (a ± b)2 = a2 ± b2, invece della forma corretta con il termine misto 2ab. Questa tentazione è forte perché è altrettanto intuitivo e plausibile che l’esponente si distribuisca equamente ai due componenti dell’addizione. Spesso la soluzione intuitiva è più forte della soluzione formale! Idee errate che riguardano gli elementi teorici fondamentali (misconcezioni) si formano nella mente dello studente in virtù della propria esperienza personale, dell’interazione con l’ambiente, di assonanze linguistiche o del fatto che il linguaggio specifico utilizza termini del linguaggio comune. Spesso tali concezioni erronee restano latenti ma non inerti, perché rappresentano per lo studente il modo per dare significato a certi elementi basilari della teoria. Vi segnalo: Barozzi Bergamini Boni Ceriani Pagani, La matematica per il cittadino – Idee per insegnare, Zanichelli 2008 Stella Baruk, Dizionario di matematica elementare, Zanichelli 1998 Bruno D'Amore, Didattica della matematica, Pitagora 2001 Bruno D'Amore, Matematica stupore e poesia, Giunti 2009 EdMax |
Un bellissimo libro che spiega l’inizio e la fine dell’universo: Charles Seife, Alfa e omega – La ricerca dell’inizio e la fine dell’universo, Le Scienze 2009 Quattordici capitoli raccontano appassionatamente altrettanti traguardi della cosmologia. La prefazione si apre con le parole «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, il primo e l’ultimo» (Rivelazione 22:13). Poi il capitolo 1, La prima cosmologia, ovvero L’età d’oro degli dei. Quindi le prime “rivoluzioni cosmologiche”: la prima (la teoria copernicana, cap. 2) e la seconda (Hubble e il big bang, cap. 3). Il modello del big bang sarà confermato da ulteriori osservazioni: è così che inizia la terza rivoluzione (Il furore dell’universo, cap. 4), che continua con La musica delle sfere (un tributo a Keplero?), ovvero Il fondo cosmico di microonde (cap. 5), con chiaro riferimento alla scoperta di Penzias e Wilson. Materia ed energia oscura, barioni e neutrini, vuoto e inflazione sono gli argomenti dei successivi capitoli. Il capitolo 10, Supersimmetria, si apre con una citazione di Vitruvio (De Architectura: Libri X): «[…] quando ci sono altre ostruzioni inevitabili, sarà ammesso sottrarre o aggiungere qualcosa alle relazioni simmetriche, ma con ingegno e acume, così che il risultato non si discosti dalla bellezza che è legata alla vera simmetria» (pag. 144). Il capitolo XII, Il più grande mistero della fisica, si riferisce in realtà a tre “grandi misteri”: la forza antigravitazionale, il vuoto e l’inflazione. Se la forza antigravitazionale – scrive Seife a pag. 172 – «spiana l’universo e spinge le galassie ad allontanarsi le une dalle altre», il vuoto si può riassumere in una frase che l’autore scrive a pag. 175: «Il vuoto è davvero pieno di particelle e di energia»! La teoria dell’inflazione, infine, si deve al fisico Alan Guth che la propose nel 1980 (pag. 180). L’ultimo capitolo, il 14°, ci delizia con un Viaggio alla fine del tempo, cioè quello che ci aspetta Oltre la terza rivoluzione. L’Appendice A del libro, dal titolo Il pensionamento della luce stanca, si chiude con una citazione di Allen Sandage che sembra un epitaffio per Edwin Hubble, che dimostrò l’espansione dell’universo: «L’espansione è reale. Lo spostamento verso il rosso non è dovuto a qualche fenomeno sconosciuto. E questo è quanto». Un frase laconica ma molto profonda. Altre tre appendici chiudono il libro: l’Appendice B dal titolo Da dove proviene la materia?, l’Appendice C che elenca i Premi Nobel per la fisica, passati e futuri dal 1933 al 2002 (ma Seife si diverte a «fare delle previsioni su quali ricerche e quali ricercatori potrebbero ottenere il riconoscimento», senza azzeccarci) e l’Appendice D dal titolo Alcuni esperimenti da tenere d’occhio. Per i premi Nobel per la fisica: http://it.wikipedia.org/wiki/Vincitori_del_Nobel_per_la_fisica_(cronologico) EdMax |
Post n°72 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Bill Bryson – Breve storia di (quasi) tutto (trad. di Mario Fillioley, TEA 2003) Bill Bryson, con brillante ironia e una serie incredibile di informazioni, racconta e commenta le vicende di un numero impressionante di personaggi scientifici, alcuni dei quali famosi, altri perfetti sconosciuti che, essendo vissuti “all’ombra dei giganti” (e non sulle loro “spalle”), e non riuscendo a pubblicare le loro opere perché preceduti da qualcun altro, non avranno mai l’onore di essere menzionati in un libro di testo di scienze!
Nell’introduzione Bryson scrive: «In momenti diversi, negli ultimi 3,8 miliardi di anni dapprima abbiamo aborrito l’ossigeno e poi l’abbiamo amato alla follia; ci siamo fatti spuntare ali, pinne ed eleganti vele dorsali; abbiamo depositato uova e falciato l’aria con lingue biforcute; siamo stati lisci o pelosi, abbiamo vissuto sottoterra e sugli alberi; siamo stati grandi come cervi e piccoli come topi, e milioni di altre cose ancora. Una minima deviazione da ciascuno di questi processi evolutivi e adesso ci ritroveremmo a leccare alghe dalle pareti di una grotta, a ciondolare su una riva rocciosa alla maniera dei trichechi o ancora a sfiatare da un’apertura sopra la testa prima di immergerci a diciotto metri di profondità per concederci un boccone di quei deliziosi vermi che vivono affondati nella sabbia» (pag. 11). Nella prima parte del libro, Persi nel cosmo, Bryson parla dell’evoluzione del modello del Big Bang. Cita Alan Guth che nel suo The Infationary Universe «paragona il centesimo piano dell’Empire State Building al tempo presente e il Big Bang al livello stradale: le galassie più distanti si trovano al sessantesimo piano, i quasar al ventesimo. Dopo la scoperta di Penzias e Wilson la nostra conoscenza si spinge fino a mezzo millimetro dal piano terra» (pag. 22). Quando Arno Penzias e Robert Wilson si imbatterono nella radiazione cosmica di fondo, non pensavano di aver «scoperto il bordo dell’universo» e di «“vedere” i primi fotoni, sebbene il tempo e la distanza li avessero trasformati in microonde». Anzi, credevano che il “fastidioso rumore” provenisse da qualche difetto dell’antenna per le comunicazioni che stavano utilizzando. Cercarono di pulire a fondo l’antenna, togliendo «anche quello che un articolo (che uscì qualche tempo dopo) definì “materiale bianco dielettrico”, altrimenti noto come cacca di uccello». Ma il rumore non poteva andare via perché, secondo una metafora ormai abusata, stavano ascoltando la “eco del Big Bang”! Ancora ignari della fonte del rumore, Penzias e Wilson telefonarono a Princeton e descrissero a Dicke il problema […] Dicke si rese subito conto di quello che i due giovanotti avevano scoperto. Bene ragazzi, disse ai suoi colleghi mentre riagganciava, ci hanno battuti sul tempo». L’Astrophysical Journal pubblicò sia l’articolo di Penzias e Wilson sia quello di Robert Dicke che spiegava la natura della scoperta: «Dicke fu battuto sul tempo».
La seconda parte del libro, Le dimensioni della Terra, si apre (pag. 53) con l’Epitaffio per Sir Isaac Newton scritto da Alexander Pope: «Nature and nature's laws lay hid in night; God said: Let Newton be!, and all was light» (La natura e le sue leggi erano sepolte nella notte; Dio disse: che Newton sia! E fu luce ovunque.)
In realtà sulla tomba di Newton fu inciso un altro epitaffio: «Sibi gratulentur mortales tale tantumque exstitisse humani generis decus» (Si rallegrino i mortali perché è esistito un tale e così grande onore del genere umano). Bryson racconta (pag. 59-60) il resoconto del confidente di Newton, Abraham de Moivre, secondo cui Newton «nel 1684 ricevette la visita del dottor Halley», il quale cominciò a tempestarlo di domande su quale potesse essere la «curva descritta dai pianeti». La risposta di Newton fu immediata: la curva era un’ellisse (come Keplero aveva già dimostrato). Halley gli chiese come lo sapesse. «Ma perché l’ho calcolato; al che il dottor Halley gli chiese di mostrargli i suoi calcoli; Sir Isaac cercò tra le sue carte, ma non riuscì a trovarle. Pressato da Halley, Newton accettò di rifare i calcoli e di trarne uno scritto. Mantenne la promessa spingendosi oltre. Si ritirò per due anni di intensa riflessione emergendo alla fine col suo capolavoro: Philosophiae naturalis principia mathematica, meglio noto come i Principia». «Prossimo agli dei, inaccessibile ai mortali», sentenziò Halley. Perfino Gottfried Liebniz, con cui Newton ebbe una lunga e amara contesa circa la priorità nell’invenzione del calcolo infinitesimale, riconobbe il suo contributo».
«Quanto alla gravitazionale universale – scrive Bryson (pag. 60-61) – potrà sembrare assurdo che qualunque cosa facciate il vostro piccolo campo gravitazionale attrae pareti, soffitto, lampadario, il gatto, e tutto il resto attrae voi: un paio di piccole moltiplicazioni e una divisione». EdMax
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Bill Bryson - Breve storia di (quasi) tutto Le scoperte geologiche più importanti sono raccontate nel capitolo 5, Gli spaccapietre. Interessante, a pag. 86, il racconto della “storia geologica” della Terra: «In origine, la storia della Terra fu divisa in quattro intervalli di tempo: Primario, Secondario, Terziario e Quaternario […] Primario e Secondario caddero del tutto in disuso, mentre il Quaternario fu abbandonato da alcuni e mantenuto da altri. Oggi, solo il Terziario rimane […], sebbene non rappresenti più il terzo periodo di niente». Poi cita Charles Lyell (un’autorità su Dante e sui muschi), nei cui Principles of Geology (prezioso compagno di viaggio di Darwin) introduce «ulteriori suddivisioni, dette epoche o serie, per coprire il periodo che inizia a partire dall’età dei dinosauri»: dal Pleistocene (recentissimo) al Pliocene (più recente), dal Miocene (moderatamente recente) al «più vago e accattivante Oligocene (alquanto recente)». Lyell intendeva usare il suffisso –sincrono, «infliggendoci termini–scioglilingua come Meiosincrono e Pleiosincrono. Il reverendo William Whewell, uomo influente, sollevò in proposito obiezioni etimologicamente fondate, e suggerì una desinenza in –eo, che avrebbe generato termini come Meioneo, Pleioneo e così via. La terminazione in –cene fu quindi una sorta di compromesso». Oggi le quattro ere Precambriano, Paleozoico (vita antica), Mesozoico (vita di mezzo) e Cenozoico (vita recente) sono suddivise in periodi, come Cretaceo, Giurassico, Triassico, Siluriano, ecc.». Tra gli “spaccapietre” c’era il reverendo William Buckland e il dottor James Parkinson (noto per il suo studio fondamentale sulla malattia allora conosciuta come “paralisi agitante” e in seguito morbo di Parkinson). Il capitolo si chiude con riferimenti ad altri pittoreschi personaggi più o meno famosi che si occuparono di datare la nascita della Terra: dall’arcivescovo James Ussher, che giunse alla conclusione che «la Terra era stata creata a mezzogiorno del 23 ottobre del 4004 a.C.», alla Freccia del tempo di Stephen Jay Gould, da Edmond Halley a Georges-Louis Leclerc conte di Buffon, che all’inizio ritrattò la sua idea che la Terra avesse un’età compresa tra 75.000 e 168.000 anni, per poi «ribadirla allegramente in tutti i suoi scritti successivi», da Charles Darwin a William Thomson (Lord Kelvin), che per la Terra postulava un’età di poche decine di milioni di anni. Pochine, se si considera che la stima attuale è di circa quattro miliardi e mezzo di anni. Ma, come dice Carl Sagan, erano uomini semplicemente «prigionieri dei loro tempi». Altre vicende raccontate da Bryson riguardano Pierre Bouguer e Charles Marie de La Condamine, che si prefiggevano di triangolare alcune distanze attraversando le Ande, ma «a Quito gli studiosi furono cacciati dagli indigeni; il medico della spedizione fu ucciso a causa di una donna, il botanico impazzì, altri morirono per le febbri o cadute; un tal Pierre Godin fuggì con una tredicenne. Bouguer e La Condamine non si rivolsero più la parola». Richard Norwood trascorse due anni camminando per oltre 300 km a nord fino a York svolgendo e misurando di continuo una catena e aggiustando i calcoli per tenere conto dell’inclinazione del suolo; misurando l’angolo del Sole a York nella stessa ora e nello stesso giorno dell’anno in cui lo aveva misurato a Londra, dedusse la lunghezza di un grado del meridiano terrestre, per poi calcolare la circonferenza del pianeta: i suoi risultati davano 110,72 km per grado d’arco, mentre Jean Picard nel 1699 annunciò una lunghezza di 110,46 km. Le misurazioni in seguito coinvolsero altri personaggi: Nevil Maskelyne, noto per aver osservato il transito di Venere davanti al Sole e per aver misurato, insieme a Charles Mason e Charles Hutton (l’inventore delle curve di livello o isoipse) il valore della massa terrestre; John Michell, che ipotizzò l’esistenza dei buchi neri duecento anni prima di chiunque altro; William Herschel, che progettò uno strumento per il calcolo della massa terrestre. Dopo la sua morte, il progetto e le attrezzature passarono nelle mani di Henry Cavendish, che portò il valore della massa della Terra a 6x1021 kg. Scienziati “spericolati”… Se «in America Benjamin Franklin rischiava la vita facendo volare un aquilone in una tempesta elettrica», racconta Bryson, in Francia «un chimico di nome Pilatre de Rozier verificava l’infiammabilità dell’idrogeno riempiendosene la bocca e soffiando su una fiamma viva» (de Rozier è anche ricordato per il primo incidente “aereo” documentato con la sua mongolfiera). A sua volta, Cavendish si sottoponeva a scariche elettriche di intensità crescente, a volte fino alla perdita di coscienza. Gran parte di quello che sappiamo sulla sopravvivenza in condizioni estreme lo si deve a John Scott Haldane e al figlio J.B.S. Haldane padre studiò le elmintiasi che affliggevano i minatori, calcolò la durata delle pause da effettuare durante la risalita per evitare l’embolia gassosa, studiò il mal di montagna degli scalatori e i colpi di calore nelle regioni desertiche, si somministrò il monossido di carbonio smettendo sul punto di perdere il controllo muscolare. Haldane figlio – Jack, noto ai posteri come J.B.S. – aiutò il padre nei suoi esperimenti, ma ebbe il merito di aver coniugato i principi evoluzionistici darwiniani con la genetica mendeliana, producendo quella che è nota tra i genetisti come Sintesi Moderna. Trovò la Prima guerra mondiale «un’esperienza molto piacevole», apprezzando «l’opportunità di uccidere». Dopo la guerra diventò un divulgatore di successo e scrisse 23 libri. In uno dei suoi esperimenti simulò su se stesso una pericolosa risalita rapida, che causò l’esplosione delle otturazioni dei denti. «Quasi tutti gli esperimenti» scrive Norton «finivano con qualcuno che sanguinava, vomitava o aveva una crisi convulsiva». Lo stesso Haldane ebbe una crisi convulsiva in seguito a un’inalazione eccessiva di ossigeno, riportando lo schiacciamento di diverse vertebre e rischiando il collasso dei polmoni e la perforazione del timpano. Anche la moglie, sottoposta alla simulazione di un’immersione in profondità, ebbe una crisi che durò 13 minuti. Quando alla fine smise di contorcersi sul pavimento, la aiutò a rimettersi in piedi e poi la spedì a casa a preparare la cena. Sotto gli esperimenti di privazione dell’ossigeno capitò anche un ex primo ministro spagnolo, Juan Negrìn, che poi lamentò un leggero formicolio e «una curiosa sensazione vellutata alle labbra». Un esperimento simile di privazione di ossigeno lasciò lo stesso Haldane senza sensibilità alle natiche e alla parte inferiore della spina dorsale per sei anni. A profondità superiori a 30 metri, l’azoto diventa anche un potente inebriante e produce repentine alterazioni dell’umore, condizioni che attirarono l’attenzione di Haldane. Intorno al 1830, il naturalista inglese Edward Forbes sondò i fondali del Atlantico e del Mediterraneo dichiarando che al di sotto dei 600 metri di profondità, senza luce e vegetali e a pressione elevatissime, non c’era alcuna forma di vita. Così fu una sorpresa quando, nel 1860, uno dei primi cavi telegrafici transoceanici, ripescato da più di 3 km di profondità per effettuare riparazioni, fu trovato ricoperto di spesse incrostazioni di coralli, molluschi bivalvi e altri detriti organici. Per tre anni e mezzo, a partire dal 1872, la Challenger, un’ex nave da guerra, solcò i mari del globo campionando acqua, catturando pesci, dragando i sedimenti del fondale, scoprendo organismi marini sconosciuti, fondando così l’oceanografia. Scoprì anche che nel bel mezzo dell’Atlantico sembravano esserci montagne sommerse che fecero pensare ad Atlantide. La prima batisfera («sfera di profondità») fu progettata da Otis Barton, anche se il merito venne attribuito al socio Charles William Beebe. Si trattava di una robusta camera di ghisa spessa 4 cm con due piccoli oblò che poteva ospitare solo due uomini in stretta intimità. La sfera non aveva alcuna manovrabilità, era solo appesa all’estremità di un robusto cavo. Per neutralizzare la loro stessa anidride carbonica, i due prepararono fusti aperti di calce sodata, e per assorbire l’umidità aprivano una vaschetta di cloruro di calcio, sulla quale agitavano foglie di palma in modo da incoraggiare le reazioni chimiche. La prima immersione avvenne nel giugno del 1930 alle Bahamas, scendendo a 183 metri Nel 1934 giunsero a 900 metri, sebbene vi fossero evidenti prove acustiche della pressione esercitata su ogni bullone. Con una lampadina di 250 watt che i due tenevano vicini all’oblò, Beebe restò sbigottito nello scorgere un serpente gigantesco «lungo oltre sei metri e molto grosso». Barton scese fino a 1370 metri nel 1948. Gli svizzeri Auguste e Jacques Piccard, padre e figlio, stavano progettando un batiscafo battezzato Trieste, in onore della città in cui fu costruito, che nel 1954 scese fino a 4000 metri di profondità. Nel 1960 Jacques Piccard e Don Walsh si immersero lentamente fino a giungere sul letto del più profondo canyon sottomarino, la fossa delle Marianne, nel Pacifico occidentale, precedentemente scoperta da Henry Hess con il suo scandaglio. Ci vollero quasi 4 ore per scendere a 10.918 metri. Malgrado la pressione, i due toccarono il fondo disturbando una creatura simile a una sogliola. Non avevano l’attrezzatura per fare fotografie e non esistono immagini che documentano l’evento. Dopo 20 minuti di permanenza sul fondale oceanico più profondo del pianeta, Piccard e Walsh tornarono in superficie. Abbiamo mappe di Marte ben più dettagliate di quelle dei nostri fondali oceanici. … e scienziati “sfortunati” Un uomo molto sfortunato fu sicuramente Gideon Algernon Mantell. «Nel 1822 la signora Mantell trovò una pietra marrone ricurva che il marito identificò in un dente fossile appartenuto a un animale erbivoro, un enorme rettile vissuto nel Cretaceo. La creatura fu battezzata iguanodonte per via della somiglianza con i denti delle iguane sudamericane. […] Il merito fu attribuito al reverendo William Buckland e non a Mantell, il quale […] per far fronte ai debiti fu costretto a vendere la maggior parte della sua collezione. Subito dopo la moglie con i 4 figli lo lasciarono. Ma i problemi per Mantell erano appena cominciati. Era assente alla cena del 31 dicembre 1853 (preparata all’interno dell’iguanodonte non ancora finito) alla quale partecipò Richard Owen, il luminare che descrisse l’Archeopterix (scoperto nel 1861 in Baviera) e che nel 1841 coniò i termini herpeton (dal greco rettile) e dinosauria (lucertole terribili). Quando Mantell giunse a Londra, fu coinvolto in uno spaventoso incidente in carrozza: si impigliò nelle redini e fu trascinato dai cavalli in preda al panico. Riemerse curvo, storpio e afflitto da dolori cronici, con danni alla colonna vertebrale. Approfittando dell’incidente, Owen cancellò i suoi contributi da tutti i lavori, rinominando specie a cui Mantell aveva già assegnato un nome e attribuendosene la scoperta. Nel 1852, incapace di sopportare ulteriori pene e vessazioni, Mantell si tolse la vita. La sua colonna vertebrale fu affidata per tragica ironia allo stesso Owen. Il necrologio descriveva Mantell come un mediocre anatomista, gli sottraeva la scoperta dell’iguanodonte per attribuirla a Cuvier e Owen. Owen morì nel 1892, Buckland perse la ragione e trascorse gli ultimi anni in un manicomio, e la colonna vertebrale di Mantell rimase esposta per quasi un secolo prima di essere pietosamente distrutta da una bomba tedesca nel 1940» (pag. 98-109). Un altro sfortunato scienziato è stato Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), considerato il padre della chimica moderna. Nel 1780 Lavoisier «mosse critiche alla teoria della combustione di Jean-Paul Marat, che non gliele perdonò mai. Scartò l’esistenza del flogisto e dell’aria metifica, identificò l’ossigeno e l’idrogeno per quello che erano attribuendogli il nome moderno e, con la moglie, scoprì che un oggetto non diminuiva di peso quando arrugginiva, anzi, aumentava. Nel processo l’oggetto attraeva in qualche modo le particelle elementari dell’aria. Il concetto portò alla formulazione della legge di conservazione della massa, un’autentica rivoluzione. Purtroppo andò a coincidere con un’altra rivoluzione, quella francese: nel 1791 Marat denunciò Lavoisier in quanto membro dell’odiata Ferme Général che riscuoteva gabelle per lo stato. Marat venne ucciso nel bagno dalla giovane Charlotte Corday, nel 1793 Maria Antonietta fu mandata alla ghigliottina e nel novembre dello stesso anno Lavoisier fu arrestato mentre pianificava con la moglie di riparare in Scozia. A Maggio, assieme a 31 colleghi appaltatori delle gabelle, fu condotto davanti al Tribunale Rivoluzionario (in un’aula sulla quale dominava la statua di Marat). Otto di loro furono assolti, Lavoisier e gli altri furono portati nella Place de la Révolution (oggi Place de la Concorde). Lavoisier assistette alla decapitazione del suocero, poi toccò a lui (il 27 luglio toccò a Robespierre). Una statua in memoria di Lavoisier fu eretta, ma lo scultore ammise di avere usato la testa del matematico e filosofo marchese di Condorcet nella speranza che nessuno se ne accorgesse. Durante la Seconda guerra mondiale la statua fu trascinata via e fusa come rottame» (pag. 116). Il matematico Lagrange commentò l’evento: «È bastato un momento per tagliare quella testa, e forse non basterà un secolo per generarne un'altra pari alla sua». Agli inizi del secolo Pierre Curie cominciò ad avvertire i primi sintomi della malattia da radiazioni. Non sappiamo se sarebbe peggiorata poiché nel 1906 fu investito e ucciso da un’autovettura a Parigi. Per lungo tempo si pensò che la radioattività dovesse essere benefica. Dentifrici e lassativi contenevano torio radioattivo. Marie Curie morì di leucemia nel 1934, anno in cui la presenza di sostanze radioattive fu bandita dai prodotti di consumo. Tutti i suoi appunti e ricettari da cucina sono troppo pericolosi per essere maneggiati. I suoi appunti di laboratorio sono conservati in scatole piombate, e chi desidera consultarli deve indossare abiti protettivi. Alfred Wegener non visse a lungo da vedere vendicate le sue idee. Nel 1930, nel corso di una spedizione in Groenlandia, si allontanò da solo, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, alla ricerca di rifornimenti paracadutati. Non fece più ritorno. Fu ritrovato qualche giorno dopo, morto assiderato sul ghiaccio. Lo seppellirono sul posto e lì giace ancora – sebbene un metro più vicino al Nord America, rispetto al giorno in cui morì. Anche Einstein morì a Princeton nel 1955, prima che Hapgood stroncasse la teoria della deriva dei continenti. Quanto a Hess, un suo studente, Walter Alvarez, avrebbe finito per cambiare il mondo. Altri personaggi sfortunati furono Rosalind “Rosy” Franklin, la quale non condivise il Nobel con James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins per la scoperta della struttura del DNA in quanto morì nel 1958, a soli 37 anni, forse a causa dell’esposizione ai raggi X. Nella sua biografia di Rosalind Franklin, Brenda Maddox fa notare che la scienziata raramente indossava le protezioni di piombo e spesso passava incurante davanti al fascio di raggi. Parleremo diffusamente di “Rosy”. Max Planck fu sicuramente un uomo molto fortunato, se si considera il fatto che pose le basi della fisica quantistica coniando nel 1900 il termine “quanto”, ma «nella vita Planck fu spesso sfortunato. La prima moglie morì prematuramente nel 1909, il figlio più giovane rimase ucciso nella Prima guerra mondiale. Una delle due figlie gemelle morì di parto; l’altra si occupò del bambino ma anche del cognato e anch’essa morì di parto. Nel 1994, quando aveva 85 anni, una bomba cadde sulla sua casa distruggendo tutto, documenti, diari, il lavoro di una vita. L’anno seguente l’unico figlio sopravvissuto fu giustiziato perché coinvolto in una cospirazione per assassinare Hitler. Planck, tuttavia, visse fino all’età di 89 anni e ancora oggi è famoso per la costante h che prende il suo nome, nonché per il famoso Max Planck Institute. EdMax
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Post n°74 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Cosmo di Carl Sagan (Mondadori 1980) – Capitoli I-III
Non so da dove cominciare per descrivere il meraviglioso libro Cosmo del compianto Carl Sagan (1934–1996). È stato il libro che più di altri ha determinato le scelte della mia vita professionale. Lo lessi la prima volta nella cameretta della casa dello studente che mio fratello Mimmo (attuale bassista del Parto delle Nuvole Pesanti) condivise con me mentre preparavo gli esami per conseguire la laurea in scienze naturali presso l’università di Bologna. È stata una rivelazione. In verità avevo visto qualche puntata del documentario omonimo che Sagan aveva preparato per la televisione, ma il libro (come tutti i libri di grande spessore) è stato veramente illuminante. È difficile trovarlo in libreria perché fuori catalogo. È una vera fortuna se proprio in questo istante posso sfogliare le sue pagine e rileggere le parti che ho sottolineato. Il libro, dedicato a Ann Druyan, moglie del compianto Sagan, è corredato da disegni e dipinti accattivanti e realistici. Ma chi era Carl Sagan? Leggiamo la nota sull’autore alla fine del libro: «Carl Sagan è stato direttore del Laboratorio di Studi Planetari e titolare della cattedra di astronomia e scienze spaziali della Cornell University (Ithaca, NY). Ha svolto un ruolo chiave nell’organizzazione delle missioni planetarie Mariner, Viking e Voyager, ricevendo sia le medaglia della NASA per “meriti scientifici eccezionali” e “per grandi servigi resi alla collettività”, sia il premio Prix Galabert. È stato presidente della Divisione di Scienze Planetarie della Società Astronomica Americana, presidente della Sezione di Astronomia dell’Associazione Americana per il Progresso della Scienza e presidente della Sezione di Planetologia dell’Unione Geofisica Americana. Per dodici anni è stato redattore capo di Icarus, la principale rivista astronomica dedicata alla ricerca planetaria. Oltre ad aver pubblicato centinaia di articoli scientifici e divulgativi, è stato autore, coautore e curatore di numerosi libri. Nel 1975 ha ricevuto il premio Joseph Priestley per “contributi eminenti al benessere dell’umanutà” e nel 1978 il Premio Pulitzer per la letteratura con I draghi dell’Eden – Considerazioni sull'evoluzione dell'intelligenza umana. Dal libro Contact, il regista Robert Zemeckis ha realizzato il film omonimo del 1997 con l’attrice Jodie Foster. Infine, aggiungiamo noi, è stato uno dei fondatori del Progetto SETI per la ricerca delle intelligenze extraterrestri. Nel capitolo I di Cosmo, dal titolo Le rive dell’oceano cosmico, Sagan scrive (pag. 7): «Di fronte a numeri tanto imponenti, quale probabilità esiste che un’unica stella comune, il Sole, sia accompagnata da un pianeta abitato? Perché dovremmo godere di tal privilegio, nascosti in qualche angolo dimenticato del Cosmo? Mi sembra assai più probabile che l’universo debba traboccare di vita. Ma noi uomini non lo sappiamo; stiamo appena cominciando le nostre esplorazioni». E poi (pag. 8): «A quaranta mila anni luce da casa, ci troviamo ora a cadere verso il centro massiccio della Via Lattea. Ma se vogliamo trovare la Terra dobbiamo mutare la rotta verso la lontana periferia della Galassia, verso il bordo di un remoto braccio a spirale». Naturalmente, Sagan comincia dagli antichi Greci: discute l’esperienza di Eratostene (detto “Beta” perché «era secondo in ogni cosa») per determinare la misura della circonferenza terrestre (pag. 15); parla della grande Biblioteca di Alessandria d’Egitto e dell’annesso Museo in cui gli studiosi «studiavano il Cosmo intero. Kósmos è il termine greco che significa ordine dell’universo, in contrasto a Chaos […];» (pag. 18-19). Quindi cita Ipparco e le sue costellazioni, Euclide e i suoi Elementi (Sagan ricorda la risposta che Euclide diede al suo re: «Non c’è per i re una scorciatoia per apprendere la geometria»), Apollonio di Perga e le sue sezioni coniche, Ipazia e il suo martirio (di cui abbiamo già ampiamente discusso in questo blog), nonché Aristarco di Samo, il primo “eliocentrista” della storia. Nel capitolo II, Una voce nella polifonia cosmica, Sagan discute di scienze della vita, parlando di Darwin e Wallace, di evoluzione e DNA, del velenoso ossigeno e dell’esplosione cambrica, di fotosintesi e respirazione cellulare, di mutazioni ed enzimi. Ma anche dell’esperimento di Stanley Miller (allievo di Harold Urey) e di alieni partoriti da autori di fantascienza e dipinti da Adolf Schaller. Il titolo del capitolo III è L’Armonia dei mondi, una chiara allusione all’opera Harmonice mundi di Keplero. Sagan racconta in questo capitolo appassionanti eventi che caratterizzarono la cosiddetta Rivoluzione scientifica. Partendo dalle costellazioni, Sagan ci parla dei sistemi costruiti dai nostri antenati per calcolare il passare delle stagioni, come quelli di Angkor-Vat in Cambogia, Stonehenge in Inghilterra, Abu Simbel in Egitto, Chichén Itzà in Messico e altri indicatori di solstizi. «L’astrologia – scrive Sagan a pag. 49 – si sviluppò in Alessandria d’Egitto e si sparse per il mondo greco e romano circa duemila anni fa. Possiamo capire quanto antica è l’astrologia considerando parole come disastro (dal greco cattiva stella) e influenza, cioè “influenza” astrale, o come l’ebraico mazeltov, di origine babilonese (“buona stella”), o lo yiddish shlamazel, detto di chi è afflitto da implacabile sfortuna […] Secondo Plinio, c’erano Romani affetti da sideratio, cioè “colpiti o fulminati da un pianeta”. I pianeti erano spesso considerati causa diretta di morte. Lo stesso verbo considerare propriamente significa “osservare gli astri (in latino, sidera) per trarne gli auspici”». Una tabella pubblicata a pag. 51 «elenca le cause dei decessi verificatisi a Londra nel 1632. Accanto alle perdite terribili dovute alle malattie dell’epoca, troviamo che su 9535 decessi 13 furono dovuti a “pianeta”, più di quelli attribuiti a “canker”. Mi chiedo quali ne fossero i sintomi», conclude Sagan. (Vale la pena di ricordare che la tabella cui Sagan fa riferimento è tratta da Natural and Political Observations (1662) di John Graunt.) Quindi Sagan descrive le “sfere eteree” di Tolomeo e la "rivoluzione copernicana", prima di dedicare ampio spazio a Keplero: «Keplero fu un brillante pensatore e un lucido scrittore, ma un disastro come insegnante. Borbottava, confondeva argomenti, talvolta appariva del tutto incomprensibile. Il suo primo anno a Graz ebbe solo un pugno di studenti, l’anno dopo nessuno. Era distratto da un incessante intimo lavorio di idee che si contendevano la sua attenzione. Durante un piacevole pomeriggio d’estate, nel bel mezzo di una delle sue interminabili lezioni, fu colpito da una rivelazione che doveva cambiare il futuro dell’astronomia. Forse si fermò a metà della frase. Gli studenti distratti, che attendevano solo la fine della lezione, forse nemmeno si accorsero dello storico momento di cui erano testimoni» (pag. 57). «Il piacere intenso che ho ricevuto da questa scoperta non può dirsi a parole… Non evitai alcun calcolo per quanto difficile. Giorni e notti spesi in fatiche matematiche, finché potei vedere se la mia ipotesi andasse d’accordo con le orbite di Copernico o se la mia gioia dovesse svanire» (pag. 57-58). La scoperta a cui Keplero si riferisce era «il nesso fra i solidi di Pitagora e i pianeti», che «poteva ammettere un’unica spiegazione: la Mano di Dio, il Geometra» (pag. 57). Con i solidi platonici (tetraedro, cubo, ottaedro, dodecaedro e icosaedro), Keplero, realizzò quello che egli chiamò Mistero Cosmico, la sua rivelazione: le sfere dei sei pianeti [allora noti: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove e Saturno] incastonate con i cinque solidi perfetti di Pitagora e Platone», come recita la didascalia del Mistero Cosmico di Keplero illustrato a pag. 58 del libro di Sagan (l’opera Mysterium Cosmographicum di Keplero sarebbe apparsa nel 1596). «Ma i solidi e le orbite planetarie non combaciavano […], dovevano essere sbagliate le osservazioni […]. C’era allora solo un’altra persona in possesso di dati d’osservazione più precisi sui pianeti, un nobile danese autoesiliatosi, che aveva accettato il posto di Matematico Imperiale alla Corte del Sacro Romano Imperatore Rodolfo II. Era Tycho Brahe, che proprio allora, su suggerimento di Rodolfo II, aveva invitato alla corte di Praga Keplero, la cui fama di matematico si stava spargendo» (pag. 58). «Tycho – scrive Sagan (pag. 59) – era una figura vulcanica, portava un naso d’oro artificiale dopo aver perso l’originale in un duello fra studenti per stabilire chi fosse il matematico migliore. Attorno a lui brulicava una folla di assistenti, parassiti, lontani parenti, le cui rivalità, maldicenze e intrighi, il cui crudele dileggio del pio e studioso zoticone di campagna venuto da Graz, depressero e rattristarono Keplero: “Tycho… è ricco in maniera superlativa ma non sa che farsene delle ricchezze. Un suo solo strumento vale più di quanto io e la mia famiglia possediamo […] Tycho non mi diede alcuna possibilità di prendere visione dei suoi dati. Egli mi avrebbe menzionato solo, nel corso di un pranzo e fra altre cose, come di passaggio, oggi la cifra dell’apogeo di un pianeta, domani i nodi di un altro… Tycho possiede le migliori osservazioni… Ha anche dei collaboratori. Gli manca solo chi faccia uso di tutto questo». Sagan conclude dicendo: «Tycho era il più grande e geniale osservatore del tempo, e Keplero il più grande teorico […] La nascita della scienza moderna – figlia della teoria e delle osservazioni – vacillava su ciglio del precipizio della loro mutua diffidenza». «Nei diciotto mesi che rimanevano da vivere a Tycho (pag. 60), i due litigarono e si riconciliarono più volte. A un banchetto dato dal Barone di Rosenberg, Tycho, che aveva bevuto molto, “antepose il galateo alla salute” e represse gli impulsi del corpo ad assentarsi, sia pur brevemente, prima del barone. L’infezione urinaria che gliene venne peggiorò quando Tycho rifiutò risolutamente di moderarsi nel mangiare e nel bere. Sul letto di morte, Tycho lasciò in eredità le sue osservazioni a Keplero, e “l’ultima notte del suo delirio ripeté più e più volte queste parole: Fate che non sembri che io sia vissuto invano… Fate che non sembri che io sia vissuto invano…”». Tycho Brahe non morì invano. Ancora oggi è ricordato per le sue grandi capacità di osservatore dei cieli. Qualche storico malizioso ha commentato che Tycho avrebbe acquisito le sue abilità grazie alla mancanza del naso: per osservare gli astri Tycho toglieva la protesi che si era fatto costruire, riuscendo così a collimare meglio il suo occhio con l’oculare dello strumento. Se questa ipotesi fosse vera, allora gli astronomi dovrebbero tagliarsi il naso per osservare meglio il cielo! Una tela di Jean-Leon Huens mostra Keplero alla prese con i suoi calcoli; sui fogli che tiene nella mano sinistra si notano chiaramente due ellissi, mentre sullo sfondo appare un ritratto di Tycho Brahe. È possibile vedere la tela nel sito web http://americangallery.files.wordpress.com/2010/09/johannes-kepler-and-tycho-brahe.jpg «Newton – scrive Sagan a pag. 67 – nacque il giorno di Natale del 1642 (a gennaio dello stesso anno moriva Galileo, anche se il calendario adottato dagli inglesi era diverso) così minuto che – sua madre ebbe poi a dirgli – sarebbe potuto entrare in un boccale da un litro. Malaticcio, trascurato dalla madre (il padre era morto poco prima che Isaac venisse alla luce), litigioso poco socievole, vergine fino alla morte, Isaac Newton è forse il massimo genio scientifico di ogni tempo». Così Sagan presenta Isaac Newton: uno scienziato che, come Keplero, «non fu immune dalle superstizioni del tempo ed ebbe molti incontri con il misticismo, uno «studente affascinato dalla luce e colpito dal Sole», un giovane che, costretto a soli ventitré anni a rifugiarsi nella campagna di Woolsthorpe, dov’era nato, «si tenne occupato inventando il calcolo differenziale e quello integrale, facendo scoperte fondamentali sulla natura della luce e ponendo le basi della teoria della gravitazione universale» (pag. 68). Era l’anno 1666, l’annus mirabilis di Newton. Il suo domestico lo descrisse così: «Non l’ho mai visto godere di alcuna ricreazione o passatempo, come cavalcare e far passeggiate per prendere aria, giocare a bocce o alcun altro esercizio fisico, poiché egli considera perse tutte le ore tolte allo studio, al quale si dedica con tanta assiduità da uscire di rado dalla sua camera, eccetto che all’ora della lezione… dove vanno così pochi a sentirlo, e ancor meno riescono a capirlo, che spesso per mancanza di uditori si trova a parlare ai muri». Sagan conclude dicendo: «Gli studenti di Keplero come quelli di Newton non seppero mai quel che perdevano». E poi: la legge d’inerzia, la legge dell’inverso del quadrato della distanza, i suoi esperimenti tra alchimia e chimica, la sfida lanciata nel 1696 da Johann Bernoulli e risolta da Newton che, su richiesta dello stesso Newton, fu pubblicata anonima. Ma il leone si riconosce dalla zampata, commentò Bernoulli quando vide la soluzione. «Newton era geloso delle sue scoperte e intollerante con i suoi colleghi scienziati. non si preoccupò di far passare un decennio o due prima di rendere pubblica la sua legge dell'inverso del quadrato. Ma di fronte alla grandezza e alla complessità della Natura egli rimase abbagliato, come Tolomeo e Keplero, e si mostrò umile in maniera disarmante. Poco prima di morire scrisse: «Non so come potrò apparire al mondo; ma per ciò che mi riguarda mi sembra di essere stato solamente come un bambino che gioca sulla spiaggia e si diverte di tanto in tanto a trovare un ciottolo più liscio o una conchiglia più bella del solito, mentre il grande oceano della verità si stende davanti tutto ancora da scoprire» (pag. 71). Vi segnalo: James Gleick, Isaac Newton, Codice Edizioni 2004 Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo – I dieci esperimenti più belli nella storia della scienza, Longanesi 2007 (cap. 4, La scomposizione della luce di Newton) Hal Hellman, Le dispute della scienza, Cortina 1999 (cap. 3, Newton contro Leibniz: scontro di titani) Maurizio Mariani, Il prisma di Newton – I meccanismi dell'invenzione scientifica, Laterza 1986 Herbert Butterfield, Le origini della scienza moderna, Il Mulino 1998 John Gribbin, L’avventura della scienza moderna, Longanesi 2004 Michael Hoskin (a cura di), Storia dell’astronomia di Cambridge, RCS 2001 Lucio Lombardo Radice, La matematica da Pitagora a Newton, Muzzio 2010 Kitty Ferguson, La musica di Pitagora – La nascita del pensiero scientifico, Longanesi 2009 Paolo Rossi (a cura di), La rivoluzione scientifica – Da Copernico a Newton, Loescher 1976 Paolo Rossi (diretta da), Storia della scienza, UTET 1988 EdMax
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Post n°75 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Cosmo di Carl Sagan – Capitoli IV-VII Il capitolo IV, dal titolo Inferno e paradiso, inizia con il cosiddetto evento di Tunguska: un preludio per parlare di comete, come quella dell’Adorazione dei Magi in cui Giotto «rappresenta la stella di Betlemme come un evento presumibilmente non miracoloso. Egli si ispirò forse all’apparizione della cometa di Halley del 1301»: così recita la didascalia dell’illustrazione di pag. 77. In una seconda illustrazione si vede «l’imperatore azteco Montezuma che osserva una cometa. Accettando la credenza popolare che le comete presagiscono catastrofi, Montezuma cadde in un cupo stato di depressione e di abulia favorendo così involontariamente la conquista spagnola del suo impero: esempio eccellente di come una profezia si realizzi da sé». «Le comete hanno sempre evocato paure e superstiziose apprensioni […] Così sorse l’idea che fossero araldi di disgrazia, àuguri di ira divina, che predicessero la morte dei principi, la caduta dei regni […] Il vescovo di Magdeburgo Andreas Celichius pubblicò nel 1578 un Monito teologico della nuova cometa [in cui] una cometa è “lo spesso fumo dei peccati umani, che si leva ogni giorno, ogni ora, ogni istante, pieno di puzzo e orrore agli occhi di Dio, diventando via via così denso da formare una cometa, con trecce attorte e arricciate, che infine viene accesa dalla collera infuocata e impetuosa del Supremo Giudice Celeste”» (pag. 78). Fu Newton a dimostrare che le comete si muovono su ellissi molto eccentriche attorno al Sole, mentre fu Edmond Halley «a calcolare che quelle del 1531, 1607 e 1682 erano tutte apparizioni della stessa cometa, a intervalli di 76 anni, e ne predisse il ritorno nel 1758. La cometa arrivò puntualmente e ricevette il nome di Halley» (pag. 79), che era già morto da sedici anni. Spesso gli scienziati sono famosi per cose che non hanno mai fatto. Bill Bryson, in Breve storia di (quasi) tutto a pag. 56-57, scrive che Halley «fu capitano di lungo corso, cartografo, professore di geometria alla Oxford University, vice direttore della Zecca Reale e inventore della campana per le immersioni in profondità. Scrisse […] su magnetismo, maree e moto dei pianeti […] Inventò le mappe meteorologiche e le tavole attuariali, propose metodi per calcolare l’età della Terra e la sua distanza dal Sole, e arrivò perfino a escogitare un sistema pratico per conservare il pesce fresco fuori stagione. La sola cosa che proprio non fece fu quella di scoprire la cometa che oggi porta il suo nome»! La cometa appare persino nel Libro del Principe Huai Nan, relativo alla marcia del re cinese Wu contro Zhou di Yin. «Era l’anno 1057». E quando si parla di comete, vengono in mente scenari apocalittici, testimoniati ancora oggi dal Meteor Crater in Arizona, che «presenta un diametro di 1,2 km e fu prodotto probabilmente da 15000 a 40000 anni fa, quando un masso di ferro del diametro di 25 metri colpì la Terra…» (pag. 84). Ma il titolo del capitolo, Inferno e paradiso, allude anche al pianeta Venere, che «ricorda più l’inferno che la dea dell’amore» (pag. 97). Invece, Marte è il protagonista assoluto del capitolo V, Blues per un pianeta rosso: da La guerra dei mondi di H.G. Wells del 1897 a Giovanni Schiaparelli, da Percival Lowell a Robert Goddard fino alle missioni Viking 1 e Viking 2 (Sagan qui parla in prima persona perché direttamente coinvolto nelle due missioni), l’autore ci racconta il pianeta rosso con immagini meravigliose, come quella di pag. 133 la cui didascalia recita: «Le fosse scavate nel terreno di Chryse alla ricerca di vita su Marte… Su scala ridotta abbiamo già cominciato ad alterare la superficie di un altro pianeta». È davvero curioso che l’idea degli “omini verdi” sia dovuta a un’infelice traduzione. Nel 1877 Schiaparelli annunciò di aver osservato “canali” sul suolo marziano, «una rete intricata di linee rette, singole e a coppie, che solcavano le zone brillanti del pianeta. Il termine italiano “canali” può indicare canali sia naturali sia artificiali, e fu sfortunatamente tradotto canals in inglese, parola che indica un’opera artificiale, invece che channels, che indica propriamente letti e sedi naturali di corsi d’acqua» (pag. 107). Nel 1892, tradito dalla vista, Schiaparelli annunciò che rinunciava a osservare Marte, e Lowell decide di proseguire. Se Marte «verrà mai “terrestrizzato”, ciò sarà per l’opera di esseri umani la cui affiliazione è Marte. Saremo noi i veri marziani», conclude Sagan (pag. 135). Il capitolo VI si intitola Racconti di viaggio. I protagonisti del capitolo sono Giove (e le sue lune) e Saturno, oltre al veicolo spaziale Voyager 2, che «proseguirà penetrando l’eliopausa [che segna il confine estremo dell’Impero del Sole] circa a metà del XXI secolo, solcando l’oceano dello spazio, senza mai entrare in un altro sistema solare, destinato a vagare attraverso l’eternità lontano dalle isole stellari e a completare la sua prima circumnavigazione del centro massiccio della Via Lattea entro alcune centinaia di milioni di anni. Ci siamo imbarcati per viaggi epici» (pag. 165). Il capitolo VII, dal titolo La spina dorsale della notte, riprende gli antichi Greci. Un’illustrazione a pag. 174 mostra il Mediterraneo orientale nell’epoca classica, con i nomi dei grandi scienziati dell’antichità. Sagan spazia tra i personaggi dell’antica Grecia, da Talete e Anassimandro di Mileto a Policrate di Samo, da Teodoro, «il sommo ingegnere cui i Greci attribuiscono l’invenzione della chiave, del regolo, della squadretta da carpentiere, della livella, della pialla, della fusione dei getti di bronzo e del riscaldamento centrale» (pag. 178) a Ippocrate di Coo, «di cui oggi resta il ricordo nel giuramento ippocratico», da Empedocle di Agrigento, che realizzò «il primo esperimento sull’aria di cui si abbia notizia», all’atomista Democrito di Abdera che «stava bussando alle porte del calcolo differenziale e integrale […], sfiorate anche da Eudosso e Archimede»; da Anassagora, «portato ad Atene da Pericle», a Pitagora di Samo, alla scuola pitagorica di Crotone, a Ippaso che, dopo aver pubblicato «il segreto della “sfera con dodici pentagoni”, il dodecaedro, morì in naufragio, all’irrazionalità della radice di due»; da Platone e Aristotele ad Aristarco (in una nota di pag. 189 si legge: «[…] Copernico scrisse in una lettera al Papa Paolo III: “Secondo Cicerone, Niceta aveva pensato che la Terra si muovesse… Secondo Plutarco [che parla di Aristarco]… certi altri hanno avuto la stessa opinione. Quando da ciò, quindi, ebbi concepito la sua possibilità, cominciai io stesso a meditare sul moto della Terra»). Un grafico (pag. 187) mostra otto secoli di storia greca, dal VII secolo a.C. al V secolo dell’era cristiana. Nell’ordine: Talete, Anassimandro, Pitagora, Anassagora, Empedocle, Ippocrate, Democrito, Platone, Aristotele, Euclide, Aristarco, Archimede, Eratostene, Ipparco, Lucrezio, Tolomeo, Ipazia. «Il declino della scienza greca – si legge nella didascalia – è indicato dalla scarsità dei nomi riportati a partire dal I secolo a.C.». EdMax |
Post n°76 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Cosmo di Carl Sagan (Mondadori 1980) – Capitolo VIII Il capitolo VIII dal titolo Viaggi nello spazio e nel tempo è molto impegnativo perché si occupa di spazio e di tempo, come dice il titolo. E quando c’è di mezzo lo spazio e il tempo (cioè lo spaziotempo), vengono in mente Albert Einstein e la sua teoria della relatività. «Se nell’ultimo decennio del XIX secolo vi foste trovati a passeggiare nel dolce paesaggio lombardo, sulla strada per Pavia avreste potuto imbattervi in un ragazzo un po’ capelluto che aveva lasciato la scuola. I suoi insegnanti in Germania gli avevano detto che non avrebbe mai fatto niente di buono, che le sue continue domande minavano la disciplina scolastica e che sarebbe stato meglio se se ne fosse dalla scuola. Così andò vagabondo per l’Italia settentrionale, deliziandosi della libertà con cui poteva rimuginare su argomenti lontani dalle materie di cui era stato ingozzato in un’aula scolastica dominata da un disciplina prussiana. Il suo nome era Albert Einstein e le due rimuginazioni cambiarono il mondo» (pag. 198). Così Sagan presenta Albert Einstein. Poi, per spiegare «che cosa significa dire che due eventi sono simultanei», scrive (pag. 199): «Immaginate che io venga in bicicletta verso di voi. Attraversando un incrocio per poco non sbatto, così pare a me, contro una carrozza e per poco non ne sono travolto. Ora ripensate a questo evento immaginando che la carrozza e la mia bicicletta stiano andando ambedue a una velocità molto vicina a quella della luce. Voi siete fermi sul bordo della strada e la carrozza si muove ad angolo retto rispetto alla vostra linea di vista mentre mi vedete venire verso di voi alla luce riflessa del Sole». A questo punto, Sagan pone una serie di esperimenti mentali (o Gedankenexperiment): «Non bisognerebbe sommare la velocità della mia bicicletta alla velocità della luce e la mia immagine non dovrebbe giungervi così molto prima dell’immagine della carrozza? Non dovreste vedermi deviare, prima di poter vedere la carrozza che arriva? Può essere che la carrozza e io giungiamo all’incrocio simultaneamente secondo il mio punto di vista, ma non secondo il vostro?» (pag. 199). Queste – scrive Sagan – non sono domande sciocche. Esse sfidano l’ovvietà ed è per questo motivo che nessuno se le pose prima di Einstein. Partendo da tali domande elementari, Einstein produsse un fondamentale ripensamento del mondo, una rivoluzione della fisica». Quindi Sagan enuncia le «regole della Natura a cui dobbiamo obbedire», cioè le regole della teoria speciale della relatività: «Non aggiungerai la tua velocità alla velocità della luce», e «Non andrai alla velocità della luce e oltre» (pag. 199). E poi: «Questo è il significato della parola relatività. L’idea è molto semplice, nonostante i suoi addobbi magici: nell’osservare l’universo, ogni punto di osservazione vale l’altro. Le leggi della Natura restano le stesse indipendentemente da chi le sta illustrando. Se ciò è vero ne segue che nessuno può viaggiare più veloce della luce» (pag. 200). «Vicinissimo alla velocità della luce, dal vostro punto di vista il mondo appare molto strano, ogni cosa è schiacciata entro una finestra circolare che rimane proprio davanti a voi. Dal punto di vista di un osservatore stazionario, la luce riflessa da voi si tinge di rosso mentre vi state allontanando e si tinge di blu mentre vi avvicinate. Se vi avvicinate all’osservatore quasi alla velocità della luce, apparirete avvolto in un alone colorato irreale: la vostra emissione infrarossa, di solito invisibile, si sposterà verso lunghezze d’onda minori appartenenti alla luce visibile. Per l’osservatore stazionario, risulterete compresso nella direzione del moto, la vostra massa aumenterà e il vostro tempo rallenterà: una conseguenza mozzafiato del viaggiare vicino alla velocità della luce, chiamata dilatazione dei tempi. Ma per un osservatore che si muova con voi – se il ciclomotore ha un altro seggiolino – nessuno di questi effetti si manifesta.» (pag. 201). Bibliografia su Albert Einstein: Walter Isaacson, Einstein – La sua vita, il suo universo, Mondadori 2008 (stupendo!) Jeremy Bernstein, L’uomo senza frontiere – Vite e scoperte di Albert Einstein, Il Saggiatore 2004 David Bodanis, E=mc2 – Biografia dell’equazione che ha cambiato il mondo, Mondadori 2009 Emilio Segrè, Personaggi e scoperte della fisica – Da Galileo ai quark, Mondadori 1996 Amir D. Aczel, L’equazione di Dio – Einstein, la relatività e l'universo in espansione, Il Saggiatore 2000 Ètienne Klein, Sette volte la rivoluzione – I grandi della fisica contemporanea, Cortina 2006 Bibliografia sulla relatività: Albert Einstein, Come io vedo il mondo – La teoria della relatività, Newton Compton 1988 Albert Einstein, Il significato della relatività, Newton&Compton 2006 John Marks, La relatività – Un’introduzione elementare, non matematica, alla relatività classica, speciale e generale, Newton&Compton 1976 Vittorio Silvestrini, Guida alla teoria della relatività, Editori Riuniti 1982 Clement V. Durell, La relatività con le quattro operazioni, Bollati Boringhieri 2008 EdMax |
Post n°77 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Cosmo di Carl Sagan – Capitoli IX-XI Il capitolo IX, dal titolo Le vite delle stelle, inizia con queste parole: «Per fare una torta di mele occorrono farina, mele, un pizzico di questo e di quello e il calore del forno. Gli ingredienti sono fatti di molecole, come lo zucchero e l’acqua. Le molecole, a loro volta, sono fate di atomi: carbonio, ossigeno, idrogeno e altri ancora. Da dove vengono questi atomi? Eccetto l’idrogeno, sono tutti fatti nelle stelle. Una stella è una specie di cucina cosmica in cui gli atomi di idrogeno sono cotti fino a farne atomi più pesanti. Le stelle si condensano a partire dalle polveri e dai gas interstellari, che sono per lo più idrogeno. Ma l’idrogeno si formò nel Big Bang, l’esplosione che diede inizio al Cosmo. Se volete fare una torta di mele dall’inizio, prima dovete inventare l’universo» (pag. 217-218). È il capitolo della nucleosintesi stellare: entrano in scena gli atomi, che «sono per lo più spazio vuoto. La materia è fatta soprattutto di niente», scrive Sagan. E l’infinitamente piccolo degli atomi e l’infinitamente grande delle stelle «corrispondono a una regressione, che non solo va molto lontano, ma continua per sempre». Ovviamente Sagan cita in una nota (pag. 219) l’Arenarius di Archimede: «Alcuni pensano, o re Gerone che il numero dei granelli di sabbia sia infinito in quantità: non intendo soltanto la sabbia che si trova nei dintorni di Siracusa e del resto della Sicilia, ma anche quella che si trova in ogni altra regione, abitata o deserta. Altri ritengono che questo numero non sia infinito, ma che non possa esistere un numero esprimibile e che superi questa quantità di sabbia. E' chiaro che coloro i quali pensano questo, se immaginassero un volume di sabbia uguale a quello della Terra, avendo riempito di sabbia tutti i mari e tutte le valli, fino alle montagne più alte, sarebbero ancor meno disposti ad ammettere che si possa esprimere un numero che superi quelli quantità. Ma io tenterò di mostrarti, attraverso dimostrazioni geometriche che tu potrai seguire, che alcuni dei numeri da noi enunciati ed esposti negli scritti inviati a Zeusippo, non soltanto superano il numero dei granelli di sabbia aventi un volume uguale a quello della Terra riempita come abbiamo detto, ma anche un volume uguale a quello dell'intero Universo» (ringrazio Federico Peiretti e il suo sito Archimede e i grandi numeri, in http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/Interventi/Articoli/Archimede%20e%20i%20grandi%20numeri/Archimede.htm.) A pag. 233 Sagan scrive: «Le reazioni nucleari descritte non generano facilmente erbio, afnio, disprosio, praseodimio o ittrio, ma piuttosto gli elementi più comuni, che vengono poi sparsi nei gas interstellari […] Tutti gli elementi della Terra, eccettuato l’idrogeno e un po’ di elio, sono stati cucinati da una specie di alchimia stellare miliardi di anni fa in stelle che oggi – almeno alcune – sono nane bianche poco cospicue dell’altro lato della Via Lattea. L’azoto del DNA, il calcio dei denti, il ferro del sangue vengono tutti dall’interno delle stelle in fase di collasso. La stoffa di cui siamo fatti viene dalle stelle». E poi, dopo che «la stella si è accesa […] alcuni degli elementi più rari sono generati nelle stesse esplosioni di supernova. Oro e uranio sono relativamente abbondanti sulla Terra solo perché molte esplosioni di supernova si sono verificate […] Vi sono forse pianeti dove si sfoggiano collane di niobio e protoattinio e l’oro è una rarità da laboratorio». Le pagine 228 e 229 riportano quattro dipinti di Adolf Schaller che illustrano in modo macabro la «fine della Terra» quando il Sole, tra qualche miliardo di anni, diventerà una gigante rossa e lascerà la sequenza principale del diagramma HR. Invece, a pag. 236 la celebre storia di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll viene adattata per illustrare l’influenza della gravità sulla luce e sulla materia. Alice, la Lepre di Marzo e il Cappellaio Matto bevono tranquilli una tazza di tè, mentre il Gatto del Cheshire osserva sornione sull’albero. Siamo in condizioni di gravità terrestre pari a 1 g, e il fascio di luce emesso da una lanterna «non viene deflesso dalla gravità terrestre. Avvicinandosi a 0 g, il movimento più lieve da parte dei nostri amici li manda a piroettare nello spazio e il tè si raccoglie in bolle che si librano in aria. Se si torna a 1 g, Alice e compagni ricadono al suolo e per un po’ piove tè. A molti g, essi sono perfino incapaci di muoversi, ma il fascio di luce emesso dalla lanterna non mostra alcuna alterazione. A 100.000 g, tutto risulta schiacciato. A un miliardo di g, la gravità curva il fascio di luce in maniera percettibile e a vari miliardi di g la luce ricade sul terreno. A questo punto la fortissima gravità ha trasformato il Paese delle Meraviglie in un buco nero. Scrive Sagan (pag. 241): «Alla fine, niente resiste a questi tremendi valori di gravità, eccetto – per una speciale dispensa – il Gatto del Cheshire […] Un buco nero è enigmatico come il Gatto del Cheshire: quando la densità e la gravità diventano abbastanza grandi, il buco nero strizza l’occhio e sparisce dal nostro universo. Ecco perché si chiama nero: la luce non può uscire da esso […] ma la sua presenza gravitazionale è palpabile». Il capitolo X si intitola Il ciglio dell’eternità: si parla di galassie, di quasar, di effetto Doppler e, ovviamente, di Edwin Hubble e del suo assistente Milton Humason (poco citato nei libri scolastici rispetto a Hubble). È curioso che nel libro non ci sia nessuna immagine di Hubble; il suo assistente Humason non solo viene citato più volte, ma una sua fotografia si trova a pag. 256, mentre in un grafico di pag. 335, che mostra una cronologia di alcuni fatti e persone, eccolo comparire tra Einstein e i veicoli spaziali Viking e Voyager! In questo capitolo Sagan parla di miti della creazione, di radiotelescopi (come i 27 installati al Very Large Array di Socorro, New Mexico), di Flatlandia di Edwin Abot, di tesseratti e di regressione infinita: «il passaggio da un universo al successivo più rande, in un Cosmo caratterizzato da una infinita regressione di universi incastonati l’uno nell’altro», come recita la didascalia della bellissima illustrazione di pag. 266 del libro. Il capitolo XI, La persistenza della memoria, parla dei canti delle balene, della “biblioteca” del DNA e del cervello, di esseri intelligenti e dei due veicoli spaziali Voyager, che «sono in rotta per le stelle. Fissato a ognuno di essi si trova un disco fonografico di rame rivestito d’oro con una testina e un braccio per microsolco e, sulla copertina di alluminio del disco, le istruzioni per l’uso. Vi mettemmo qualcosa sui nostri geni, qualcosa sui nostri cervelli e qualcosa sulle nostre biblioteche, diretto ad altri esseri che potrebbero navigare i mari dello spazio interstellare […] Quello che abbiamo voluto comunicare a quegli altri esseri è ciò che di noi stessi ci sembra unico. La nostra corteccia cerebrale e il sistema libico sono ben rappresentati; il complesso R un po’ meno. Nonostante i nostri interlocutori ignorino ogni lingua in uso qui sulla Terra, abbiamo registrato i saluti in sessanta lingue umane, e anche i “ciao” che sono solite scambiarsi le balene. Abbiamo allegato fotografie di esseri umani di ogni parte del mondo che si prendono cura l’uno dell’altro, che studiano, che fabbricano utensili. C’è un’ora e mezza di musiche squisite di provenienze diverse, che esprimono il nostro senso di solitudine cosmica, il desiderio di porre fine all’isolamento e l’ansia di entrare in contatto con altri abitanti del Cosmo. E abbiamo mandato registrazioni dei suoni che si sarebbero potuti udire sul nostro pianeta, dai giorni che precedettero l’origine della vita, fino all’evoluzione dell’uomo, fino all’epoca della nostra più avanzata tecnologia. Il disco è. quanto la vocalizzazione di una balena franca, un canto d’amore affidato alle vastità dello spazio. Molti, forse la massima parte dei nostri messaggi risulteranno indecifrabili, ma noi li abbiamo mandati perché è importante provare». «In questo spirito – continua Sagan a pag. 287 – abbiamo messo sul veicolo Voyager i pensieri e i sentimenti di un uomo, l’attività elettrica del suo cervello, del cuore, degli occhi e dei muscoli, registrata per un’ora, trascritta in suoni compressi nel tempo e registrati sul disco. In un certo senso abbiamo lanciato nel Cosmo la trascrizione diretta dei pensieri e dei sentimenti di un essere umano nel giugno dell’anno 1977 sul pianeta Terra. Forse i suoi scopritori non sapranno che farsene, o penseranno che è l’emissione di una pulsar, a cui un poco assomiglia. O forse una civiltà di gran lunga più avanzata della nostra saprà decifrare questi pensieri e questi sentimenti e apprezzerà i nostri sforzi per condividerli con essa». E infine (pag. 289): «Il messaggio del Voyager sta viaggiando con penosa lentezza […] Esso impiegherà decine di migliaia di anni per arrivare alla stella più vicina. Un programma televisivo impiega ore per coprire la distanza che il Voyager percorre in anni. Una trasmissione televisiva appena messa in onda nel giro di poche ore supererà il Voyager nella regione di Saturno e oltre, affrettandosi poi verso le stelle. Se è emesso in quella direzione, il segnale raggiungerà Alfa Centauri in poco più di quattro anni. Se, entro alcuni decenni o alcuni secoli, qualcuno sarà lì nello spazio a ricevere i nostri programmi televisivi – continua Sagan – spero che pensi bene di noi, che siamo il prodotto di quindici miliardi di anni di evoluzione cosmica, la trasformazione locale di materia in autocoscienza. La nostra intelligenza ci ha da poco tempo forniti di poteri tremendi. Non è ancor chiaro se avremo la saggezza necessaria per evitare l’autodistruzione, ma molti di noi ci provano con tutte le loro forze. Speriamo che presto – in una prospettiva temporale cosmica – avremo unificato pacificamente il nostro pianeta in una organizzazione che faccia tesoro della vita di ogni creatura presente su di esso, e saremo pronti ad affrontare il grande passo successivo: far parte di una società galattica di civiltà comunicanti tra loro». Così Carl Sagan conclude il capitolo XI di Cosmo. A pag. 288 è riprodotto il disco interstellare del Voyager, il cui rivestimento «dà in notazione scientifica istruzioni per suonare il disco e informazioni sulla posizione e l’epoca attuale della Terra». Il disco è «destinato a conservarsi per un miliardo di anni». EdMax |
Post n°78 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Cosmo di Carl Sagan – Capitoli XII-XIII Il capitolo XII (L'Enciclopedia galattica) e il capitolo XIII (Chi parla per la Terra?) chiudono il meraviglioso libro Cosmo di Carl Sagan. Dalla stele di Rosetta all'equazione di Drake, dall'impronta umana rinvenuta in Tanzania che risale a 3,6 milioni di anni fa, all'impronta umana nel Mare Tranquillitatis della Luna. Fino all'immagine fortemente emotiva della Terra che sorge dalla Luna. Grazie, Carl, per averci regalato quest'opera. EdMax |
Ricordando Carl Sagan (1934-1996) Mi piace ricordare ancora una volta, in questo blog, il compianto Carl Sagan, attraverso due interviste: nella prima, Pasqua Gandolfi (consigliere UAI) intervista Bruno Moretti Turri , nella seconda è Bruno Moretti Turri a intervistare Claudio Maccone. Argomento delle due interviste: Carl Sagan, che Moretti e Maccone hanno conosciuto personalmente.
Desidero ringraziare:Pasqua Gandolfi dell’UAI, l’Unione Astrofili Italiani (http://astrocultura.uai.it/, in particolare http://astrocultura.uai.it/personaggi/sagan.htm e http://astrocultura.uai.it/personaggi/intervista_sagan.htm);
Bruno Moretti Turri (che segnala altro materiale su Carl Sagan in http://setiitalia.altervista.org/articoli.html)
Claudio Maccone (SETI ITALIA "G. Cocconi", http://setiitalia.altervista.org/, in particolare http://setiitalia.altervista.org/Carl_Sagan0.html). EdMax |
DIECI dispute – DIECI esperimenti e interludi – DIECI domande! Hal Hellman, Le dispute della scienza – Le dieci controversie che hanno cambiato il mondo (trad. di Pietro Adamo), Cortina 1999 Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo - I dieci esperimenti più belli nella storia della scienza (trad. di Libero Sosio), Longanesi 2007. Michael Hanlon, Dieci domande alle quali la scienza non può (ancora) rispondere (trad. di Simonetta Frediani), Codice edizioni 2008 Il libro di Hal Hellman racconta dieci dispute scientifiche che hanno fatto storia. Già l’introduzione si sofferma sugli «errori scientifici», piuttosto che sulle «scoperte scientifiche». Scrive Hellman: «Anche se si racconta di un’idea scientifica errata, nessuno si rende conto che lo è. Quando poi si sviluppa un’idea corretta, questa viene presentata come una nuova scoperta, e quella precedente è semplicemente dimenticata. Anche nelle rivista scientifiche raramente vengono stampati i resoconti dei risultati negativi, nonostante il fatto che possano essere molto utili a chi lavora nel campo». Ma poi si passa ai «conflitti di priorità» e alle «battaglie più feroci», gli «esempi più drammatici», che rendono gli scienziati «gente sensibile alle emozioni umane, che sono influenzati da orgoglio, avidità, combattività, gelosia e ambizione, tanto quanto da sentimenti religiosi o patriottici; che sono soggetti alle stesse frustrazioni, cecità ed emozioni meschine di tutti noi; che sono, in realtà, sin troppo umani». In altre parole, il libro di Hellman è «una storia tanto dei vincitori quanto dei vinti». Dieci capitoli, che raccontano altrettanti dispute: 1) Urbano VIII contro Galileo: uno scontro impari. 2) Wallis contro Hobbes: la quadratura del cerchio. 3) Newton contro Leibniz: scontro di titani. 4) Voltaire contro Needham: la controversia sulla generazione. 5) Il mastino di Darwin contro Sam il viscido: le guerre di evoluzione. 6) Lord Kelvin contro i geologi e i biologi: l’età della Terra. 7) Cope contro Marsh: la faida sui fossili. 8) Wegener contro tutti: la deriva dei continenti. 9) Johanson contro i Leakey: l’anello mancante. 10) Derek Freeman contro Margaret Mead: la natura contro la cultura.
Robert P. Crease, Il prisma e il pendolo - I dieci esperimenti più belli nella storia della scienza (trad. di Libero Sosio), Longanesi 2007. I dieci esperimenti di cui parla Crease sono: 1) la misura della circonferenza terrestre di Eratostene; 2) la caduta dei gravi e la «leggenda del campanile pendente»; 3) il piano inclinato di Galileo; 4) la scomposizione della luce di Newton; 5) L'«austero» esperimento di Cavendish; 6) l'«illuminante analogia di Young»; 7) il pendolo di Foucault; 8) l'esperimento di Millikan; 9) il nucleo di Rutherford; 10) l'interferenza quantistica. Crease alterna ai dieci capitoli altrettanti «interludi» interessanti, di cui ci siamo già occupati in questo blog. Infine, Michael Hanlon, Dieci domande alle quali la scienza non può (ancora) rispondere (trad. di Simonetta Frediani), Codice edizioni 2008. Anche Hanlon si sofferma più sui fallimenti che sugli “esperimenti corretti”. Ecco le sue dieci domande: 1) Fido è uno zombie? 2) Perché il tempo è così misterioso? 3) Per piacere, posso vivere in eterno? 4) Che cosa abbiamo intenzione di fare con gli stupidi? 5) Che cos’è il lato oscuro? 6) L’universo è vivo? 7) Sono la stessa persona che ero un minuto fa? 8) Perché siamo tutti così grassi… e ha davvero importanza? 9) Possiamo davvero essere certi che il paranormale sia una sciocchezza? 10) Che cos’è effettivamente la realtà? Non fate domande! EdMax
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MATE…MUSICA !!! La musica universale (di EdMax) Questo scritto è dettato da uno spirito di ricerca volto a comprendere i significati della musica e riassume considerazioni del tutto personali, oltre a una lunga serie di citazioni. È un lavoro che esula da qualunque ambizione editoriale, per cui un’eventuale distribuzione di questo manoscritto sarà confinata entro una combriccola di amici musicanti compositori. Se invece dovesse decollare verso mete non previste, che ben venga! Non opporrò ostacoli di sorta a questa evenienza. PREFAZIONE di EdMax Lo studio della musica è fittamente ramificato in innumerevoli campi di ricerca. Dalla matematica alla fisica, dalla letteratura alla psicologia, dall’estetica alla sociologia, dalla filosofia alla religione, in ogni branca del sapere la musica prorompe e si eleva manifestando la sua magica onnipresenza e il suo profondo carattere interdisciplinare. Molti autori si sono soffermati sulle caratteristiche più intime della musica, hanno cercato di rivelare il forte impatto emotivo, consapevole o inconscio, che un’esecuzione musicale comporta. Certamente l’approccio storico e tecnico è fondamentale per una chiara e completa comprensione del fenomeno musicale, ma l’occhio del ricercatore inevitabilmente rileva l’esistenza di fattori non comprensibili su un piano tecnico-didattico. Un primo aspetto importante riguarda la difficoltà di descrivere gli aspetti emotivi più intimi che agiscono durante il processo di costruzione e di ascolto della musica, anche se diversi Autori ne hanno sondato saggiamente il terreno. In linea generale, possiamo scomporre la musica nei suoi componenti più intimi, nei suoi “atomi” o nei suoi “numeri primi” (tanto per usare una metafora chimica e matematica) impostando così un approccio riduzionistico. Ma ciò che emerge da questa impostazione è completamente diverso da quello che percepiamo allorché ascoltiamo un brano nella sua interezza: in questo caso stiamo impostando un approccio olistico. Sembra che riduzionismo e olismo costituiscano due tappe obbligate nel cammino verso la conoscenza. È possibile riconoscere ambedue gli approcci nello studio delle scienze mediche, per esempio, quando si ammette la possibilità di intervenire su di un organismo agendo sui suoi singoli apparati anatomici, ognuno dei quali costituito da un insieme di organi. Inevitabilmente, questo metodo di indagine è destinato a innescare una spirale senza fine perché un organo risulta costituito da un insieme di tessuti, un tessuto da un insieme di cellule e così via fino a ritrovare la componente riduzionistica nell’ambito della fisica delle particelle. Tuttavia, la componente olistica emerge silenziosa. Lo studio del tutto permette di ricavare preziose informazioni a livello di sistema, ovvero a livello di insieme di componenti interdipendenti che interagiscono per formare un tutt’uno. Le scienze biologiche ammettono l’esistenza di diversi livelli di organizzazione della materia biologica: cellula, tessuti, organi, apparati, organismo, popolazione e comunità; e ogni livello rappresenta tuttavia un sistema, che così diventa oggetto di studio di singole discipline (citologia, istologia, anatomia, dinamica delle popolazioni, ecc.). Gli ecologi conoscono fin troppo bene i singoli livelli di organizzazione, adeguandosi a un modo di procedere di stampo riduzionistico, ma stabiliscono nel contempo l’esistenza di sistemi. Nel momento in cui è possibile definire un sistema, emergono evidenze che risultano completamente nascoste quando si trascurano le interrelazioni tra i singoli componenti. Anche la medicina si è adeguata ormai a definire i suoi sistemi, riconoscendo nell’essere uomo l’unicità che deve essergli attribuita. Anche le forme musicali possono essere riconducibili a una concezione ora riduzionistica ora olistica: l’una che evidenzia la necessità di guardare alle singole tessere di cui il mosaico risulta costituito (la struttura del brano musicale, gli accordi, il centro tonale, ecc.), l’altra che costringe a decifrare il messaggio che il mosaico mostra una volta completato (il brano nella sua interezza), indipendentemente dalle unità singole. Nel suo saggio Dio e la nuova fisica, il fisico e cosmologo Paul Davies, citando il bellissimo Godel, Escher Bach di Douglas Hofstadter (Godel Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi 1984, pag. 336-364), affronta così la questione riduzionismo-olismo: « […] Dire che un formicaio non è che un insieme di formiche significa ignorare la realtà del comportamento collettivo: sarebbe come sostenere che i programmi di un computer non esistono, non essendo altro che impulsi elettrici […] È assurdo sostenere che un essere umano non è nulla più che un insieme di cellule, le quali non sono altro che frammenti di DNA». E ancora: «Si può percepire l’immagine raffigurata su un puzzle soltanto a un livello strutturale superiore a quello cui si collocano i singoli pezzi: l’intero è maggiore della somma della parti ». Un brano musicale è molto di più delle singole note di cui è costituito. Su uno spartito possono essere riportati tutti gli accorgimenti tecnici necessari, ma il mood del brano può emergere solo olisticamente. EdMax
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1. Il significato della musica Le composizioni musicali hanno un forte sapore olistico. Una composizione di Beethoven o di Bill Evans non è un insieme di note. Per questa ragione la musica ha sempre suscitato nell’uomo un interesse quasi sovrumano, collocandolo in una non ben determinata condizione extrasensoriale che chiamiamo ispirazione. Ma l’insegnante di musica conferisce a questa dimensione una validità terrena, che può materializzarsi attraverso la tecnica e la pratica musicale. Jerry Coker, insegnante di jazz e compositore, nel suo saggio Improvising jazz (Improvisazione jazz – Melodia, ritmo e armonia, Muzzio editore 1986, pagg. 9-12) sottolinea la possibilità di dominare i cosiddetti “strumenti di base” che consolidano e condizionano l’esito di un’improvvisazione. Questi fattori di base sono rappresentati dall’intuizione, l’emotività, l’orecchio e l’abitudine, che sono in gran parte dominio del subconscio, e dall’intelletto, che coordina il controllo sul risultato ottenuto. Nella prefazione dello stesso libro, Gunther Schuller attribuisce alla tecnica e alla pratica musicale il ruolo di intermediari tra il musicista e la creatività musicale, distruggendo il mito secondo il quale la creazione della musica sarebbe «un atto vago e nebuloso, fondamentalmente al di là del controllo del creatore», e che l’ispirazione illuminerebbe soltanto «quei compositori che, per motivi altrettanto nebulosi, possiedono doti particolari per ricevere tali ispirazioni». Jerry Coker si limita all’insegnamento della musica jazz attraverso la combinazione dei fattori controllabili gestibili dagli strumenti di base, e non stupisce il fatto che abbia annoverato, fra i suddetti fattori, la qualità emotiva, cioè lo spirito o mood. Immaginiamo l’esecuzione di un brano musicale, magari jazz, da parte di un musicista: costui, dopo aver letto la traccia del tema da svolgere (lo spartito) dovrà necessariamente introdurre il tema, descriverlo con le sue capacità tecnico-emotive e quindi concluderlo. A parità di tema da svolgere, sembra che solo l’emotività (rappresentata dalle momentanee condizioni psicofisiche in cui versa l’esecutore) differenzi il risultato conseguito rispetto a un altro solutore, e differenzi altresì l’esecuzione dello stesso brano eseguito in momenti diversi dallo stesso musicista. Grazie a questo coinvolgimento emotivo la composizione si impregna di elementi non sempre decifrabili attraverso un’analisi armonica. Anche lo stesso concetto di tonalità sfugge a una comprensione immediata poiché non si riferisce soltanto all’esistenza di un centro tonale su cui gravano gli altri suoni, ma è strettamente legato alla nostra educazione e cultura. In linea di principio, possiamo affermare che la tonalità rappresenta l’insieme dei suoni che siamo capaci di percepire, discernere, prevedere in base alla nostra educazione acustica e musicale, in base al nostro “sentito”. È per tale ragione che stili musicali non appartenenti alla nostra cultura possono essere percepiti come suoni alieni, lontani, separati fra loro da “strani intervalli”, con melodie basate su scale e su principi non tonali. Quasi tutte le emittenti radio, in qualsiasi momento del giorno, trasmettono melodie e canzoni che presentano una spiccata tendenza tonale, atta a non disturbare l’equilibrio armonico o melodico insediatosi nel nostro orecchio. Chi si imbatte nel jazz o nella musica classica, invece, riesce ad abituare l’orecchio, prima o poi, a tutte le 12 note della scala cromatica, variamente e modalmente disposte fra loro per formare strutture, moduli armonici, scale e sistemi che ondeggiano fra tonalità diverse. Il compositore moderno ha una ben evidente necessità di spingersi oltre il terreno dell’immediatezza, e anche con pochissimi suoni riuscirà a convertire comunque l’energia acustica in energia emozionale. Ondeggiare fra tonalità diverse, insistere sulla mancanza di risoluzione, impartire un mood rappresentano evidenze storiche ormai completamente insediate nel nuovo modo di comporre, e per fare ciò a volte è necessario abbandonare le regole armoniche, poiché durante l’atto del comporre si schiudono bolle di fluido creativo ed energetico che in genere risultano sconosciute su un piano tecnico-didattico.
È per tale ragione che il musicista cade spesso in una sorta di trance, lasciandosi trascinare nella sua bolla del momento e isolandosi da ciò che in quel momento accade attorno a lui. Probabilmente, in qualche settore del suo cervello è scolpita la tonalità relativa al brano musicale che sta eseguendo, ma è quasi impossibile che un’improvvisazione sia governata dalla sola applicazione delle regole armoniche. Una sorta di distacco dalla tonalità si è affermato attraverso l’impiego sempre più ampio della politonalità, della polimodalità, delle successioni di accordi per quarte, della negazione sistematica dei suoi stessi presupposti (atonalità), nonché per mezzo dei tentativi di espandere il sistema tonale. EdMax |
2. La natura incompiuta Goethe e Wagner ricercavano affannosamente le ragioni più intime del perché la musica coinvolgesse l’uomo emotivamente più di ogni cosa, e riconoscevano nell’uomo stesso il meraviglioso e nel contempo tragico compito di continuare l’opera della natura. Il fondatore dell’antroposofia, Rudolf Steiner (1861-1925), citando Goethe a proposito della natura incompiuta, attribuisce all’uomo la capacità di «accrescersi, compenetrandosi di tutte le virtù e perfezioni, suscitando in sé scelta, ordine, armonia e significato, e sollevandosi infine alla produzione dell’opera d’arte che acquista un posto risplendente accanto alle altre sue azioni e opere» (Rudolf Steiner: L’essenza della musica e l’esperienza del suono nell’uomo, Editrice Antroposofica 1987). Steiner estende le basi della sua antroposofia su un piano musicale, rivelando le fonti d’ispirazione dalle quali l’artista attinge la sua vena creativa. Esse «fluttuano e nuotano nel magico mondo dei sogni e del sonno del musicista compositore, indirizzandolo inconsciamente nella creazione artistica durante la sua coscienza di veglia […] E allora, questa quiete profonda comincia a risuonare… Il mondo della luce e dei colori diventa permeato di suoni tintinnanti» (pag. 28). Ma per Steiner esiste ancora un livello superiore, quello del devachan, nel quale vive il suono in sé, in tutta la sua essenza. Non esiste alcun suono terreno che possa rappresentare, seppur in minima parte, il risuonare devachanico. Forse il timbro evanescente degli armonici può risaltare un’immagine sonora pseudo-eterica, ma tutto l’apparato stato-acustico-musicale con cui percepiamo i suoni è progettato per una dimensione fisica e terrena. L’auspicio steineriano più fecondo riguarda il risveglio dei sensi ultraterreni, ovvero la compenetrazione col suono in sé, riportato poi dai compositori su un piano fisico dopo averlo sperimentato, consapevolmente o inconsciamente, nel mondo del sonno senza sogni: «il senso del benessere musicale consiste nel giusto accordarsi delle armonie portate giù dall’alto con quelle di quaggiù» (pag. 31). Qui sta il senso della continuazione dell’opera della natura. Anche le sensazioni suscitate dalla tonalità maggiore e da quella minore rispecchiano, secondo l’approccio antroposofico, le dimensioni eteriche dell’uomo. Esiste un corpo eterico superiore e inferiore. Quando il primo domina sul secondo, risuona la tonalità maggiore e, viceversa, la tonalità minore. I modi maggiore e minore vengono così giustificati con una motivazione tutt’altro che musicologica, e non è del tutto riconducibile a un’analisi armonica il fatto che la tonalità maggiore susciti piacere, rilassamento, riposo e risoluzione, e la terza minore evochi invece una sorta di meditazione malinconica. La percezione degli intervalli corrisponderebbe così a livelli diversi di coscienza musicale che hanno caratterizzato l’evoluzione graduale dell’uomo. Interessante l’analisi steineriana degli intervalli musicali. L’intervallo di settima era il più piccolo intervallo che l’uomo riusciva a percepire in un lontano passato, e solo in epoche successive egli cominciò ad apprezzare l’intervallo di quinta. Attraverso questi intervalli, però, la musica era dominio degli dei e del cosmo, e agli dei e al cosmo essa doveva essere sacrificata. Anche l’esperienza maggiore era percepita come il «canto cosmico di gioia che gli dei esprimevano di fronte alla loro creazione del mondo», e sempre dall’esterno proveniva la percezione dell’esperienza minore come «l’immenso lamento degli dei sulla possibilità che gli uomini potessero cadere in quello che nelle sacre scritture è descritto come peccato originale, ovvero il distacco dalle potenze divino-spirituali, dalle potenze buone» (pag. 148). Ma l’uomo era ormai pronto per interiorizzare la musica, indirizzandola non più verso l’esterno e gli dei, ma a se stesso. Ciò poteva verificarsi con la percezione dell’intervallo di terza: gli stati d’animo esaltati e gioiosi suscitati dalla terza maggiore e quelli dolorosi, infelici e depressi evocati dalla terza minore che caratterizzavano l’animo deico, ora sono sperimentati direttamente dall’uomo. Se l’esperienza della quinta è dunque un affermarsi degli dei sull’uomo e l’esperienza della terza invece rappresenta la ricerca del divino in sé, l’esperienza della quarta deve rappresentare una dimensione intermedia tra il cosmo esteriore e l’interno dell’uomo. Questo ragionamento troverebbe una sorta di conferma nel ruolo funzionale che l’intervallo di quarta assolve all’interno di una scala. La quarta è definita sottodominante, trovandosi immediatamente sotto la dominante. In questo contesto ci si aspetterebbe un passaggio verso la quinta, verso gli dei. Ma può anche essere definita controsensibile, in quanto richiama la terza maggiore, fluendo in una direzione introspettiva, umana (così come la sensibile, cioè la settima, richiama l’ottava). Ma non sarà un caso che un accordo con la quarta sia definito nel jazz “accordo sus”, dove il termine sus indica la sospensione della quarta tra i due mondi costruiti sulla quinta e sulla terza. Essa non risolve, rimane sospesa al punto da ritardarne la risoluzione, distaccandosi dalla dimensione terrena senza mai inserirsi completamente in quella divina. L’evoluzione futura dell’uomo consisterebbe così nella possibilità di «allargare la percezione all’intervallo di seconda e quindi alla percezione del suono in sé, ovvero all’intervallo di prima, finché possano verificarsi le condizioni per un allargamento funzionale del sistema tonale» (pag. 51). EdMax
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3. L’affioramento del passato Wagner e Goethe, le cui considerazioni hanno influenzato profondamente il pensiero steineriano, conoscevano perfettamente le regole dettate dall’armonia e, soprattutto, la produzione musicale precedente al loro operato musicale. L’educazione dell’orecchio consiste nell’ascolto e nell’imitazione del passato, sviluppati attraverso la cognizione del presente. In tutte le composizioni, se spogliate degli elementi armonici nuovi, è possibile riconoscere uno scheletro che appartiene a un passato fatto comunque di armonia, melodia e ritmo, e tutti i compositori trovano nelle composizioni degli altri musicisti ragione della loro originalità. Si tratta di un’eredità da trasgredire poiché la vera tradizione è «un’invenzione, e non una regressione»: così scrive Danielle Cohen-Lévinas in Da Stile e idea di Schönberg a Sistema e idea di Boulez: a proposito della negatività (rivista Aut-Aut, pag. 283-284, 1998). Si possono azzardare alcuni confronti fra personalità musicali vissute in diversi contesti storici. Per esempio, Jean de Okeghem (1430-1495), maestro di teoria e pratica musicale e sostenitore della scuola olandese durante il XV secolo, era affascinato dalle possibilità matematiche dei rapporti musicali, ed era abilissimo nel concepire enigmi musicali. Una delle sue messe (Cujusvis toni = di qualsiasi tonalità) è stata scritta appositamente senza segnatura di chiave, anticipando lo spirito ribelle di Arnold Schönberg. Mozart, invece, sarebbe stato ispirato direttamente da un allievo di Okeghem, Josquin des Prés (1445-1521), il quale «contribuì poco all’evoluzione della tecnica musicale, ma diede molto nel campo dell’espressività», secondo Herbert Weinstock in Cos’è la musica (Mondadori 1975). In uno scritto datato 24 novembre 1931, sottolinenando l’importanza di acquisire il passato, Arnold Schönberg si esprime così: «La mia originalità deriva dal fatto che ho imitato subito quello che ho visto di buono... E posso dire di aver trovato spesso cose buone per la prima volta nelle mie composizioni. Perché mi sono limitato a quello che ho visto: l’ho acquisito per possederlo, l’ho elaborato e ampliato, ed esso mi ha condotto a cose nuove… Mi attribuisco il merito di aver scritto una musica veramente nuova che, così come poggia sulla tradizione, è destinata a diventare a sua volta tradizione». Schönberg indica le figure stilistiche del passato che lo hanno influenzato: Da Bach ho imparato: 1) il pensiero contrappuntistico, cioè l’arte di ideare figurazioni capaci di fare accompagnamento a se stesse; 2) l’arte di generare tutto da un solo elemento e di inserire le figurazioni una nell’altra; 3) l’indipendenza delle suddivisioni della battuta. Da Mozart: 1) l’ineguaglianza della lunghezza delle frasi musicali; 2) la concentrazione di aspetti eterogenei in un’unità tematica; 3) la deviazione dall’uso del numero pari di battute nel tema e nei suoi elementi costitutivi; 4) l’arte di sviluppare a temi secondari; 5) l’arte di introdurre e di passare da un episodio all’altro. Da Beethoven: 1) l’arte di sviluppare i temi e i periodi musicali; 2) l’arte della variazione e della variante; 3) la varietà della struttura in brani di grande ampiezza; 4) l’arte di scrivere tranquillamente per esteso ovvero di essere spietatamente breve a seconda che lo imponga la situazione concreta; 5) lo spostamento delle figurazioni su altri tempi della battuta. Da Wagner: 1) la capacità di trasformare dei temi in rapporto all’espressione e alla loro esatta applicazione a tale scopo; 2) l’analogia tra i suoni e gli accordi; 3) la possibilità di intendere i temi e i motivi come se fossero ornamenti, in modo da poterli usare come dissonanze rispetto alle armonie. Da Brahms: 1) molto di ciò che avevo assorbito inconsciamente da Mozart, in particolare l’uso di un numero dispari di battute e l’ampliamento o la riduzione delle frasi; 2) plasticità della conformazione musicale: non risparmiare, non lesinare quando la chiarezza esige più spazio; portare a conclusione ogni figurazione musicale; 3) la sistematicità nella struttura del periodo; 4) economia di mezzi, ma insieme ricchezza. Ho imparato molto anche da Schubert, Mahler Strauss e Reger. Il vecchio rappresenta il supporto dinamico grazie al quale si opera lo scontro dei sistemi, lo scontro delle tradizioni… Queste sono le cause che provocano mutamenti nei metodi di composizione. In un senso molteplice la musica fa uso del tempo. Usa il mio tempo, il vostro tempo, il suo tempo». Così si esprime Schönberg, specificando altresì che «non esiste opera d’arte che non porti con sé un nuovo messaggio per l’umanità, e non c’è grande artista che fallisce a questo riguardo». Nel suo saggio Musica nuova, musica fuori moda, stile e idea si delinea un lungo dibattito tra l’idea che sta a monte e i mezzi dei quali il compositore può disporre per realizzare la sua idea: «Uno strumento può cadere in disuso, ma l’idea che sta dietro non potrà mai tramontare… È veramente deplorevole che molti compositori contemporanei si preoccupino tanto dello stile e così poco dell’idea». E ancora: «Non è attraverso un processo cosciente che ho sviluppato la mia tecnica e il mio stile». È come se rispondere di uno stile e di una tecnica significasse in qualche modo ignorarle e occuparsi prima di tutto e imperativamente dell’evoluzione del materiale suscitato dall’idea. La “negazione totale del sentimento” auspicata dallo spirito dodecafonico di Schönberg ha procurato diversi adepti, ma anche dissacratori del suo pensiero. Per esempio, Alfred Einstein afferma che l’avvenire della musica non è nell’imitazione, nella parodia del passato o nell’inutile ritorno a esso, non nel gruppo o nella scuola, non nel sistema, ma nelle grandi personalità creative, cioè nel fattore uomo. Il termine “imitazione” si riferisce anche a quei meccanismi di apprendimento del tutto istintivi che caratterizzano, per esempio, la crescita di un organismo in un determinato ambiente. Quasi tutte la fasi biologiche si compiono attraverso gli insegnamenti impartiti dai propri simili, ed è pur certo che le grandi personalità creative hanno utilizzato schemi preesistenti a cui affidarsi durante il periodo di formazione, assimilando il passato e successivamente rielaborarlo in una veste del tutto nuova. Anche la musica di John Cage o di Sun Ra trova ragione di esistere nella necessità di “imitare” i suoni naturali, astrali o cosmici da cui questi musicisti sono stati colpiti. EdMax |
4. Scienze matematiche, fisiche e… musicali «Visto con il freddo occhio del fisico, un evento musicale è solo una raccolta di suoni di varia altezza, durata e altre qualità misurabili. Ma la fisica non spiega il perché i suoni diventano simboli per qualcosa che va al di là del puro suono, qualcosa che induce a ridere o a piangere, che commuove o lascia indifferenti». Questo passo è tratto dal libro La mente musicale – Psicologia cognitivista della musica, di John A. Sloboda (Il Mulino 1988, p. 24). Sembrerebbe quindi che lo scienziato non si spinga oltre le leggi dettate dalla fisica acustica; anzi, che non provi quasi alcuna emozione nei confronti della musica. Sicuramente non è così: l’esperienza musicale è riproducibile nell’uomo esattamente come un rigoroso esperimento scientifico, non attraverso gli strumenti scientifici, ma per mezzo della percezione che l’uomo, scienziato o no, possiede di essa. Anche Keplero era uno scienziato, e quando giunse alle sue tre leggi sul moto dei pianeti, che avrebbero sconvolto e rivalutato le concezioni scientifico-religiose precedentemente affermatesi, descrisse le sue esperienze in un libro dal titolo Harmonice mundi (L’armonia dei mondi), di cui ci siamo occupati. Col termine “armonia” si intendeva «l’ordine e la bellezza dei moti planetari, l’esistenza di leggi matematiche atte a spiegare i movimenti planetari, che non dovevano necessariamente avvenire su orbite circolari, il suono roboante del vento solare che si spinge oltre i confini del sistema solare, e l’armonia musicale, l’armonia delle sfere», come scrive Carl Sagan in Cosmo (pag. 63): «Con questa sinfonia di voci l’uomo può suonare attraverso l’eternità del tempo in meno di un’ora e provare in piccola misura diletto di Dio, l’Artista Supremo... liberamente mi abbandono... il dado è gettato, e sto scrivendo il libro, che sarà letto ora o dai posteri, non importa. Esso può attendere un secolo il suo lettore, poiché Dio stesso ha atteso seimila anni un testimone. Nella “Sinfonia della voci” Keplero credeva che le caratteristiche di ogni pianeta corrispondessero alle note musicali: nell’armonia delle sfere le note della Terra dovevano essere fa e mi, poiché indicano la parola latina fames, che ben si presta a rappresentare il suo destino. Nella prospettiva antroposofico-musicale di Steiner, le note musicali sono state spesso considerate microsistemi capaci di esprimere qualcosa di molto più grande rispetto alla loro funzione armonica. A ogni nota è stato designato un metallo, per esempio, e il pianeta corrispondente. Così la nota sol corrisponde al piombo e a Saturno, la nota la all’oro e al Sole, la nota do al ferro e a Marte, etc. Sotto l’azione della musica delle sfere, «la sostanza terrestre cominciava a danzare; sorgevano le sostanze organiche, il protoplasma, si formavano delle masse vischiose di materia organica, paragonabili alle figure sonore di Chladni» (Ernst Florenz Friedrich Chladni, 1756-1827, fisico tedesco e pioniere della scienza acustica, studiò le vibrazioni indotte su lastre metalliche sollecitate da un archetto e cosparse di sabbia asciutta: le vibrazioni così prodotte determinano disegni caratteristici, dette figure di Chladni). Ponendo l’uomo a contatto con il cosmo intero, anche Steiner si è preoccupato di concepire una visione olistica dei fenomeni che interessano l’uomo e la natura. La coscienza che l’uomo porta oggi con sé è molto diversa da quella che aveva in un lontano passato, quando essere uomo significava essere la natura stessa; l’uomo percepiva le cose come se fossero ingredienti di un grande progetto universale. La coscienza degli animali, da un punto di vista scientifico, dovrebbe essere situata in un gradino inferiore rispetto a quello rappresentato dall’uomo nella piramide zoo-evolutiva. Ciò è suffragato anche dalla logica del pensiero umano, secondo la quale un animale proverebbe quelle sensazioni che l’uomo gli attribuisce. Un cane avrebbe bisogno così di quello che il suo padrone ritiene necessario per lui: una ciotola per il cibo e una per l’acqua, uno spazio aperto ove correre, giocare, fare pipì e marcare il territorio, la presenza costante di un essere umano o di un suo simile, ecc., e quando proviamo a chiederci cosa pensa, se ha un Dio in cui credere, qual è il senso della sua esistenza, ci rispondiamo che è un cane, che è superiore a un verme, ma che è sempre un cane, e quindi inferiore all’uomo. Tuttavia, la piramide zoologica costruita dal pensiero scientifico occidentale si riduce a un ammasso di macerie quando parliamo di coscienza; se ci interroghiamo sulla coscienza degli animali dovremo pervenire a una conclusione tutt’altro che antropocentrica, riconoscendo alla coscienza animale un livello né superiore, né inferiore, ma semplicemente diverso da quello della nostra coscienza. Possedere la coscienza di un animale significherebbe così essere consapevoli di appartenere a un Piano cosmico e universale, un progetto nel quale il cane non ha bisogno d’altro che una ciotola per il cibo e una per l’acqua, uno spazio aperto ove correre, giocare, ecc. Ma questa consapevolezza è ancora più marcata man mano ci spostiamo dall’animale fino al regno vegetale. Il movimento fisico, che nell’uomo e negli animali diventa un fattore vitale, nelle piante non ha più senso. È vero che le piante, tuttavia, sono dotate di movimenti, detti tropismi, indotti da fattori ambientali, ma il legame che l’essere vivente stabilisce con la terra ora diventa, attraverso le radici, un legame fisico, concreto. In questa condizione di immobilità, emulata dai pensatori yoga, vive la coscienza della pianta, consapevole di appartenere a un cosmo i cui confini non sono percepibili né dall’uomo, né dagli animali, inconsapevole della grandezza del suo compito di nutrire, come una madre universale, tutti gli esseri viventi sul pianeta. Le scienze naturali, con la comprensione dei meccanismi della fotosisntesi clorofilliana, hanno spiegato l’incommensurabile importanza del regno vegetale. La fotosintesi è marcata da un’universalità assoluta ammessa anche dagli scienziati che ne spiegano il meccanismo. Gli ingredienti fondamentali di questo processo sono le entità più semplici di cui il pianeta Terra può disporre: l’Acqua, l’Anidride carbonica e il Sole (ho volontariamente indicato l‘iniziale maiuscola). L‘Acqua e l‘Anidride carbonica si combinano in presenza della Luce Solare in una reazione endotermica (cioè che richiede energia, fornita dal Sole) i cui prodotti sono rappresentati da sostanza organica, nutrimento di tutti gli organismi viventi, piante comprese, e da ossigeno molecolare, utilizzato nel processo della respirazione. La respirazione, a sua volta, è il processo diametralmente opposto alla fotosintesi: gli organismi viventi utilizzano l‘ossigeno molecolare per bruciare la sostanza organica in una reazione esotermica i cui prodotti sono Acqua, Anidride carbonica ed Energia. La funzione esplicata dalle piante, potremo dire, è tale che esse non hanno più ragione di muoversi. Il loro scopo è quello di nutrire i loro figli eterotrofi, come gli animali e gli uomini. Ma c’è qualcuno che osserva implacabile, senza chiedersi i perché, i come, i quando, piacevolmente insensibile al giorno e alla notte, al caldo e al freddo, all’inanimato, all’animalità, all’anima. È l’immobilità della pietra, della roccia che costituisce il materiale di cui l’intero pianeta è costituito, il substrato su cui la vita si è insediata. Non esistono venti e tempeste capaci di destare la sua immobilità. Risponde solo alla madre Terra quando “starnutisce”, quando vomita fiumi di roccia che poi solidifica materializzandosi nell’immobilità. La coscienza del regno minerale appartiene a una concezione cosmica ancora più dilatata. I ricordi impressi nella memoria della roccia si spingono oltre i confini concepiti dagli organismi viventi. All’interno dei minerali di cui la roccia è costituita, i cristalli registrano minuziosamente gli eventi che hanno fatto la storia della Terra e del Sistema Solare. I cristalli di alcune rocce magnetiche (come la magnetite) si dispongono lungo la direzione del Nord magnetico terrestre (che nel passato ha cambiato spesso orientamento, situandosi persino intorno al Sud geografico), registrando gli eventi geomagnetici che si sono verificati nel passato su scala planetaria. D’altra parte, è possibile datare un evento geologico attraverso un processo di datazione radiometrica che sfrutta il decadimento di elementi radioattivi, di elementi cioè che si trasformano, emettendo radiazioni, in altre specie anch’esse radioattive. Il processo di decadimento continua, lentamente, fino all’enucleazione dell’ultimo elemento stabile, non più radioattivo. Così, è stato possibile datare le rocce più antiche della Terra (alcune rocce della Groenlandia): 4-4,5 miliardi di anni è l’età della Terra e degli altri pianeti del sistema solare. Il Sole, ovviamente, è più anziano di almeno mezzo miliardo di anni. La cosmogenesi vuole che l’universo abbia circa 13 miliardi di anni di età e che il Big Bang da cui esso avrebbe avuto origine sia un evento ciclico dettato da successive espansioni e contrazioni del cosmo intero. Se la formazione dell’universo fosse un evento ciclico, esso farebbe parte di una categoria di universali assoluti che non ha eguali fra quelli qui descritti. Non oso spingermi più in là di questa rappresentazione universale assoluta, poiché la mano che dipinge l’universo non è più un universale assoluto, ma è l’assoluto universale. Tuttavia, la cosa più straordinaria è rappresentata dalla capacità dell’uomo di elevarsi a tutti i livelli di coscienza, dall’animalità animale all’immobilità vegetale fino alla staticità delle rocce. Il corpo fisico dell’uomo è privo di qualunque potenzialità, la sua extracorporeità, non più fisica, può spingersi invece fino a diventare l’animale, la pianta, la roccia; e ancora oltre, identificandosi con il cosmo intero. Grazie alla sua percezione, l’uomo sente così il risuonare cosmico; anche lo stesso termine musica, con cui designiamo l’organizzazione dei suoni, perde il suo significato. Tuttavia, la musica è uno dei rari e preziosi strumenti che ci porteranno alla sua stessa negazione, attraverso quel distacco, così osannato tra le filosofie orientali, che permette la compenetrazione con tutte le cose, suoni compresi. Io, d’altro canto, posso soltanto contemplare tutto questo e, per il momento, descriverlo nero su bianco. Un certo risuonare lo percepisco tutte le volte che osservo le stelle, testimoni pazienti degli eventi cosmici. E allora, seguendo il consiglio di Carl Sagan, mi accingo a mangiare una fetta di torta di mele, consapevole di gustare una porzione di universo. Musica e scienze hanno in comune la potenzialità di scatenare nel ricevente forti passioni. La matematica, per esempio, è uno strumento costruito dall’uomo non solo per la rappresentazione della natura e dei suoi fenomeni, ma anche per il soddisfacimento dell’uomo stesso nelle vesti di perenne ricercatore. Non sorprende però il fatto che l’approccio di tipo matematico sia molto simile a quello per la musica, poiché entrambi sono frutto dell’elevato operato intellettuale dell’uomo e del suo desiderio di spingersi oltre i terreni dell’immediatezza. E se la matematica riesce a decifrare l’infinitamente piccolo e l’estremamente grande, la musica li disegna e li designa direttamente con i suoni. Il carattere divino e universale della matematica e della musica si aggiunge agli altri universali assoluti scolpiti nell’universo. Per tale ragione Euclide diceva che non esiste neanche per i re una scorciatoia per apprendere la geometria, lo strumento per decodificare il progetto di Dio, e l’esperienza musicale nell’uomo sarà anch’essa la prova dell’esistenza divina. Il minimo che possiamo fare è mostrarci degnamente umili di fronte a ciò che appare umano e divino nello stesso tempo. EdMax
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5. L’esigenza del mito e dell’universale Se «la lira suonata da Anfione richiama i pesanti massi di pietra per la costruzione dei bastioni di Tebe» (scrive il musicologo e compositore François-Bernard Mâche nel suo libro Musica, mito, natura. I delfini di Arione, Cappelli 1996), il muscoloso Ercole, «preferendo l’attività fisica all’armonia dei suoni, uccide Lino, suo maestro di musica, in seguito a un rimprovero» (pag. 23). Nella maggioranza dei miti la musica è destinata a salvare la vita dell’eroe, spesso attraverso l’intervento di animali da richiamati dalla musica stessa: «l’eroe si tuffa in mare da una scarpata per sfuggire agli inseguitori, rischiando forse un pericolo maggiore, ma l’intervento delle Nereidi, o di delfini, destati dalle note della musica, diventa provvidenziale». Nel mondo mitologico il potere dei suoni è condiviso da Apollo e Dioniso. Apollo rappresenta «la capacità di produrre dai suoni rasserenamento, equilibrio psichico e illuminazione, Dioniso invece rappresenta la capacità dei suoni di esaltare». La musica emerge «come attività che più si avvicina alle leggi di natura e che rimette in accordo la violenza selvaggia, ma innocente, dell’animale, con l’illuminazione poetica, e che permette di scansare le squallide trame della società umana e di liberarci da ogni tentativo di renderci asserviti» (pag. 20). Apollo e Mozart, Dioniso e Charlie Parker, Anfione e Jimi Hendrix: la mitizzazione, a quanto pare, è un processo inevitabile. Mâche sostiene che «la musica, più di ogni altra disciplina, è rimasta vicina alle origini mitiche». Questo desiderio di mito non ha confini di tempo e di spazio: da Bach a Pat Metheny, la storia della musica è costellata di miti. Alcuni miti compaiono in zone storicamente e geograficamente diverse fra loro. È possibile attribuire a detti miti il valore di universali mitologici? Per esempio, è universale «il tamburo che si rinviene presso i Bakundu del Camerun e contemporaneamente a Timorlaut, tra Australia e Nuova Guinea?». Oppure «l’imitazione ostinata del verso degli animali, pratica corrente in tutte le etnie del globo, non nasce forse da un mito o da un desiderio mitologico primitivo?», scrive Mâche (pag. 43). Ma questa «universalità dei modelli sonori» non può essere forse scorta anche nelle filastrocche ripetitive dei bambini, nelle scale musicali, nelle leggi armoniche di carattere generale? È vero che l’identificazione degli archetipi è un’operazione che richiede la purificazione dalle contaminazioni culturali e sociali, ma ci sono buoni motivi per ritenere che l’armonia sia più una scoperta che un’invenzione. La triade maggiore, per esempio, è insita negli armonici prima ancora che essa sia organizzata in strutture più o meno elaborate. Un sistema come la triade maggiore, esaminato come costruzione umana, apparterrebbe alla categoria degli oggetti artificiali, costruiti dall’uomo, mentre la stessa triade che emerge dagli armonici sarebbe del tutto naturale. È più o meno la stessa contraddizione rilevata da Jacques Monod in Il caso e la necessità (Mondadori 1970, pag. 6) quando immagina una sonda marziana che si trovi sulla Terra cercando di distinguere, attraverso l’applicazione di criteri di ripetizione e di regolarità, gli oggetti artificiali costruiti da una forma di vita intelligente da quelli naturali costruiti dalle forze fisiche: gli oggetti artificiali sono solitamente di forma regolare e si ripetono nello spazio e nel tempo per gli usi che il costruttore ha loro destinato, a differenza degli oggetti naturali che assumono piuttosto un assetto indefinito e irregolare. Ma quando la sonda marziana esaminerà alcuni cristalli di quarzo, commetterà un errore nel valutarli come costrutti artificiali, avendo essi una forma estremamente regolare. Anche un favo selvatico rientrerebbe nella categoria degli oggetti artificiali, benché esso rappresenti l’attività automatica di un essere naturale. «Non è una contraddizione – si domanda Monod – considerare “artificiale” il prodotto dell’attività automatica di un essere “naturale”?». Se la sonda di Monod ascoltasse il succedersi degli armonici di un suono, attraverso un sistema che “spezzasse” sufficientemente il suono nelle sue componenti fondamentali, è probabile che li considererà oggetti artificiali, destinati a ripetersi nel tempo e nello spazio per gli usi del costruttore, e impregnati della stessa regolarità che caratterizza il favo selvatico e i cristalli di quarzo. EdMax
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6. Memoria “eidetica” Si narra che quando sviluppò un tema cromatico accennatogli da Federico il Grande re di Prussia, Johann Sebastian Bach avrebbe improvvisato su di esso una fuga prima a quattro voci, poi a cinque e infine a otto voci, capacità che vanno oltre le possibilità umane, perdendosi nelle stranezze mitologiche. Sarebbe, come dice Douglas Hofstadter, «giocare simultaneamente 60 partite di scacchi a occhi chiusi». John A. Sloboda riporta il parere dello psicologo Farnsworth (1969) sulla notevole capacità che Mozart aveva dimostrato trascrivendo a memoria la partitura del Miserere di Allegri dopo averlo ascoltato in due esecuzioni in chiesa. Si può prevedere che Mozart possedesse poteri mentali insoliti, dato che la maggior parte delle persone non possiede una memoria eidetica. Oppure, più semplicemente, si può ritenere che Mozart fosse maggiormente capace, grazie all’esperienza, di memorizzare meglio del materiale complesso, identificando in esso configurazioni attraverso cui ricordare gruppi di elementi come unità singole o pezzi (i blocchi di Hofstadter). È tipicamente umano elaborare informazioni attraverso la loro organizzazione in strutture e sistemi. Un qualsiasi sistema complesso può essere compreso attraverso un modesto numero di informazioni che ne regolano il comportamento. Non possiamo ragionare in termini quantitativi, come farebbe un computer quando analizza tutte le possibilità, anche quelle relative agli elementi fissi del sistema che non influenzano la qualità. Gli esseri umani, attraverso poche operazioni funzionali, rivolgono la loro attenzione solo agli elementi di un sistema che condizionano il risultato finale. Giocatori di scacchi, compositori, scultori e pittori, scrittori e poeti, professionisti in vari campi dell’attività umana ragionano focalizzando l’attenzione a pochi elementi: quelli che influenzano la dinamica complessiva del sistema stesso. Immaginiamo un improvvisatore jazz che sta eseguendo un brano. Dopo aver introdotto la traccia del tema (la melodia), di solito inizia la sua improvvisazione ruotando attorno al tema. Poi comincia ad andar oltre il tema, esprimendosi in fraseggi che possono apparire come puro virtuosismo associato a una notevole preparazione musicale. Per l’improvvisatore si tratta probabilmente di uno schema mentale precostituito, di un’unica struttura elaborata nella quale rientrano anni di studio e di pratica. L’incameramento di queste strutture può spiegare la capacità tecnica ed esecutiva di un musicista dotato, ma spesso la “velocità di esecuzione”, essendo prima o poi alla portata di tutti, non ha nulla da spartire con le capacità geniali di un innovatore, di un ricercatore di suoni, di un compositore. La memoria eidetica di Mozart, le opere cancrizzanti di Bach e di Escher, le capacità improvvisative di Charlie Parker, Jimi Hendrix e Jaco Pastorius, la perpetua ricerca melodica in Milton Nascimento, Wes Montgomery e Pat Metheny, la ricerca della Composizione Aleatoria Generata Elettronicamente di Cage, il Bello Aperiodico Cristallo di Harmonia (B.A.C.H.) di Bach, la “natura” di Debussy, le “aumentazioni intervallari” di una singola struttura di base: questi fattori in qualche modo esulano dalla tecnica, dalla quale però vengono stimolati. Lo studio e l’apprendistato rappresentano uno strumento di indagine necessario ma non sufficiente. 7. “Strani anelli” Quando si ascolta un brano è istintiva la nostra capacità di riconoscere la tonalità di riferimento e le eventuali modulazioni. Il ritorno alla tonica comporta per l’ascoltatore una sorta di riposo dopo il movimento esercitato dalle modulazioni. Uno dei canoni dell’Offerta musicale di Bach è chiamato da Hofstadter canone eternamente ascendente, un termine che giustifica ampiamente le ricche modulazioni che Bach ha volontariamente elaborato. Dopo ben 6 modulazioni, alla fine di ciascuna delle quali il brano sembra concludersi, ci troviamo in un’altra tonalità, e solo alla fine ritorna alla tonalità originaria. Le “pseudorisoluzioni” di Bach possono essere interpretate come tappe inconsuete di uno strano anello (secondo Hofstadter) in cui il punto di origine coincide con il punto di arrivo, ma l’itinerario da percorrere è una sorta di labirinto complesso la cui via di uscita è costellata di paradossi, metalinguaggi, paesaggi escheriani, gerarchie aggrovigliate, teoremi. Lo stesso libro Godel, Escher, Bach di Duglas Hofstadter è uno “strano anello” in cui il punto d’origine viene raggiunto dopo una solenne e profonda fuga metaforica, sul cui sfondo (o sulle cui figure) si alternano Achille, la Tartaruga, il Granchio e altri personaggi, nello spirito di Lewis Carroll. Anche l’accordo diminuito può essere considerato uno strano anello: per gli intervalli di terza minore di cui risulta costituito, esso si presenta con un’ambiguità sonora che ha lasciato perplessi molti teorici e compositori riguardo al suo uso nell’armonia. Essendo sprovvisto degli intervalli che si trovano nell’armonia basata sulle relazioni di tonica e dominante, esso suona senza tonalità, e l’ascoltatore ha qualche difficoltà a prevedere l’accordo successivo; può risolvere praticamente a qualsiasi altro accordo, persino a un altro accordo diminuito. Inoltre, poiché ciascuna delle quattro note che lo compongono può fungere da sua fondamentale, questa non può essere determinata in base al suono, ma solo mediante l’analisi della disposizione delle note dell’accordo. Anche in questo caso la disposizione delle note dell’accordo e il suono risultante possono rappresentare entrambi sfondo e figure di un qualche paesaggio musicale. Un altro strano anello è l’accordo di settima di dominante, uno dei cui ruoli funzionali è quello di favorire la risoluzione alla tonica. L’accordo di settima di dominante è un accordo molto reattivo, come un atomo ionizzato che cerca affannosamente il suo compagno per formare una molecola stabile, e quindi per raggiungere la quiete, il riposo, la risoluzione. Una di queste molecole stabili si chiama progressione armonica II-V-I, dove V rappresenta l’accordo di dominante (per esempio, Re-7, Sol7, Do). È una progressione comune a quasi tutte le musiche occidentali e denota un certo carattere di universalità. Nel 1977 vennero lanciate le sonde statunitensi Voyager I e Voyager II. A entrambi i veicoli spaziali è stato fissato un disco fonografico di rame rivestito d’oro con una testina e un braccio per microsolco e, sulla copertina di alluminio del disco, le istruzioni per l’uso. Un eventuale incontro ravvicinato metterebbe in azione il disco rivelando il suo contenuto. Sul disco sono state registrate le immagini della nostra corteccia cerebrale e del sistema limbico, i saluti in sessanta lingue umane e quelli che sono solite scambiarsi le balene, fotografie di esseri umani di ogni parte del mondo, nonché registrazioni dei suoni che si sarebbero potuti udire sul nostro pianeta dai tempi che precedettero l’origine della vita fino all’evoluzione dell’uomo. Possiamo ritenere universali assoluti i messaggi registrati sul disco? Certamente no, visto che la loro universalità non si spinge, crediamo, oltre un livello terrestre. In altre parole, non sappiamo se una composizione di Bach, nel caso sia udita da qualche abitante di un’altra galassia, trovi lo stesso riscontro che ha per gli esseri umani. La nostra speranza risiede nel riconoscimento delle strutture del linguaggio che Bach ha elaborato. Tuttavia, anche la nostra stessa interpretazione è dettata da dicotomie e ambiguità. L’universalità che concederemo a Bach si scontra con quella che potremo intravedere, per esempio, nelle opere di John Cage. Risulterebbe più ostico il riconoscimento di strutture di base nelle opere di John Cage. Anzi, non avrebbe senso parlare di strutture di base per la musica di Cage, dato che la sua volontà consisteva nel lasciare che i suoni siano loro stessi piuttosto che teorie elaborate dall’uomo o espressioni di sentimenti umani. Anche Sun Ra, rivendicando una realtà diversa da quella nella quale siamo quotidianamente immersi, ha cercato di sfuggire alle regole imposte dall’armonia, tracciando canali di comunicazione con la sua “vera” realtà. Sarebbe veramente interessante scoprire se l’organizzazione dei suoni in strutture decifrabili sia permeata da universalità, o se piuttosto è la mancanza assoluta di organizzazione che conferisce al suono il carattere di universalità. Mâche fissa come universali assoluti tre categorie che caratterizzano tutte le musiche degli animali e degli uomini: 1) l’ostinato; 2) la differenziazione pertinente delle altezze; 3) l’unione del gesto e del suono nella danza. «Possedere il suono significa in primo luogo ripeterlo, poi classificarlo: due registri nel pettirosso, tre altezze nelle musiche più elementari, e siamo già di fronte a una struttura d’ordine delle altezze che può portare alla formazione di modi, di tonalità e di contrappunti». Mâche considera universali assoluti le seguenti espressioni musicali: 1) il canto responsoriale, non presente in tutte le culture, ma che supera la specie umana collocandosi fra i canidi e i primati; 2) le scale pentatoniche basate sull’ottava; 3) i tetracordi basati sull’intervallo di quarta; 4) il canto sovrapposto in cui un gruppo di voci inizia prima che l’altro abbia finito la sua frase; 5) l’accostamento del flauto e del tamburo; 6) tutta la simbologia sessuale degli strumenti musicali. La coppia dominante-tonica, invece, sebbene sia una regola armonica universale, non ha alcuna pertinenza in musiche fortemente elaborate come quelle del Bali. La ricerca degli universali assoluti implica quindi l’esistenza di una linea di demarcazione netta tra i preesistenti archetipi e la loro rappresentazione. È tuttavia impossibile delineare un preciso confine: anche lo stesso condizionamento culturale e psicologico che maturiamo a partire dai primissimi anni di vita può appartenere alla categoria degli universali assoluti. Persino il feto, durante la gravidanza, comincia probabilmente ad accumulare inconsciamente esperienze che non rientrano soltanto in un contesto archetipico, ma che risulterebbero già contaminate dalle esperienze culturali e sociali apportate dalla madre e dall’ambiente esterno. È stata ipotizzata anche la cosiddetta teoria del condizionamento, chiamata scherzosamente da Davies (1978) la teoria del tesoro, stanno suonando la nostra canzone; questa teoria ipotizza che un brano musicale acquista il suo significato emotivo in base alle circostanze in cui è stato ascoltato, e che un brano è dominato sempre da un unico tono emotivo generalizzato, acquisito in base alla situazione in cui si è verificato il condizionamento. EdMax
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“Zoomusicologia” François-Bernard Mâche, Musica, mito, natura. I delfini di Arione, Cappelli 1996 Keith Devlin, L’istinto matematico – In compagnia di aragoste, uccelli, cani e gatti, Cortina 2007 Scrive François-Bernard Mâche in Musica, mito, natura. I delfini di Arione: «Il massimo sviluppo di complessità sonora si ritrova tra gli Uccelli e i Mammiferi, sebbene segnali sonori vengano emesse da insetti, da alcune specie di ragni e pesci e dagli anfibi». Per esempio, nei ragni del genere Lycosa, per attirare l’attenzione della femmina, il maschio tambureggia coi palpi su foglie morte (Y. Leroy, L’univers sonore animal, citato da Mâche, pag. 104). E poi: «Circa 200-300 specie di uccelli, tra le 4000-5000 specie di uccelli canori, sono di interesse particolare per il musicista, a causa della varietà delle loro modulazioni». Grazie alla possibilità di «tradurre un’espressione canora animale in note distribuite su pentagramma», possiamo essere certi che l’essere umano non ha l’esclusività di altezza, intensità e durata dei suoni. Un uccello messicano, il Catherpes mexicanus, «con intervalli della quantità di 1/2 o 1/3 di tono percorre una scala di 25 gradi discendenti […]. Simultaneamente, inizia un rallentando […] seguito dal crescendo e quindi da un decrescendo per il resto della scala». Questo è solo uno degli innumerevoli esempi riportati da Mâche riguardanti le capacità canore degli uccelli. Ammettendo che il totale dei soggetti esaminati e dei minuti analizzati è sufficiente, si può ritenere che negli uccelli esistono categorie mentali corrispondenti a quelle che designiamo con introduzione, staccato, coda, e che quando possono operare delle scelte, realizzano un tale schema invece di un altro. Si potrebbe supporre una universalità di questi concetti, se omettiamo il caso di alcuni merli osservati dal zoologo Tretzel i quali «eseguivano, trasposta, un’aria appresa ascoltando il fischio modulato di un uomo quando chiamava il suo gatto». Tretzel, restringendo il perimetro di indagine a una casa vicina, aveva notato che «il merlo A si manteneva fedele al vibrato finale, il merlo B aggiungeva qualche fioritura senza le appoggiature preferite dal merlo A; i tre merli più vicini alla casa (presso cui non si azzardavano a sostare per la presenza del gatto) eseguivano tutti il ritornello da cui erano rimasti colpiti trasposto di una quinta circa verso l’acuto […]. In una zona più distante, altri merli ripetevano la stessa melodia, ma più deformata, il che fa presumere che l’avessero avuta di seconda mano». A questo punto emergono due domande: 1) le strutture ordinate (scale) e il senso dell’altezza sono un privilegio degli esseri umani? 2) Gli animali, e soprattutto gli uccelli, sovrappongono elementi culturali al loro canto istintivo? Si può azzardare l’ipotesi che «il tordo bottaccio, Turdus philomenos, che presenta una forte tendenza a raddoppiare la maggior parte dei suoi motivi, abbia appreso questa facoltà ascoltando Debussy, mentre il pettirosso, che non riprende quasi mai gli stessi motivi, seguirebbe l’idea della variazione continua di Schönberg». Tuttavia, «i migliori uccelli canori non usano che stereotipi molto rudimentali, simili a quelli del gallo o del cuculo. Il solo uso linguistico articolato che possa essere accomunato al canto degli animali è quello in cui la funzione semantica passa in secondo ordine, o scompare del tutto, come nei mantra, nel lettrismo, nelle filastrocche da conta, ecc.». Altre informazioni sulle capacità musicali degli animali provengono, per esempio, da Keith Devlin che, nel suo libro L’istinto matematico. In compagnia di aragoste, uccelli cani e gatti, racconta le vicende di «Elvis, il Welsh Corgi (cane di piccola taglia) che conosce il calcolo infinitesimale», come recita il titolo del capitolo 2. E i gatti? I gatti, scrive Devlin, «si esibiscono in una prodezza natural-matematica […] quando cadono accidentalmente da un muro o da un albero […] riescono a orientarsi in modo da atterrare sulle quattro zampe […] alterando la geometria del corpo in maniera tale che la gravità li riporti nella posizione di partenza». Se gli uccelli migratori «devono costantemente ricalibrare le loro bussole magnetiche con le stelle», i salmoni «si orientano soprattutto usando la posizione del Sole durante il giorno e quella delle stelle durante la notte», e se il cielo è nuvoloso «ricorrono al campo magnetico terrestre». «Uccelli, salmoni, balene, tartarughe marine, farfalle monarca, aragoste e persino scarabei: la natura ha dotato questi e altri esseri viventi migratori della capacità di “leggere” il campo magnetico terrestre e occhi capaci di rilevare luce polarizzata o ultravioletta», per stabilire la direzione verso cui volare, camminare, strisciare o nuotare in ogni istante del viaggio», scrive Devlin. Formiche del deserto del Sahara e pipistrelli, gufi e api, castori e ragni: questi, secondo Devlin, sono gli «architetti della natura» (capitolo 5), mentre il titolo di «artisti naturali» (capitolo 6) deve essere attribuito ai leopardi e ai falchi pellegrini, ai semi del girasole e alle foglie di una pianta. Le capacità di ratti, cavalli, uccelli e scimpanzé sono raccontate nel capitolo 9, «Animali a lezione di matematica». EdMax
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Post n°89 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Tra qualche miliardo di anni... (di EdMax)
1 Il nulla. Forse questo è il nulla, non sento nulla, non vedo nulla. Non dico nulla perché sono i miei pensieri che parlano. Freddo, un gelo perenne, la pelle costantemente rizzata e brividi che corrono intermittenti come scosse sismiche di assestamento. Eppure sento che qualcosa sta per accadere. A un tratto un boato. Un tremendo scoppio sta squarciando il nulla e mille luci e colori stanno abbagliando la mia abitudine al buio completo. Altre esplosioni, e altre ancora, spazzato via. Non riesco a resistere al frastuono, lancio un grido, urlo con tutta la forza del mio corpo, mi dimeno, ho le convulsioni, caldo, terribilmente caldo, sto per cedere…
Il frastuono si allontana e cerco di aprire appena le palpebre. L’intensità delle luci e dei colori sta diminuendo, fa terribilmente caldo, ma se mi sposto in questa posizione soffro un freddo terribile. Quanto tempo sarà passato? E ora, dove mi trovo? Il nulla ora è visibile, fa molto caldo, il boato si fa sentire, anche se si allontana sempre di più. Dove prima non c’era nulla, anzi dove prima c’era il nulla, adesso vedo luci dappertutto, e oggetti piccoli e grandi sfrecciano in tutte le direzioni collidendo ed esplodendo a contatto con altri oggetti. Nuvole gigantesche di gas si formano e si dissolvono, polvere dappertutto, ancora luci e colori intermittenti, flash. Ho paura.
Puntini luminosi mi appaiono davanti, si fanno sempre più vicini finché riesco a inquadrarli: palle roventi gigantesche che si muovono pulsando, tossiscono instabili come se stessero cercando una sistemazione adeguata. Poveri mostri! Moti vorticosi e spiraliformi costringono mille oggetti a ruotare ininterrottamente in mezzo a gas e polveri offuscanti, scariche elettriche e fulmini si sviluppano inesorabili, un ammasso misterioso di oggetti vari prende forma vorticando velocemente su se stesso, una spirale si svolge per assumere un aspetto ora ovoidale, ora sferico, ora irregolarmente spigoloso, s’intravede una sottile linea di demarcazione che delimita un altro povero mostro, una gigantesca padella in cui il contenuto bolle e bolle e bolle, con bolle che fuoriescono e bolle che vi entrano, trascinando tutto ciò che si trova lì, per caso o per necessità.
E osservo, curiosità e paura, meraviglia e sgomento, effimeri istanti di gioia alternati a solidi stati paranoici, osservo l’avvicendarsi delle forme, delle dimensioni, delle luci e dei colori. La turbolenza è gialla, arancione, rossa, è il fuoco che predomina, che modella gli oggetti, i gas, le polveri. Ma in alcune zone il fuoco si spegne, lasciando oasi bluastre. Qui fa caldo e qui fa freddo, qui è tutto e nulla, qui deve essere il caos primordiale.
Sono una particella insignificante, non ho la benché minima identità, mi sento molto reattivo, insofferente e smanioso, ho bisogno di protezione. Forze contrastanti si contendono la mia esistenza.
2 Ancora nuvole di gas, ancora polvere e pietre e massi, fino agli stati di aggregazione più estremi. Un tentacolo di una nube di gas si avvicina, l’afferro senza un preciso motivo e mi addenso in violenti moti vorticosi. Un’altra dura prova mi attende, i gas di cui ormai sono permeato spingono verso l’esterno, ma un gancio gravitazionale mi tira verso l’interno costringendomi a un certo equilibrio instabile. Correnti ascensionali di gas mi scaraventano fuori del mio abitacolo. Quando l’effetto di queste correnti svanisce, ricado giù ritrovandomi in oceani di protoni, lasciando alle spalle le nuvole elettroniche amiche. Che caldo! Fa sempre più caldo, e sono schiacciato da un peso insormontabile. Una forza mi schiaccia tra altre particelle, un’altra forza cerca di liberarmi da questa costrizione. Sono privo dei miei elettroni, miliardi e miliardi di particelle repulsive sono costretti a convivere con me e subisco violente collisioni. Mi mancano le forze, sto per svenire, anzi mi sto fondendo, sto perdendo la mia piccola e miracolosa identità. 3 Un altro protone si avvicina, provo una forte repulsione per lui, ma sono così impacchettato che non riesco ad allontanarmi. Comincio a urlare, non voglio vivere repulsivamente. Due neutroni. I neutroni sono amici. Mi vengono incontro, cala la tensione, sono più sereno. Hanno sacrificato la loro individualità per condensarsi con me e con un altro protone la cui repulsione mi fa meno paura, anzi mi fondo con esso e mi identifico in un nucleo che tra qualche miliardo di anni chiameranno elio, è un buon nome, tutto sommato. Tra una quindicina di miliardi di anni vedrò uno strano abitante di un pianeta lontano che mi utilizzerà per gonfiare alcuni palloncini. Ma che strano! I protoni diminuiscono, e tanti nuclei di elio si addensano accumulando energia. Intanto faccio la conoscenza gradita di positroni e neutrini. Ho ancora molto caldo, malgrado sia più stabile di prima continuo a nutrire una forte tensione. Sono preoccupato, ho bisogno di elettroni, devo neutralizzare la mia reattività. Uno sciame di elettroni mi viene incontro. Alcuni miliardi di anni più tardi mi imbatterò in strani elettroni luccicanti nel buio che gli abitanti di un mondo lontano chiameranno lucciole. Lo sciame si avvicina, è come se fossimo attratti reciprocamente, ora lo vedo nitidamente, un suo braccio mi accarezza dolcemente, mi coccola e mi incoraggia, ora lo sento dappertutto, fa parte di me, sono un atomo neutro ancora non ben identificato e provo un leggero sollievo man mano che si espande il mio spazio. La felicità non esiste. Il caldo è insopportabile. Sono costretto a una migrazione forzata verso un centro inquietante. Tutto il mio corpo ora è sottoposto a forti contrazioni, sono ancora schiacciato da un peso enorme, tra qualche miliardo di anni diverse creature mi chiameranno stella, è un buon nome, tutto sommato, e mi contempleranno, non capisco la ragione ma a quanto pare è una necessità. Ora sono concentrato nel nucleo della mia stella, la contrazione è ormai completa. La superficie invece si espande, e io devo giocarmi tutte le forze per trattenere quel peso. Mi sento pesante, densissimo e caldissimo. Le creature che mi studieranno mi chiameranno gigante rossa, è un buon nome. La mia luminosità è abbagliante. La felicità non esiste. Sto subendo una nuova fusione, è una sofferenza terribile, subisco ancora violente collisioni, questa volta con altri nuclei di elio. I neutroni. I neutroni sono amici. Quattro neutroni partecipano alla mia fusione con altri tre protoni. Ma l’instabilità aumenta, non so più cosa sono diventato, soffro la solitudine, tra qualche miliardo di anni mi etichetteranno come una forma altamente instabile ed effimera di berillo, altri mi chiameranno litio o boro, forse non ha importanza perché sto per morire, il colpo finale, l’ultima visione che mi appare è un semplice nucleo di elio. Un’altra collisione. 4 Apro gli occhi. Mi sento stranamente bene, ho qualche ammaccatura ma ho ripreso le forze. Ho un’identità potente, mi trovo a mio agio, sono versatile e tollerante, stringo calde amicizie con quasi tutte le sostanze che incontro, condivido i miei elettroni con altri nuclei, osservo le combinazioni che ne possono scaturire, le creature sono fatte di me, e mi studieranno, istituiranno una chimica tutta per me, la chimica del carbonio. Conosco il mio destino, ormai. Mi è sufficiente un altro semplice nucleo di elio, ecco, quello mi è simpatico, si prepara a una lunga rincorsa per collidere con i miei protoni e… zac, centrato: piacere, sono il signor ossigeno. Sono pesante e piazzato e, quando mi combinerò con un altro ossigeno con il mio respiro ossiderò molte sostanze, le brucerò, romperò i legami, trasformerò il complesso in semplice e tra qualche miliardo di anni chiederò ad alcune creature, che si faranno chiamare piante, di permettermi di librarmi attraverso di esse per colonizzare le atmosfere. Verrà il giorno in cui dovranno farmi una statua, si, sono molto orgoglioso, e se mi fanno arrabbiare aumenterò la mia potenza fino a distruggere persino ciò che vive attraverso la mia opera.
5 Sono ancora una gigante rossa. Ma sono ormai vecchia, ho rimosso i miei strati più esterni e mi sono chiusa in solitudine. Mi chiameranno nebulosa planetaria, che è un buon nome, tutto sommato. Il nucleo che conservo ancora è tutto quello che mi è rimasto, ma non posso evitare che una parte del carbonio che covo instancabilmente sfugga alla mia attenzione. Sono giovani, hanno bisogno di qualche svago, non posso tenerli sempre chiusi. Và figliolo, e che la grafite sia con te! Il combustibile sta per finire. Venite, fatevi abbracciare, nuclei di carbonio e ossigeno, cristallizzatevi nel mio ventre, fate in modo che mi chiamino nana bianca e ponete un epitaffio a vostra madre. Potete scrivere che si è spenta dolcemente e in maniera rassegnata, oppure chiamatemi supernova, e vi risponderò con la necessità di esplodere, preparando il terreno per successive evoluzioni. Qualche volta non esplodo. Concentro tutte le mie forze sul mio nucleo affinché sopporti il peso della mia superficie. Ora sono un nucleo di carbonio non molto stabile, sta per accadermi qualcosa, e lo stesso avviene quando divento un nucleo di ossigeno. Fa caldo, sembra il caldo dei primi tempi, quando ero un minuscolo protone ambizioso e coraggioso. Devo sbrigarmi, se voglio continuare l’opera di mia madre. Mia madre mi diceva che un giorno alcune creature avrebbero sistemato tutti noi su una tavola, e che da quel momento ci saremmo ritrovati di nuovo tutti assieme.
E allora forza, concentriamoci per una nuova fusione. Ci ricorderanno come i creatori del silicio e del magnesio, del neon e dello zolfo, e quando diventerò silicio i miei ventotto protoni incontreranno un altro nucleo di silicio: allora danzeremo insieme, saremo forti come il ferro. EdMax |
Post n°90 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
6 Conosco le mie forze. Conosco la contrazione, il caldo e il freddo, la collisione e la fusione, l’attrazione gravitazionale e il calore di contrazione, il decadimento radioattivo, la convezione, so come mantenere la pressione dei miei gas, infondo sicurezza al mio nucleo, interiorizzo l’esperienza dell’instabilità, della paura, della speranza, dell’aggregazione, dell’identità. Ma poi mi imbatto in una sostanza che molte creature chiameranno ferro e allora mi rendo conto di trovarmi all’interno di una stella estremamente grande, e che grazie alla sua grandezza può covare in essa il ferro. Giungo così alla fine, non ho altra scelta, ormai. I sintomi del collasso sono sempre più presenti, diventerò una supernova, esploderò ed espellerò il materiale esterno incombusto. Creerò così un’onda d’urto che scatenerà quelle reazioni che non possono più avvenire nel mio interno, come il bombardamento dei nuclei di ferro con neutroni. Chiameranno oro il risultato di questo processo, i neutroni sono amici, conosceranno il piombo e l’uranio, ammireranno le lente trasformazioni radioattive, mi troveranno qui, là, lassù, quaggiù. Ora mi sento come un gigantesco nucleo atomico. L’ultimo sforzo. Inquinerò e illuminerò lo spazio con i miei residui, imploderò violentemente. Chissà quanti miliardi di anni ancora dovranno trascorrere affinché mi battezzino come stella di neutroni, è un buon nome, tutto sommato. Con il mio campo magnetico riesco a intrappolare gli elettroni, di cui oramai non ne ho più bisogno. Quando ne sentivo la mancanza non riuscivo a catturarli, così è la vita. Per molte creature sarò una pulsar e potranno confidare su di me quando vorranno sapere che ora è. E poi, quando diventerò un buco nero, sarò contemplato da creature che si faranno chiamare artisti, poeti, musicisti. Sarò così denso, piccolo e nero che non potranno vedermi, ma potranno sentirmi, e ingloberò il mio percorso, le mie stelle, la mia luce. Sette, otto, dieci, forse dodici miliardi di anni sono trascorsi da quando udii quel boato. Mi sono spezzettato in miliardi e miliardi di oggetti, mondi, stelle, mi sono organizzato in galassie e ammassi di galassie, ora sottoforma di protoni e neutroni, ora sottoforma di carbonio e ossigeno, qualche volta di litio e di boro. Ho subito implosioni ed esplosioni, ho conosciuto il signor ferro e le sue esigenze energetiche, ho scaraventato piombo, oro e uranio nello spazio, sono stanco, ho bisogno di fermarmi. Raccolgo i ricordi del passato e contemplo ciò che è stato e ciò che è. Mi sono identificato con tutti gli stati di aggregazione della materia, sono stato tutto ciò che tra qualche miliardo di anni verrà scritto, il mio scopo ora è quello di trovare un senso a tutto questo.
7 Mi muovo con maestosità e lentezza, sono ignara e consapevole dei mondi che covo, ruoto i miei bracci a spirale in un periodo di tempo che sarà calcolato in duecentocinquanta milioni di anni, tra quattro miliardi e mezzo di anni vedrò minuscole creature col naso all’insù e con gli occhi lucidi che mi chiameranno Via Lattea e mi spediranno i loro pensieri, i loro sogni, le loro speranze, mi chiederanno del loro destino, chi sono, dove sono e cosa faranno, inventeranno la filosofia e la musica, l’arte e la scienza, la religione e la storia, perché così, a quanto dicono, si avvicineranno a me. Ogni tanto mi commuoverò e piangerò, non capisco perché le mie lacrime ghiacciate saranno chiamate comete. Tutto sommato, è un buon nome. Ho circa quattrocento miliardi di stelle d’ogni tipo e dimensione, alcune solitarie, molte con una o più compagne, altre le ho organizzate in ammassi globulari, se volete posso mostrarvi le mie supernove e i miei buchi neri. Ho conferito il colore blu alle stelle giovani e calde, ho tinto di giallo le stelle più comuni e di media età, ho spruzzato di rosso le mie stelle anziane e moribonde e riesco a riconoscere dal colore bianco e nero le piccole stelle il cui destino è ormai segnato. Ho sistemato qua e là corpi planetari in modo che possano comunicare con qualche stella introversa, tra pochi miliardi di anni alcune creature cominceranno a dare un senso a tutto questo, impartiranno i nomi delle loro divinità a pianeti, stelle, nebulose, tra pochi miliardi di anni sentirò un formicolio verso la mia periferia, lungo un remoto braccio a spirale. Modellerò e plasmerò la polvere cosmica, l’aggregherò in particelle, ghiaia, sferoidi e planetesimi, provocherò collisioni fra corpi planetari, accrescerò i corpi, li distribuirò attorno a una nana media che chiameranno Sole, e tra pochissimi miliardi di anni conieranno il termine Sistema Solare. Saranno sassi erranti che girano attorno a una stella e dalla quale vengono illuminati. Verranno chiamati pianeti. Nel corso dell’aggregazione ho attraversato lo stato di pianeta, ma ne ho un ricordo molto vago. Fa freddo in quei luoghi, o fa caldo, è lo stesso, ma non ha molta importanza, quando sei pianeta diventi apatico, non provi alcuna sensazione se non quella di caldo o freddo, e attendi, attendi, attendi che la tua stella ti dia qualche importanza. Rottami come me ce ne sono a miliardi, siamo costretti a pagare il fio della nostra apatia ruotando eternamente attorno a un centro, prigionieri di un tiranno che si fa chiamare stella, le stelle non sono sempre amiche, nessun tentativo di evasione, legati con indistruttibili catene gravitazionali. Ma non sarà sempre così! 8 Tento un’evasione. Concentro tutte le mie energie e pian piano mi allontano, per quanto mi è possibile, dal tiranno. Benché sia costretto a roteare velocemente, sono ancora pesante, devo liberarmi di questo materiale denso che io stesso ho fabbricato da quando ho intrapreso la via del carbonio, dell’ossigeno e degli elementi pesanti, chiamo a raccolta materiali di aggregazione leggeri, sono ancora troppo distanti. Con uno sforzo sovraplanetario mi avvicino a essi, confidandogli il mio desiderio di evadere, i nuclei di idrogeno e di elio mi ascoltano rattristati e mi circondano con il loro affetto. Ora mi sento più leggero, ma ho una massa gigantesca, riesco a predominare sugli altri rottami vicini, ho una grande macchia rossa che verrà utilizzata tra pochissimi miliardi di anni quando alcune creature calcoleranno il mio periodo di rotazione. Ho costruito una barriera rocciosa con i miei resti silicatici e ferrosi, devo proteggermi dal mio vicino bellicoso che, pensate un po’, si farà chiamare dio della guerra, un altro vicino è così vanitoso che non può fare a meno di esibire il suo sciocco anello, ma io tuonerò, e lancerò i miei dardi meteoritici contro i nemici. Qualche volta sbaglio la mira e becco qualcun altro. Ma ora devo affrontare il più pericoloso dei nemici, la mia massa. E allora mi contraggo e mi contraggo, il mio nucleo sta surriscaldandosi, la temperatura aumenta, sono al limite delle forze, un’ultima contrazione… Pianeta ero e pianeta rimango. Ho fallito, e ora verso lacrime di calore. Il calore fossile accumulato durante il periodo delle mie contrazioni sprigionerà fino a eguagliare quello del tiranno. Magra consolazione! Finirò i miei giorni incatenato. Peccato, avrebbero potuto definirci un sistema binario di stelle. Ma il Sole non è un tiranno, mi ha comunque nominato capostipite del sistema che prende il mio nome, sono il più grande pianeta del sistema solare e con il mio campo gravitazionale aiuterò alcune creature a esplorare il cosmo.
9 Oddio, cosa mi succede? Mi gira la testa, non rispondo dei miei movimenti, mi sembra di avere ai piedi strane calzature alate, sono costretto a ruotare velocemente, non riesco a fermarmi e ho caldo, terribilmente caldo, sono denso e butterato, piccolo e malandato, sono stato completamente spogliato degli elementi leggeri e mi rassegno a un girotondo forzato, mi gira la testa, Ermete o Mercurio, fa lo stesso, un messaggio per gli dei. Lei, forse solo lei può capirmi, intensamente bella, bella al mattino e alla sera, sensuale e calda, terribilmente calda, provare per credere, così vicina, così lontana. Sono stato bersagliato, forse dai dardi di Giove, mi sono accresciuto, ho sistemato nucleo e mantello e mi appresto a solidificare la superficie affinché possano un giorno darle il nome di crosta. Ma Giove è furioso, se solo vedesse il sangue che sgorga dalle mie ferite forse placherebbe la sua ira. Tra non molto li chiameranno meteoriti o pianetini, è un buon nome, ma fanno male lo stesso. E dopo ogni colpo, accumulo tanto di quel calore che riesco a fondere la roccia di cui sono costituito. Trasporto così i materiali pesanti fino al nucleo, quelli leggeri li faccio emergere lentamente, avrò una densità media di cinque virgola cinque grammi su centimetro cubo, e mi rivolgerò al carbonio perché costituisca la materia organica. Dalle mie ferite il gas forma spesse coltri di nubi, fulmini, tempeste, condensazione dei gas presenti nel mio interno in un involucro che chiameranno atmosfera, e pioggia, pioggia e pioggia, metano, ammoniaca e anidride carbonica, condensazione del vapore acqueo, e acqua, acqua e acqua. Acca Due O la chiameranno, strane creature quelle. Sono acqua, mi organizzerò in oceani, mari, fiumi, laghi, pozzanghere e gocce, ho trasformato metano e ammoniaca. Oh, quanti aminoacidi, posso giocare con loro, ne basteranno una ventina, ne farò proteine ed enzimi, li legherò in catene polipeptidiche e le immergerò in una piccola padella che tra poco chiameranno cellula, è un gioco difficile, non mi riesce bene. Queste padelle sono capricciose e instabili, non vogliono formarsi. Singole entità vengono a contatto, si accarezzano, condividono le loro esperienze, e quando raggiungono l’intesa si legano, si amalgamano, si condensano in lunghe catene, alcune si spiralizzano a due a due, altre a tre a tre, si ribosomano e si mitocondrano, si nucleizzano e si vacuolizzano e infine si membranizzano.
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Ancora meteoriti, le mie ferite si rimargineranno molto lentamente, le chiameranno vulcani, è un buon nome, tutto sommato, e quando quello li finirà di lanciare sassi solidificherò la mia superficie, ne farò blocchi continentali e li manderò alla deriva. Si incontreranno, collideranno, e allora ergerò catene montuose, altrove creerò spaccature e depressioni, inghiottirò la crosta per poi rigenerarla in catene montuose sottomarine che chiameranno dorsali, è un buon nome, distribuirò silicio e alluminio in superficie, ferro e nichel in profondità, differenzierò un nucleo esterno e interno, scomporrò il mantello in sfere, modellerò la crosta e creerò la terraferma. Con la luce del Sole prenderò l’acqua dei miei oceani e l’anidride carbonica dei miei vulcani, e li combinerò, li impasterò, li verserò in quelle strane padelle, utilizzerò un amalgamante verde che alcune creature chiameranno clorofilla e ne farò sostanza organica. Ho esaudito il desiderio dell’ossigeno, che voleva colonizzare le atmosfere, ho trattenuto quel poco di idrogeno rimasto e li ho consegnati al carbonio perché ne facesse sostanza organica. Tra non molto scopriranno un segreto che chiameranno DNA, inventeranno il nome RNA per il suo assistente, faranno copie di se stessi ma ne faranno così tante da subire il dramma della sovrappopolazione, con le particelle più intime della materia si cureranno ma costruiranno oggetti con cui giocare, vince chi uccide di più, si stermineranno a vicenda. Ma inventeranno un’energia che sarà chiamata amore, è un buon nome, e molti continueranno a volgere lo sguardo in su, continueranno a fare domande e a ricercare la mano che ha scolpito questi quindici miliardi di anni. EdMax |
Post n°91 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Il linguaggio delle scienze – di EdMax Linguaggi, simboli, modelli Prefissi e suffissi Il linguaggio delle scienze è estremamente ricco e variegato. Moltissimi termini scientifici derivano principalmente dal greco e dal latino. L’interpretazione dei prefissi o dei suffissi presenti in un termine può essere utile per comprendere il suo significato, ma nella maggior parte dei casi la sola analisi etimologica non è sufficiente. Il problema, infatti, è riuscire a trasporre adeguatamente il significato etimologico di un termine nello specifico significato concettuale. Sin dalle scuole elementari sappiamo che il suffisso –ite può indicare un’infiammazione di un organo, come faringite, laringite, tonsillite, appendicite, bronchite. È anche noto che i prefissi emo, emia, emato (dal greco hâima) indicano tutto ciò che è sangue: i globuli rossi o eritrociti prendono anche il nome di emazie; la formazione delle cellule del sangue è denominata emopoiesi; il colore rosso del sangue è dovuto alla presenza nei globuli rossi della proteina emoglobina; l’alfa privativo ci porta al termine anemia. E poi emorragia, emostasi, emorroidi, ematologia, glicemia, emocromo, ematocrito,… Perciò, se associamo il prefisso emo al suffisso ite otteniamo l’ematite: è forse un’infiammazione del sangue? No! Il problema è che anche i nomi con cui si designano molti minerali e rocce contengono il suffisso ite. Il termine ematite ricorda il sangue solo perché è un minerale contenente ferro. In effetti, i globuli rossi del sangue riescono a distribuire l’ossigeno a tutti i tessuti grazie al legame che avviene tra l’ossigeno stesso e il ferro contenuto nell’emoglobina. I termini astenia e astenosfera derivano entrambi dalla stessa radice greca. Il primo è un termine adottato dalle scienze mediche che si può tradurre come “mancanza di forze”; il secondo si riferisce a una zona dell’interno della Terra in cui la velocità delle onde sismiche subisce un rallentamento, una sorta di “mancanza di forze” delle onde sismiche. I cromosomi della cellula hanno in comune con la cromosfera del Sole il prefisso cromo (dal greco colore). La cromosfera è uno degli “involucri” della nostra stella. Il termine cromosoma (dal greco corpo colorato), introdotto per designare un componente del nucleo della cellula che si colora facilmente, non rende giustizia alla sua importante funzione genetica che è stata scoperta successivamente. Con un semplice microscopio ottico a basso ingrandimento è possibile osservare le “bocche” delle foglie, aperture che le foglie utilizzano per la traspirazione e che i botanici chiamano stomi. Non è un caso che l’infiammazione della bocca sia detta comunemente stomatite, mentre gastrite designa invece un’infiammazione dello stomaco (dal greco gastron). Il suffisso –olo viene generalmente usato per designare i composti organici denominati alcoli (come metanolo, etanolo, ecc.); ma il colesterolo non è un alcol: è un lipide steroideo. Il suffisso olo deriva dal fatto nella molecola di colesterolo un’estremità è costituita dal gruppo ossidrile –OH, il gruppo funzionale degli alcoli. Il suffisso –ina può indicare un amminoacido, come albumina, glicina, alanina, salvo poi scoprire che gli amminoacidi acido ascorbico, triptofano, glutammato non seguono questa prassi, e che la chitina è un polisaccaride animale componente degli artigli dei mammiferi e dell’esoscheletro degli artropodi. I termini pangea e pantalassa sono accomunati dal medesimo prefisso greco pan (dal greco tutto), mentre gea e talassa ricordano rispettivamente continenti e oceani. Ma il termine talassemia non ha nulla a che fare con la geologia. Questi esempi ci portano a concludere che la riduzione del significato di un termine a una mera analisi etimologica può essere fortemente fuorviante. Nel mondo delle scienze della vita, come vedremo, il linguaggio specifico assume aspetti ancora più complessi e curiosi. Lettere greche Lettere dell’alfabeto greco vengono usate per denominare angoli, piani geometrici, numeri irrazionali, lunghezze d’onda e frequenza delle onde elettromagnetiche, strutture proteiche, atomi di carbonio, legami chimici, densità di sostanze, particelle ionizzate, agenti del sistema immunitario…
Gli angoli interni di un triangolo possono essere denominati alfa, beta e gamma. La luce si propaga per mezzo di onde elettromagnetiche che si differenziano sia per lunghezza d’onda, che viene spesso indicata con lambda, sia per frequenza, dal simbolo ni; inoltre, componenti dello spettro elettromagnetico sono le radiazioni gamma e le microonde. I nuclei positivi di elio sono chiamati particelle alfa. Le proteine a struttura secondaria possono assumere conformazioni ad alfa-elica o a foglietto-beta. Il carbonio-alfa di un amminoacido è l’atomo di carbonio adiacente al carbonio carbossilico dello stesso composto. E poi, gamma per certe globuline del sangue; omega-tre per certi lipidi; rho per la densità delle sostanze; delta per i dipoli; pi greco per il numero irrazionale che si approssima a 3,14; sigma e ancora pi greco per certi legami chimici… Perfino lo stesso significato del termine alfabeto ricorda le prime due lettere dell’alfabeto greco: a e b! EdMax |
Post n°92 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
I modelli nelle scienze Se potessimo osservare a grandezza d’uomo oggetti come una molecola d’acqua, un filamento di dna o una galassia, come sarebbero fatti? Quando studiamo un qualsiasi fenomeno naturale, in realtà stiamo analizzando un suo modello, cioè una sua rappresentazione ideale. Lo studio delle scienze è in effetti lo studio di modelli: si parla di modelli atomici, modello corpuscolare e ondulatorio della luce, modello geocentrico ed eliocentrico, modello del big bang, modelli matematici. Modellizzare significa cercare di spiegare, in un quadro globale plausibile e comprensibile, un certo fenomeno. Nella costruzione dei modelli intervengono opere di composizione e di scomposizione di conoscenze. «La scienza smonta ma poi anche rimonta», scrive Claudio Longo (Didattica della biologia, La Nuova Italia 1998), ed è proprio questo continuo “montaggio e smontaggio” dei concetti che favorisce il perfezionamento dei modelli scientifici. Un modello schematizza un fenomeno ma non è un semplice riassunto. Un modello può trattare singoli aspetti ma fornisce nel contempo una visione globale. Un modello concentra eventi, personaggi e scoperte realizzate nel corso di decenni o secoli, ma costituisce nel contempo un importante elemento di sintesi. Ma un modello non è infallibile. Esso può essere soggetto a rivisitazioni, correzioni, ampliamenti. Può essere perfino sostituito da un altro modello adeguato alle nuove conoscenze acquisite. Il modello geocentrico tolemaico, formalizzato nel ii secolo d.C., dominò per 1300 anni il pensiero degli uomini, e solo a partire dal xvi secolo ha perso terreno nei confronti del modello eliocentrico di Copernico, successivamente confermato e rafforzato dalle scoperte di Keplero, Galileo e Newton. La visione atomistica di Democrito di Abdera (460-370 a.C.) è stata dapprima corretta dalla teoria atomica di Dalton nel xviii secolo, a sua volta ulteriormente rivalutata dai modelli che dalla fine del xix secolo hanno spiegato la struttura dell’atomo. In biologia si parla di modelli biochimici e biomolecolari, modelli di ereditarietà mendeliana e postmendeliana, modello a mosaico fluido della membrana cellulare. E poi, nel mondo delle Scienze della Terra, si studiano i modelli convettivi del Sole, dell’atmosfera e dell’interno della Terra; i modelli dell’evoluzione stellare, dei moti planetari e del sistema Terra–Luna; i modelli della litosfera, dell’idrosfera e delle rappresentazioni cartografiche. Linguaggi, modelli e rappresentazioni della chimica Provate a disegnare un atomo. Molto probabilmente il “modello” che avete disegnato ricorda le vostre esperienze scolastiche durante le lezioni di chimica. Palline, punti, lettere dell’alfabeto, nubi, palloncini, lobi, persino omini, sono alcune rappresentazioni con cui gli atomi vengono raffigurati nei libri di testo. Ciascuna di queste rappresentazioni ha il suo fascino, ma si tratta sempre di un modello. La parola atomo deriva dal greco átomos (a- priv. e témnein, tagliare) che significa “indivisibile”, “che non può essere tagliato”. Sebbene oggi sia possibile “tagliare” gli atomi, il nome con cui essi si designano è rimasto inalterato. La radice greca si ritrova anche nel nome delle diatomee (da diátomos, «che taglia in due»): osservando al microscopio una comune diatomea possiamo capire il perché del loro nome. Anche il termine anatomia ricorda il “tagliare”, cioè sezionare un corpo per vedere com’è fatto. Il modello atomico di Thomson è qualche volta ricordato come modello “a panettone”: l’atomo di Thomson è un oggetto denso e solido portatore di una carica positiva contenente dispersi al proprio interno gli elettroni a carica negativa, come i canditi in un panettone. Questa è l’immagine che viene di solito presentata dai libri di chimica. Quello di Rutherford è spesso ricordato come “modello planetario” per via dell’analogia con il sistema solare: l’atomo è paragonabile a un sistema solare in miniatura con gli elettroni (i pianeti) che ruotano attorno al nucleo centrale (il Sole). Meno metaforici sono i successivi modelli ondulatori introdotti nei primi decenni del xx secolo dai fisici quantistici. Il linguaggio della chimica trabocca di punti, frecce, trattini, numeri e altri simboli grafici. «Al fine di esprimere con simboli l’idea della combinazione chimica – scriveva Gilbert Newton Lewis intorno al 1916 – intendo usare due punti per rappresentare due elettroni che agiscono come legame d’unione fra due atomi». Un punto di Lewis rappresenta un elettrone; un trattino di Lewis (–) indica due elettroni legati assieme (cioè un doppietto elettronico di legame o solitario), mentre doppi e tripli legami si denotano rispettivamente con due (=) e tre trattini sovrapposti. Una serie di punti simboleggia il “ponte chimico” (legame o ponte idrogeno) che l’atomo di idrogeno di una molecola d’acqua, per esempio, costruisce con l’atomo di ossigeno di un’altra molecola d’acqua. Senza questi ponti chimici la vita probabilmente non sarebbe possibile, almeno così come la conosciamo. Si usa una freccia per indicare la direzione di una reazione chimica irreversibile (dai reagenti ai prodotti e non viceversa), una freccia con due punte opposte per le reazioni chimiche reversibili (dai reagenti ai prodotti e viceversa). Sempre una freccia con due punte opposte separa le forme limite di risonanza che si differenziano per la distribuzione degli elettroni, a parità di disposizione degli atomi. Ancora una freccia rappresenta la cessione completa di un doppietto elettronico da parte di un atomo impegnato in un legame dativo (legame di coordinazione). Frecce curve rappresentano il trasferimento di elettroni da un atomo all’altro, mentre frecce opposte verticali possono essere usate per designare lo spin opposto di due elettroni che condividono lo stesso sottolivello energetico. Infine, due “frecce” (cioè due assi orientati) fra loro perpendicolari ci ricordano uno degli strumenti più potenti della chimica e di tutte le scienze: il sistema di assi cartesiani ortogonali! EdMax
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Post n°93 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Chiamare gli atomi con il loro nome... A ciascun elemento chimico della tavola periodica è stato assegnato un nome e un simbolo. Questa volta è il latino che prende il sopravvento nella paternità dei nomi degli elementi chimici. Solo tredici elementi hanno per simbolo una lettera maiuscola; tutti gli altri sono simboleggiati da due lettere di cui solo la prima maiuscola. Di solito la lettera o le lettere del simbolo corrispondono all’iniziale del nome, ma non mancano eccezioni: il simbolo Na per il sodio deriva da natrium (la soda o sodium), il simbolo K per il potassio da kallium, nome latino della potassa. Lo zolfo deriva da sulphur, da cui il simbolo S; cuprum (dall’isola di Cipro) è il nome latino del rame, da cui il simbolo Cu. Il calcio si trova nella calce (simbolo Ca); l’alluminio è «avidissimo di ossigeno con cui si combina in tutte le temperature formando l’allumina» (Al, da aluminium); ferrum, aurum, e argentum sono i nomi latini di ferro (Fe), oro (Au), e argento (Ag). I nomi latini del rubidio e del cesio ricordano i loro colori: rosso cupo il primo (rubidus, simbolo Rb), grigio-azzurro il secondo (cæsius, Cs). Due città svedesi, Stoccolma (dal latino Holmia, in svedese Holme, isola) e Ytterby sono immortalate nell’olmio (Ho) e nell’itterbio (Yb); la capitale danese Copenaghen, in latino Hafnia, dà il nome all’afnio (Hf), mentre l’intera Scandinavia è rappresentata dallo scandio (Sc). Germania e Russia (Ruthenia) hanno i loro rappresentanti: germanio (Ge) e rutenio (Ru), mentre la Francia ne ha due: il francio (Fr) e il gallio (Ga), che ricorda sia il nome latino della Francia (Gallia), sia il nome del suo scopritore, Francois Lecocq de Boisbaudran (le coq, gallo in francese). Sono presenti anche due continenti: l’europio (Eu) e l’americio (Am); il berkelio (Bk) deve il suo nome alla prestigiosa università di Berkeley, nello stato americano che dà il nome al californio (Cf), mentre Strontian, una modesta località scozzese, dà il nome allo stronzio (Sr). Il magnesio (Mg) ricorda la Magnesia, una provincia dell’antica Tessaglia. Infine un fiume, il Reno, dà il nome al renio (Re). Nomi di elementi che derivano invece dal greco sono l’ossigeno (O), da oxis, acido (anche se non è costituente di tutti gli acidi); l’azoto, da a-zoé, «privo di vita», il cui simbolo N richiama la sua presenza in nitriti e nitrati; il gas giallo-verde cloro (Cl) è il greco chloros, verde, che troviamo nella clorofilla (foglia verde) e nelle clorofite (alghe verdi); il selenio (Se) deve il suo nome alla Luna (selene) per il suo aspetto argenteo; la lettera I simboleggia lo iodio, di colore violetto, ioeides; il nome del cromo (Cr, da chroma, colore) richiama i colori dei suoi composti, così come i nomi iridio (Ir, iris, arcobaleno) e rodio (Rh, rhodon, rosa); il bromo (Br) prende il nome da bromos, tanfo; come l’osmio (Os, da osme, puzza), non deve avere un odore gradevole. Il nome argon (Ar, dal greco argon, inattivo) riflette la sua nobiltà, mentre il neon (Ne), anch’esso nobile, ha un nome che ricorda il semplice fatto di essere stato una nuova scoperta. Altri elementi chimici prendono il nome da illustri scienziati: dall’einsteinio (Es) al fermio (Fm), dal mendelevio (Md) al nobelio (No), dal lawrencio (Lr) al curio (Cm), dal rutherfordio (Rf) al bohrio (Bh), fino al meitnerio (Mt) e al roentgenio (Rg). Anche gli dei hanno prestato i propri nomi: titanio (Ti, da Titani, figli di Gea, dea della Terra; Titano è anche il nome del principale satellite di Saturno), promezio (Pm, da Prometeo), mercurio (Hg), l’«argento vivo che scorre veloce, come il dio medesimo piè veloce», come scrive Peter W. Atkins […] Vi segnalo: Peter W. Atkins, Il Regno periodico – Viaggio nel mondo degli elementi chimici, Zanichelli 2008 Peter W. Atkins, Molecole, Zanichelli 1992 Philip Ball, H2O – Una biografia dell’acqua, RCS 2000 Penny Le Couteour e Jay Burreson, I bottoni di Napoleone – Come 17 molecole hanno cambiato la storia, Longanesi 2006 Roald Hoffmann, La chimica allo specchio, Longanesi 2005 Isaac Asimov, Breve storia della chimica – Introduzione alle idee della chimica, Zanichelli 2008 Cervellati, Perugini, Guida alla didattica della chimica nella scuola superiore, Zanichelli 1991 Marco Ciardi, Breve storia delle teorie della materia, Carocci 2003 Joe Schwarcz, Il genio della bottiglia – La chimica del quotidiano e i suoi segreti, Longanesi 2010 EdMax |
Post n°94 pubblicato il 06 Maggio 2011 da EdMax
Lessico e modelli delle Scienze della Vita Sorprende che l’intero patrimonio della biosfera sulla Terra possa essere suddiviso soltanto in due categorie di viventi sulla base della presenza o meno del nucleo cellulare: batteri e altri organismi unicellulari non possiedono un nucleo, e pertanto sono detti procarioti (dal greco pro, senza, e karyon, nucleo). È grazie alla loro capacità eccezionale di colonizzare tutti gli ambienti della Terra, dalle calotte polari alle fosse oceaniche, che sono gli unici rappresentanti sovrani del regno Monere. Tutti gli altri organismi, dal plasmodio della malaria all’uomo, hanno cellule con un nucleo ben visibile al microscopio, e sono detti pertanto eucarioti (dal greco eu, vero). Essi comprendono organismi che appartengono a tutti gli altri quattro regni: Protisti, Funghi, Piante e Animali. Dal punto di vista cellulare, vi sono poche differenze tra un essere umano e una muffa mucillaginosa! Il prefisso greco cito o cita (che può essere anche suffisso) significa semplicemente “cellula”. Se tralasciamo cellule come quelle nervose o dei reni, che sono state battezzate con il nome specifico di neuroni e nefroni rispettivamente, altri tipi di cellule del nostro corpo possono essere denominate aggiungendo il suffisso cita (citi al plurale) al nome contratto del tessuto o dell’organo a cui esse appartengono. Così, le cellule del fegato si chiamano epatociti (dal greco hepatos, fegato), quelle del cuore cardiociti; osteociti, miociti e condrociti sono i nomi con cui si designano le cellule di ossa, muscoli e cartilagine rispettivamente. Anche il sangue, che è un tessuto connettivo, ha le sue cellule: globuli rossi e globuli bianchi prendono il loro nome dal caratteristico colore che esse presentano, e per tale ragione sono dette anche eritrociti e leucociti rispettivamente. Le piastrine sono anche chiamate trombociti per la loro attitudine a formare coaguli o trombi. Inutile aggiungere che la citologia è la scienza che studia le cellule. Il linguaggio cellulare diventa sempre più complesso quando ci addentriamo nel mondo subcellulare e biomolecolare. Molecole e macromolecole possono essere rappresentate con atomi uniti da trattini, formule brute e di struttura, catene lineari o ramificate, anelli chiusi, modelli tridimensionali con vari colori, persino omini che si tengono per mano. La doppia elica del dna ricorda una “scala a chiocciola”, la duplicazione del dna una “cerniera lampo” che, aprendosi, determina lo svolgimento dei due filamenti del dna. Gli enzimi, secondo la lock and key hypothesis di Emil Fischer, sono “serrature che possono essere aperte da una sola chiave”. I recettori somigliano a “nastri trasportatori” per il passaggio selettivo di sostanze tra diversi compartimenti, oppure a “omini le cui braccia afferrano le molecole giuste”. Nelle cellule procariote il dna fluttua nel citoplasma, che è un deserto gelatinoso macchiato qua e là di “corpiccioli granulari”. Nelle cellule eucariote, invece, il dna è gelosamente conservato all’interno di una doppia membrana nucleare, e il citoplasma è affollato di un’incredibile varietà di strutture che viene descritta secondo un lessico alquanto curioso, a cominciare dal termine che è stato designato per indicare queste strutture: organuli, cioè “piccoli organi”. Gli organuli presenti nelle cellule eucariote vengono denominati sulla base della forma e delle strutture osservate. I mitocondri sono le “centrali energetiche” della cellula in cui si produce il “carburante” (l’ATP); il loro nome deriva da mitos, filo, e chòndros, granello: nessun riferimento alla catena respiratoria e ai fondamentali processi energetici. Invece, il termine lisosoma (da lysis, scioglimento) rispecchia la funzione di questi importanti organuli cellulari che demoliscono le sostanze provocandone la lisi. Dal punto di vista etimologico, i ribosomi sono semplicemente “corpi rugosi” (o granulari), presenti soprattutto nel reticolo endoplasmatico detto (appunto) rugoso (il reticolo endoplasmatico privo di ribosomi è detto liscio); ma dal punto di vista funzionale, i ribosomi sono i “segretari chimici” alla base di una “catena di montaggio” per la costruzione delle proteine. L’apparato di Golgi prende il nome dal suo scopritore, l’istologo italiano Camillo Golgi (1843-1926). Corpiccioli e bastoncini, filamenti e granuli, pieghe e creste, tubicini e membrane, sacculi e cisterne, canalicoli e vescicole: e così via, nel lessico variegato del mondo subcellulare! Termini più comuni si ritrovano allorché vengono descritti gli organi: incontriamo il rene a fagiolo, lo stomaco a sacco, il fegato a lobi, il cuore a pugno chiuso, i vasi sanguigni ad albero. EdMax
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Personaggi della matematica: una bibliografia Eric T. Bell, I grandi matematici, RCS 2010 Carl B. Boyer, Storia della matematica (Introduzione di Lucio Lombardo Radice), Mondadori 1980 Lucio Lombardo Radice, La matematica da Pitagora a Newton, Muzzio 2010 Denis Guedj, Il teorema del pappagallo, Longanesi 2000 Tony Crilly, Cinquanta grandi idee di matematica, Dedalo 2009 John Derbyshire, L'ossessione dei numeri primi – Bernhard Riemann e il principale problema irrisolto della matematica, Boringhieri 2006 Marcus Du Sautoy, L'enigma dei numeri primi – L'ipotesi di Riemann, il più grande mistero della matematica, RCS 2004 Marcus Du Sautoy, Il disordine perfetto – L’avventura di un matematico nei segreti della simmetria, RCS, 2007 David Leavitt, L'uomo che sapeva troppo – Alan Turing e l'invenzione del computer, Le Scienze 2009 Mario Livio, L’equazione impossibile – Come un genio della matematica ha scoperto il linguaggio della simmetria, RCS 2005 Mondo matematico, La setta dei numeri - Il teorema di Pitagora, RBA 2011 Reviel Netz, William Noel, Il codice perduto di Archimede, RCS 2007 Adriano Petta, Antonino Colavito, Ipazia – Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, La Lepre 2009 Silvia Ronchey, Ipazia – La vera storia, Rizzoli 2010 Alfred S. Posamentier, Ingmar Lehmann, I (favolosi) numeri di Fibonacci, Muzzio 2010 Siobhan Roberts, Il Re dello Spazio Infinito – Storia dell’uomo che salvò la geometria, RCS 2006 Simon Singh, L'ultimo teorema di Fermat – L'avventura di un genio, di un problema matematico e dell'uomo che lo ha risolto, RCS 1997
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Darwin e darwinismo - Evoluzione ed evoluzionismo: una bibliografia Sean B. Carroll, Al di là di ogni ragionevole dubbio – La teoria dell'evoluzione alla luce dell'esperienza, Codice edizioni 2008 Richard Dawkins, Il più grande spettacolo della Terra – Perché Darwin aveva ragione, Mondadori 2010 Richard Dawkins, Il gene egoista – La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori 1992 Richard Dawkins, L’orologiaio cieco – Creazione o evoluzione, Mondadori 2003 Stephen Jay Gould, I have landed – Riflessioni di un naturalista sull'evoluzione, Le Scienze 2010 Stephen Jay Gould, La vita meravigliosa – I fossili di Burgess e la natura della storia (traduzione di Libero Sosio), Feltrinelli 2007 John Maynard Smith, La teoria dell'evoluzione (Presentazione di Giuseppe Montalenti), Newton Compton 1976 Piergiorgio Odifreddi, In principio era Darwin – La vita, il pensiero, il dibattito sull'evoluzionismo, Longanesi 2009 Telmo Pievani, La teoria dell'evoluzione – Attualità di una rivoluzione scientifica, Il Mulino 2006 Niles Eldredge, Darwin – Alla scoperta dell'albero della vita, Codice edizioni 2006 Hal Hellman, Le dispute della scienza (capitolo 5: Il mastino di Darwin contro Sam il viscido: le guerre di evoluzione, pag. 97-127), Cortina 1999 Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita, Newton&Compton 1989
Nella mia versione de L’origine delle specie per selezione naturale o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita di Charles Darwin, pubblicata nel 1973 e nel 1989 da Newton & Compton, l’introduzione è di Pietro Omodeo e la traduzione di Celso Balducci. Nell’introduzione, Pietro Omodeo parla dell’evoluzionismo predarwiniano della prima metà del Settecento, dominato dal Systema naturae di Linneo (1735) e dallo studio dei fossili, che «non appaiono più come scherzi di natura». Siamo all’epoca in cui Newton e Dalton rivoluzionano la fisica e la chimica, «rendendo antiquata e insufficiente la fisica di Cartesio e poco credibile il creazionismo che da quella fisica derivava. Non sorprende quindi che le prime tesi evoluzionistiche – scrive Omodeo – vengano propugnate dai collaboratori dell’Encyclopédie (o Dictionnaire raisonné des sciences des arts et des métiers) capolavoro della borghesia artigianale alleata con l’aristocrazia illuminata, monumento alla nascente tecnologia settecentesca». Poi Omodeo parla del creazionismo, che risale alla fine del Seicento ma che viene «accettato nel magistero ecclesiastico intorno al 1740», e poi passa all’evoluzionismo all’epoca della rivoluzione francese, con i contributi del nonno di Charles, Erasmus Darwin, del francese J.B. Lamarck e dell’italiano Alberto Fortis. Poi, l’evoluzionismo romantico di Robinet, Goethe e Ernst Haeckel della «romantica Naturalphilosopie», che «annovera nomi di grande prestigio come quelli di Alexander von Humboldt, Karl von Baer…», alcuni dei quali si opposero all’evoluzionismo perché «vi vedevano implicazioni materialistiche». In Francia, la Naturalphilosopie trovò seguaci in Étienne Geoffroy St.-Hilaire, che si scontrò in un’aspra polemica con il barone Cuvier perdendo la battaglia e determinando così la «sconfitta dell’evoluzionismo francese». Poi: Lyell e l’evoluzionismo, le scienze naturali in Inghilterra nel primo Ottocento, per finire al Viaggio intorno al mondo di Charles Darwin e alle prime idee intorno alla selezione naturale. Omodeo continua l’introduzione al libro di Darwin discutendo della comparsa, nel 1844, dell’opera anonima Vestiges of the natural history of creation (ma dovuta a Robert Chambers), per poi descrivere la “conversione” di Darwin da «da geologo a zoologo» e la felice espressione «sopravvivenza del più adatto» di Herbert Spencer che ancora oggi viene riportata dai libri di testo come se fosse la conclusione di Darwin. Infine, Omodeo parla anche dell’evoluzionismo di Alfred Russell Wallace, dell’accoglienza a L’Origine delle specie di Darwin, del problema dell’origine della variabilità, prima di concludere la sua introduzione dicendo che L’origine delle specie «è un’opera nata troppo prima del tempo adatto; la genetica di quel periodo era troppo arretrata per fornire giustificazioni plausibili intorno all’evolvere delle specie». EdMax |
La Rivoluzione Scientifica: una bibliografia
Luigi Borzacchini, Il computer di Ockham – Genesi e struttura della rivoluzione scientifica, Dedalo 2010 Herbert Butterfield, Le origini della scienza moderna, Il Mulino 1998 Thomas S. Kuhn, Le rivoluzioni scientifiche, Il Mulino 2008 Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi 2009 Alexandre Koiré, Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, Einaudi 1967 Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza 1997 Paolo Rossi (diretta da), Dalla Rivoluzione scientifica all'età dei lumi, TEA 2000 Paolo Rossi (a cura di), La rivoluzione scientifica – Da Copernico a Newton, Loescher 1976 Julian Barbour, La fine del tempo – La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi 2005 Emilio Segrè, Personaggi e scoperte della fisica – Da Galileo ai quark, Mondadori 1996 Ètienne Klein, Sette volte la rivoluzione – I grandi della fisica contemporanea, Cortina 2006 Maurizio Mamiani, Il prisma di Newton – I meccanismi dell'invenzione scientifica, Laterza 1986
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